Elezioni irachene: per Giulietto Chiesa sono una farsa, per Ali Rashid una vittoria dell'antiamericanismo
nel fronte antiamericano e antisraeliano ancora non c'è accordo su come deformare la realtà
Testata:
Data: 02/02/2005
Pagina: 4
Autore: Umberto De Giovannageli - Giulietto Chiesa - Ali Rashid
Titolo: Un voto senza osservatori. Non è democrazia - Boomerang anti-Bush
L'UNITA' di mercoledì 2 febbraio 2005 pubblica a pagina 4 un' intervista acritica di Umberto De Giovannangeli a Giulietto Chiesa sulle elezioni irachene.
Chiesa sostiene che le elezioni sono invalide, per mancanza di osservatori internazionali, e perchè i sunniti non vi hanno partecipato, il che rende "inesistente" il popolo iracheno.
Sul primo punto, oltre a ricordare che gli osservatori internazionali non erano presenti a causa della defezione dell'Unione Europea e dell'Onu, rimandiamo all'intervista all'inviato ONU Carlos Valenzuola, da noi ripresa da REPUBBLICA, e leggibile più in basso.
Il secondo argomento, basato su una premessa falsa, ci sembra semplicemente rivelatore del disprezzo di Chiesa per la democrazia e per il popolo dell'Iraq, che ha abbondantemante dimostrato di esistere.
Ecco l'articolo, "Un voto senza osservatori. Non è democrazia":

ROMA «Queste elezioni non sono state fatte per dare la democrazia al popolo iracheno ma per trovare una forma in cui apparisse legittimata la presenza straniera in Iraq. Se di trionfo si deve parlare, non è della democrazia ma della propaganda americana». A sostenerlo è Giulietto Chiesa, giornalista ed europarlamentare, uno dei pochi testimoni diretti internazionali delle elezioni del 30 gennaio. Le sue considerazioni sono anche il frutto di questa esperienza sul campo.
Lei ha seguito le elezioni irachene a Nassiriya e Bassora. Alla luce della sua esperienza si può parlare, come da più parti è stato fatto, delle elezioni irachene come di un trionfo senza ombre della democrazia contro il terrore?
«Questa è una sciocchezza clamorosa, tutta propagandistica che era del resto largamente prevedibile alla luce di come era stato preparato il tutto...».
Vale a dire?
«Tutto è stato preparato come una grande operazione propagandistica che, bisogna riconoscerlo, è riuscita perfettamente: se dovessi dare un titolo a queste elezioni, direi che questa è una vittoria americana. Trionfo della democrazia? Bisogna solo ridere di fronte ad affermazioni del genere. Io ho guardato queste elezioni a bordo di una macchina blindata che era preceduta e seguita da altre due macchine blindate con otto guardie del corpo armate fino ai denti. Questo è il modo come io, parlamentare europeo, ho potuto guardare queste elezioni. E questo già dice tutto. Per capire meglio la "democraticità" di queste elezioni, rispetto agli standard minimi internazionali, occorre fare un passo indietro...».
A quando?
«Ottobre 2004, quando mandai una lettera al presidente del Parlamento europeo Borrel chiedendo assieme ad altri europarlamentari, tra i quali Lilli Gruber e Michele Santoro, che venisse inviata una delegazione a Baghdad e in altre città irachene per capire come stavano le cose. La risposta mi è arrivata con grande ritardo, e non da Borrel ma dalla conferenza dei capigruppo: tutti i capigruppo si sono riuniti, hanno esaminato la situazione e mi hanno risposto che non era possibile inviare in Iraq alcuna delegazione di osservatori perché non esistevano, cito testualmente, "le condizioni minime di sicurezza per una operazione del genere". L’Osce fa la stessa identica cosa, tace e non manda osservatori. E lo stesso fanno le Nazioni Unite. L’unica operazione tentata dal Canada, non si sa su incarico di chi, è stata di indire, il 19 e 20 dicembre a Ottawa, una riunione alla quale erano stati invitati 20 Paesi e alla quale hanno partecipato solo 7 Paesi, i rappresentanti dei quali si sono riuniti sotto la presidenza del capo della commissione elettorale canadese e hanno concluso, anche loro, che non era possibile mandare nessuna delegazione di osservatori in Iraq stabilendo formalmente che ci sarebbe stato un gruppo di "analisti", non di osservatori, piazzato ad Amman. Secondo i criteri adottati fino a questo momento da tutta la Comunità internazionale, le elezioni irachene non hanno osservatori quindi non sono da ritenere valide».
