Fai un film contro Sharon e diventi subito un opinionista ascoltato
è la regola. ma è bene ricordarlo
Testata: La Stampa
Data: 06/02/2005
Pagina: 11
Autore: Fulvia Caprara
Titolo: Non sopporto la messa in scena della pace
Essere israeliani e ottenere consensi internazionali. Come si fa ? semplice, si dirige un film contro il "muro", si viene invitati in tutti i festival, si vincono premi internazionali perchè non c'è niente che piaccia di più di un israeliano che lancia atti d'accusa contro il proprio governo. Tutto ciò è possibile in Israele, uno stato democatrico dove la libertà è totale. Ecco allora come Simone Bitton, la regista del film "Il muro", comincia ad essere intervistata sul nostri giornali, non solo come regista ma coome opinionista. Come avviene sulla STAMPA di oggi 6-02-2005. "Tutto dipende da Sharon", dichiara la regista, ed è musica per le orecchie che gioiranno ancora di più leggendo "La mia speranza è rappresentata dai giovani israeliani che rifiutano di entrare nell'esercito". Speravamo che l'uscita di Mario Varca dalla direzione esteri della Stampa potesse portare un'aria nuova. Ci eravamo sbagliati.

Ecco l'articolo:

ROMA
SIMONE Bitton è nata in Marocco nel 1955, in una famiglia ebrea, da genitori che parlavano in arabo tra di loro e in francese con i figli. Ha frequentato le scuole in Francia e quando, con i suoi familiari, nel 1966, si è trasferita a Gerusalemme, ha imparato velocemente l’ebraico, ma non ha smesso di «leggere in francese e cantare in arabo». Per lei, che si definisce «un’ebrea araba, la cui intera anima è sede di dialogo continuo», la realtà del Muro, costruito, a partire dal 2002, per dividere i palestinesi dagli israeliani, è più assurda che mai: «Ho sentito questo film come un dovere e non solo come un desiderio». Presentato all’ultimo Festival di Cannes nella «Quinzaine des realisateurs», premiato al Festival di Pesaro e a Montreal, «Il muro», in concorso al «Sundance Film Festival» e ora sui nostri schermi, è il primo lungometraggio di Bitton.
E’ stato difficile girare «Il muro»?
«Le mie difficoltà sono nulla rispetto a quelle con cui deve vedersela ogni giorno chi vive in quelle zone. Anzi, direi che è quasi osceno parlarne. Comunque sono ebrea-palestinese, nessuno può dire a quale popolo appartengo. E’ un gran privilegio che in questo caso mi ha fatto gioco. L’unico posto dove non sono potuta arrivare è stata la striscia di Gaza, lì il Muro è stato completato, non c’è nessun check-point, non danno autorizzazioni, i controlli sono talmente rigidi che è impossibile avvicinarsi».
Perché le interessava girare il documentario sul Muro ancora in lavorazione?
«Ho voluto fare il film prima che il Muro fosse finito e quindi diventato un dato immutabile, ma anche nel momento in cui non era più un’idea astratta. Del Muro di Berlino abbiamo sempre avuto tantissime immagini, ma nessuna testimoniava la sua costruzione. Volevo filmare le reazioni delle persone davanti a una realtà in via di cambiamento, a un paesaggio bellissimo che sta per essere sfigurato. Ero anche interessata a scoprire se questo progetto, sostenuto dalla maggioranza degli israeliani finché era solo un’ipotesi politica, continuava a trovare d’accordo chi oggi si trova a vivere vicino al Muro. Nel mio viaggio ho incontrato palestinesi e israeliani, fra cui molti coloni che non sono sicuramente di sinistra. Tutti hanno ribadito la follia, l’assurdità, l’inutilità del Muro».
Come si vive con un’anima divisa in due?
«Si vive con una grande ricchezza, ma non è una vita facile dal punto di vista emotivo. Quando c’è un attentato suicida per me è naturale soffrire per la perdita dei ragazzi ebrei che muoiono, ma anche per quella dei ragazzi palestinesi che si fanno esplodere. Insomma, piango sempre due volte e credo che tutto il mondo dovrebbe fare così, che la mia doppia identità dovrebbe appartenere a tutti».
Abu Mazen porterà dei cambiamenti?
«No, non credo che possa cambiare nulla, anche se ho salutato con gioia la grande maturità politica dei palestinesi che spesso hanno fatto dieci, quindici chilometri a piedi in pieno inverno per andare a votare. Abu Mazen non ha potere. Il problema è che la Palestina è occupata e tutto dipende da Sharon, se vorrà andarsene e ridare la libertà ai palestinesi oppure no. Questo lo sa tutto il mondo. Quello che non sopporto è lo spettacolo della pace, le stette di mano fra uomini politici, le conferenze, e nulla che veramente cambia».
C’è ancora spazio per la speranza?
«La mia speranza è rappresentata dai giovani israeliani che rifiutano di entrare nell’esercito. Un solo ragazzo che dice di no alla guerra vale quanto tre conferenze di pace. Fino a quindici anni fa questi rifiuti erano impensabili».
Si aspettava che il suo film avrebbe avuto tanto successo?
«No. Pensavo che sul Medio Oriente la gente fosse diventata ormai cieca e sorda e invece avevo torto. Le persone hanno voglia di sapere quello che succede, hanno capito che gli effetti del Muro ricadranno su tutti, che il sangue destinato a scorrere lì scorrerà anche qui».
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