Martedì prossimo i colloqui Sharon-Abu Mazen
due analisi da Gerusalemme e Roma
Testata: Il Foglio
Data: 05/01/2005
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: Vent'anni dopo, a Sharm
Due analisi molto accurate sul Foglio di oggi, da Roma e Gerusalemme.
Ecco il primo articolo:

Gerusalemme.
La prima volta che il presidente egiziano Hosni Mubarak e il premier
israeliano Ariel Sharon si sono incontrati in veste ufficiale era il 9 ottobre del 1981 e l’incontro che avranno martedì prossimo a Sharm el Sheikh, di fatto, rimette in moto proprio il cammino interrotto quel giorno di 24 anni fa. Due dozzine d’anni, persi per la pace in medio oriente. Il 9 ottobre del 1981 infatti, Mubarak, presidente dell’Egitto da tre giorni, era ferito, appena scampato all’attentato che aveva ucciso il suo predecessore, Anwar al Sadat,
con lui il processo di pace. Il 9 ottobre del1981, Menachem Begin, premier d’Israele, e Sharon, allora ministro della Difesa, dovettero quindi limitarsi a prendere atto che Mubarak non avrebbe portato avanti il progetto che era costato la vita a Sadat, che non ne aveva la determinazione, che il primo atto
del terrorismo islamico fra gli assassini c’era anche Ayman al Zawahiri,
oggi leader di al Qaida) era andato a segno. Cinque giorni dopo quell’incontro,
il 14 ottobre 1981, era morto Moshe Dayan, il grande generale di cui oggi
Sharon è erede. I loro due percorsi sono apparentemente opposti: Dayan "nasce"
laburista, conquista il Sinai e poi "tradisce" la sinistra per diventare ministro degli Esteri di Begin e riconsegnare il Sinai a Sadat. E oggi Sharon, che nasce falco", "ministro dei coloni", non si ferma davanti all’eventualità di distruggere politicamente il "suo" Likud, sfida 150 mila settlers che manifestano contro di lui, pur di portare a termine il disegno che fu di Sadat, Begin e Dayan. Non si comprende la portata storica di quanto avviene oggi in Israele se non si guarda alle tormentate biografie di uomini come Begin, Dayan e Sharon. Questi leader hanno avuto la forza di smentire se stessi nel 1979, quando abbandonarono sogno del Grande Israele e impostarono un progetto che soltanto oggi si può realizzare: una pace con i palestinesi, possibile unicamente sotto garanzia egiziana. "Date per scontato che non lasceremo mai gli insediamenti in Samaria, Giudea e Gaza", dichiarava ai giornalisti Sharon il 25 marzo 1981. Oggi li lascia. Li può lasciare, può spaccare i Likud, il suo partito, può sfidare i settlers, perché ha vinto la sua scommessa: ha modificato la leadership palestinese. Questo è oggi il punto di forza di Ariel Sharon, così come lo fu di Begin, di Sadat e di Dayan: non riconoscere legittimità al potere di Yasser Arafat – e con lui di Saddam Hussein, Bashar el Assad, Muammar Gheddafi, il regno saudita e il Fronte del Rifiuto" (nel 1974 alcune organizzazioni guidate dal Fronte Popolare per Liberazione della Palestina di George Habbash abbandonano l’Olp, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, sostenuti dall’Iraq e dalla Libia) – ma essere
pronto all’accordo, anche a costo altissimo, con una dirigenza araba affidabile,
rappresentata da Egitto e Giordania. Sharon ha capovolto la linea di Itzaac Rabin("trattare come se il terrorismo non esistesse; combattere il terrorismo, come se la trattativa non esistesse") e ha prima sconfitto il terrorismo, chiudendo il negoziato: ha alzato la barriera difensiva, ha ucciso i leader di Hamas; ha rifiutato la trattativa con il rais Arafat, ha sfidato l’isolamento
internazionale. Soltanto alla fine, dopo aver avuto la pazienza di attendere la
morte di Arafat e aver vinto su tutta la linea, una volta modificata la leadership della controparte, ha aperto la trattativa. La road map solo con la fine del terrorismo Martedì, Sharon si presenterà con offerte non indifferenti ad Abu Mazen, ma soltanto perché sa che questi metterà la sua indubbia debolezza nella lotta contro il terrorismo al riparo dell’autorità politica – e
della forza dei servizi segreti – dell’Egitto e della Giordania. Nel 1981, Begin, Dayan e Sharon volevano trattare la restituzione dei Territori soltanto con l’Egitto e la Giordania. Ci si mise di mezzo l’Europa, che si appoggiò
al "Fronte del Rifiuto" (forte del petrolio) e legittimò Arafat. Oggi, chiusa quella parentesi dannosa, dopo il sangue dell’Intifada delle stragi, eliminato Saddam, Gerusalemme può finalmente trattare conpalestinesi, con il Cairo e con Amman. E’ soltanto un inizio. Sharon è stato netto ieri al telefono con il premier norvegese, Kjell Magne Bondevik, che gli chiedeva la ripresa rapida della road map: "Israele ha intrapreso passi per aiutare Abu Mazen,
ma la parte palestinese non ha fatto nulla, salvo dispiegare forze nella Striscia di Gaza, senza sostanziali gesti nella lotta contro terrorismo. L’avvio della road map ci sarà soltanto quando i palestinesi fermeranno l’attività terroristica, ne smantelleranno le infrastrutture e realizzeranno le riforme". Sharon, insomma, ha ben chiaro che Abu Mazen deve ancora affrontare il suo scontro con i terroristi palestinesi. Ha interesse rafforzarlo, ma soltanto se Abu Mazen vuole rafforzarsi, stanando i tanti seguaci di Arafat ancora attivi. E armati.