Qualcuno però potrebbe replicare che la maggioranza degli iracheni a votare, sfidando i terroristi, c’è andata.
«Io non sono mica contrario alla democrazia...La maggioranza degli iracheni ha usato l’opportunità che gli era stata data, ognuno per fare il proprio gioco. Quando si parla del popolo iracheno si dice una cosa che non esiste in questo momento. Si deve dire, ed è il quadro esatto della situazione, che gli sciiti del Sud, che sono stati sempre maggioranza ma che non hanno mai avuto la guida del Paese, hanno colto l’occasione per fare il loro gioco; i curdi del Nord, esattamente la stessa cosa, hanno scelto l’occasione per fare il loro gioco. I sunniti sono rimasti schiacciati in mezzo agli uni e agli altri e non hanno votato. Cinque milioni di persone in Iraq non sono andate a votare e in un Paese come questo una cosa del genere è assolutamente centrale perché se non va a votare una etnìa intera non si può dire che questa è una soluzione democratica. E non lo è in nessun caso. Noi non sappiamo ancora il risultato elettorale; non sappiamo chi controlla questi voti; non sappiamo come verrà gestita la legittima aspirazione degli iracheni a fare da sé. Ma queste elezioni sono state organizzate non perché gli iracheni facessero da sé ma perché l’occupazione militare americana, britannica e italiana venisse legittimata da un voto popolare. In questo senso l’operazione propagandistica ha funzionato».
Il presidente del Consiglio Berlusconi, e non solo lui, vede nella partecipazione al voto in Iraq la conferma della giustezza della presenza militare italiana in Iraq. A Canossa, aggiunge, dovrebbero andare coloro che si opposero a questa presenza.
«Rispondo che occorre fare il conto dei morti. Cè stata una guerra, sono morte decine di migliaia di persone, in stragrande maggioranza civili, l’Iraq è uscito distrutto completamente; non si vorrà mica sostenere che una tornata elettorale, fatta in queste condizioni, sancisce e chiude il caso. Tutta questa è retorica propagandistica della peggior specie, anche perché questa campagna elettorale ha un significato completamente diverso per gli iracheni del Sud e del Nord, ciascuno ha fatto il proprio gioco. Quattro giochi diversi: gli occidentali aggressori dell’Iraq; gli sciiti; i curdi; il resto del Paese che continua a combattere. Dipingere questo come un trionfo democratico, un "trionfo" organizzato militarmente dall’Occidente, significa infliggere agli iracheni la più grande delle offese. Io sono stato, sia pure "blindato" nei seggi di Nassiriya e Bassora e ho visto che questa gente, sostenitori di Al Sistani perché sono gli sciiti ad aver votato in massa, voleva esprimere il suo punto di vista e ho sentito dire che la gente voleva non essere occupata. E questo che ho sentito dire dappertutto. Adesso vediamo come verrà gestito questo risultato. Chi ha votato vuole che gli sciiti contino e nei colloqui molto interessanti che ho avuto con esponenti di primo piano dell’attuale governo ho registrato una forte preoccupazione. Il problema che oggi abbiamo, mi hanno detto apertamente, è di ridurre le pretese di Al Sistani. E cercheranno di farlo con un’alleanza tra curdi e laici, che includa i comunisti iracheni, impedendo così ad Al Sistani di avere la maggioranza e il controllo del potere in questa fase di transizione. Va peraltro ricordato che il presidente e i due vicepresidenti potranno prendere decisioni solo all’unanimità, e quindi Al Sistani o il suo rappresentante si troveranno chiusi in una morsa di altri due, uno dei quali sarà sicuramente curdo e l’altro sicuramente Allawi,cioè americano. Da qui a dicembre si dovrà lavorare per redigere una nuova Costituzione in una situazione in cui tutto il mondo sciita starà con gli occhi ultra-aperti per vedere se è stato truffato. E così il cerchio si chiude: l’Iraq del dopo-voto resta nei fatti in mano ai padroni di ieri: gli Stati Uniti».
Ecco l'intervista a Carlos Valenzuola, da REPUBBLICA:
BAGDAD - Possiamo definire oneste queste elezioni? Carlos Valenzuela, l´uomo dell´Onu in Iraq, il tecnico neutrale della drammatica consultazione, calibra le parole: «Finora non ci sono stati reclami o ricorsi. Sappiamo che in alcune aree non si è riuscito a votare. Ma un processo elettorale come questo, nel contesto di un paese grande, difficile, complesso, si valuta nel suo insieme».
E qual è la sua valutazione?
«Oggi possiamo dire che il voto è stato espresso. Il Comitato elettorale è stato credibile, indipendente, imparziale. Lo considero già un successo, perché questa era una delle priorità».
Due ore prima della chiusura dei seggi il Comitato ha parlato di una partecipazione del 72 per cento. Poi si è scesi a 60. Si è detto in seguito che il quoziente oscillava tra il 60 e il 75. Non le pare un po´ vago?
«C´è stato un entusiasmo comprensibile. Il paese votava per la prima volta, c´erano un´attesa e una tensione fortissima. I seggi erano affollati, dai seggi chiamavano i rappresentanti dei partiti, gli scrutatori. Il Comitato si è fatto prendere la mano, ha espresso una valutazione che era solo un´impressione. Sono dovuto intervenire, li ho avvertiti del rischio che si correva nel diffondere dati che non potevano essere affidabili. A volte è più facile dire, piuttosto che capire. L´Iraq viveva un momento davvero storico. È stata una prova difficilissima, ma sono convinto che l´abbia superata».
Carlos Valenzuela è un funzionario dell´Onu. Dosa bene le parole. È un colombiano di Bogotà, i capelli lunghi sulle spalle che gli hanno attirato qualche critica, 47 anni, figlio di diplomatici, cinque lingue parlate correttamente. Da otto mesi lavora giorno e notte per mettere a punto la macchina organizzativa che stabilirà il risultato delle urne. Ha alle spalle un´esperienza di tutto rispetto, compresa Cambogia, Sud Africa, Mozambico, Haiti, Timor est, Palestina. Adesso, la prova più importante. Ci riceve nel suo quartiere generale, nel cuore della "zona verde".
A che punto stiamo dello spoglio?
«Le prime urne sono arrivate stamattina. Ora iniziano i controlli nel centro raccolta di Bagdad. Ce ne saranno otto. I dati verranno inseriti dentro 80 computer e saranno elaborati. I risultati si sapranno tra una settimana».
Perché sono arrivati solo oggi?
«Abbiamo preferito fare le cose per bene per evitare errori. Il sistema di conteggio prevede diverse fasi di verifica. Prima la conta nei seggi, poi un secondo controllo nei seggi. Quindi il trasferimento delle urne. Che non è semplice. Quindi altri conteggi e altri controlli. Tutto deve essere trasparente. La macchina è complessa. Ma per farla funzionare ci vuole tempo. E questo evita le frodi che sono sempre in agguato».
In che modo pensate di averle evitate?