Ecco il secondo,da Roma:
Roma. In prospettiva del vertice di martedì sulle rive del Mar Rosso, a Sharm
Sheikh, sia da parte palestinese sia da parte israeliana c’è un’atmosfera di cautela, d’indubbia attesa per il primo passo verso il dialogo. Il premier israeliano, Ariel Sharon, e il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, si troveranno ufficializzare l’inzio di un nuovo processo
di pace. Il vertice ha un profilo internazionale, coinvolge infatti altri attori importanti della regione. A ospitarlo è l’Egitto di Hosni Mubarak e tra i partecipanti anche il re di Giordania, Abdullah II. Il segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, ha invece circoscritto, ieri da Londra, dove si trovava in visita, il ruolo degli Stati Uniti nella preparazione dell’incontro,
spiegando che, nonostante le voci ricorrenti dei giorni scorsi, non parteciperà al summit, ma sarà comunque nella regione lunedì. Rice ha detto che Washington è però pronta ad addestrare le forze di sicurezza palestinesi, che dovranno essere unificate diventare "parte della soluzione, non parte del problema". Al centro dei colloqui c’è un possibile cessate il fuoco che, se raggiunto, metterebbe fine a quattro anni d’Intifada. Abu Mazen spera di annunciarlo a Sharm el Sheikh. "E’ un evento importante. Per la prima volta in molti anni è possibile parlare con i nostri vicini palestinesi – dice al Foglio l’ambasciatore israeliano in Italia, Ehud Gol – Questo perché non c’è più Yasser
Arafat. Oggi abbiamo una grande possibilità, una nuova atmosfera. I palestinesi
hanno un nuovo presidente eletto democraticamente in Iraq ci sono state le elezioni". L’ambasciatore israeliano non crede che si arriverà subito a una pace totale, ma l’incontro è certo un primo passo fondamentale. questa situazione però i gesti d’apertura non devono essere "a senso unico – continua
Gol – ma a dopppio senso; noi siamo pronti a fare compromessi per la pace".
L’ottimismo c’è, anche se dosato. "L’incontro di martedì sancisce la ripresa del
dialogo – spiega il primo segretario della delegazione dell’Autorità nazionale palestinese in Italia, Ali Rashid – il dialogo non deve essere inteso come un obiettivo per sé, ma come un mezzo". Sostiene Rashid che gli attori principali della vicenda da soli non sono in grado di trovare una soluzione: "Oggi nella società palestinese e in quella israeliana i confini sono netti tra chi vuole continuare la violenza e chi vuole il dialogo. Siamo però ancora lontani da una soluzione finale. L’aver imboccato questa strada, con la partecipazione di altre potenze regionali e degli Stati Uniti, porterà Israele ad ammorbidire
le sue posizioni". Abdullah, il decoro del summit La collaborazione di più attori a livello regionale crea ottimismo. Sia per i palestinesi sia per gli israeliani è importante fatto che Egitto, Giordania e Stati Uniti entrino
a far parte del processo. "Il summit Sharm el Sheikh è sicuramente un segnale
positivo per la relazioni tra Israele e l’Anp dice al Foglio Ghassan Khatib, ministro Lavoro palestinese – però questo è primo passo. Il vertice è l’inizio di un lungo lavoro che dovremo fare gomito a gomito con gli israeliani e dovremo aspettare sviluppi di questo incontro per poter dire si tratterà di un giorno storico o no. successo (o l’insuccesso) del summit dipenderà principalmente da come le due parti intendono impostare i negoziati sulla road
map e se riusciranno ad accordarsi, o per meno a venirsi incontro, sui punti fondamentali delle trattative portate avanti nelle ultime due settimane".
L’ottimismo non è però condiviso da tutti. Danny Rubinstein, giornalista israeliano autore del libro "Il mistero Arafat", non vede le ragioni. Al Foglio racconta aver sentito parlare Abu Mazen durante recente visita a Mosca, "diceva che non avrebbe mai ceduto su Gerusalemme come capitale. Inoltre, sul tema del rilascio dei prigionieri ci sono forti divergenze e Israele né i palestinesi sembrano voler cedere". Yigal Carmon, presidente del Middle East Media Research Institute, spiega invece al Foglio che questo sarà un incontro tra due persone che hanno buone intenzioni, in una situazione però impossibile da gestire: "Sharon è serio, nonostante Israele ci sia chi dice il contrario. Mahmoud Abbas (Abu Mazen, ndr) sta facendo buon lavoro, ma il contesto per lui è difficile, non riesce ad avere il completo controllo sulla sua popolazione. Quello che Israele può accettare in questo momento accordo ad interim. I palestinesi invece vogliono arrivare subito allo status finale. Per fare questo però Israele ha bisogno certezze. Poi c’è il presidente Hosni Mubarak, che fa il suo gioco, appoggiando Hamas e mettendolo allo stesso livello dell’Olp.
Infine c’è re Abdullah di Giordania, l’uomo felice, che praticamente è fuori dai
negoziati: la decorazione giusta per dare summit un’idea di unità regionale".
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