«Intanto, con la contabilità del materiale sensibile. Dalle urne, alle schede, all´inchiostro. Tutto è stato trasferito nei seggi poche ore prima dell´orario di apertura. Si volevano evitare dei falsi, delle copie. Le schede sono fatte con una carta speciale, l´inchiostro indelebile verificato e protetto, il sistema di trasmissione provato e riprovato. Dove abbiamo trovato delle falle siamo intervenuti».
In molte province non si è potuto votare: non è una falla?
«L´aspetto della sicurezza non era un mandato dell´Onu. Esisteva un Comitato per la sicurezza a cui faceva capo la Commissione elettorale. I due organismi si coordinavano tra loro. Noi abbiamo dovuto concentrarci sull´efficienza e la trasparenza del sistema elettorale».
Questo non esclude la presenza di un voto mancato.
«Tutti noi abbiamo potuto vedere ciò che è successo il 30 gennaio. Il livello di violenza è stato inferiore a quello a cui siamo abituati in Iraq. Chi voleva bloccare queste elezioni non è riuscito a dissuadere la gente dall´andare a votare».
Ai media sono stati fatti vedere solo cinque seggi. Non le sembrano pochi?
«Accade in ogni elezione che si svolge in paesi difficili e di grande insicurezza. È avvenuta la stessa cosa a Timor est».
Si è detto che sono stati spostati 700 seggi da alcune aree difficili ad altre più tranquille.
«Non mi risulta. È comunque normale che per motivi di sicurezza si spostino dei seggi. Se anche fosse vero, il risultato complessivo non cambia. La partecipazione è stata molto alta. E il metro di valutazione finale è chiaro: la volontà collettiva del popolo iracheno di andare a votare. Piuttosto c´è da chiedersi: tale volontà si è potuta manifestare attraverso le urne? Ecco, penso che questa sia la domanda centrale».
Lei cosa risponde?
«Non posso dire molto, ma credo proprio di sì».
Lasciata L'UNITA' passiamo al MANIFESTO. Se per il cofondatore del giornale Valentino Parlato le elezioni irachene sono come ipotetiche elezioni a Roma sotto l'occupazione nazista, il diplomatico palestinese Ali Rashid si affretta a spiegare che invece sono un bene.
E che nessun iracheno dirà grazie agli americani per averle permesse. Secondo lui, par di capire, gli iracheni dovrebbero dir grazie all'Olp e alla nomenclatura palestinese legata a Yasser Arafat (della quale Rashid è un esponente) che hanno sempre sostenuto Saddam Hussein.

Ecco l'articolo. "Boomerang anti- Bush":

Non vorrei sorprendere negativamente chi mi legge, ma sbaglia chi riduce l'importanza dell'esito positivo dell'elezioni in Iraq. Non basterebbe un articolo per mettere in luce la loro portata, ma non bisogna lasciarsi confondere dal disperato grido di vittoria lanciato a squarciagola dall'amministrazione americana e dei suoi partners della «Coalizione dei volenterosi». Questo successo è un esclusivo merito degli iracheni che vorrebbero vivere finalmente in democrazia e liberarsi, dopo la dittatura, anche dagli americani. La vera guerra inizia adesso e sigillerà il definitivo fallimento della spedizione americana partita alla ricerca di materie prime, mercati, risorse da saccheggiare e popoli da schiavizzare. Da queste elezioni nascerà un'Assemblea generale, che deve dare vita ad una costituzione, un governo transitorio ed un assetto definitivo del paese che ancora è tutto da scrivere e da fare. Ma oggi gli amici degli eserciti d'occupazione sono una esigua minoranza, e forse saranno costretti a partire ancora prima dei soldati stranieri. Insieme al loro tramonto, tramonteranno anche i progetti di privatizzazione del petrolio, di dominio statunitense e israeliano sul destino della regione. Di loro rimarrà solo uno sgradevole ricordo: le stragi d'innocenti, la «liberazione» di Falluja e le lezioni di «democrazia» di Abu Ghraib sono ben presenti nella nostra coscienza collettiva di popoli del vicino oriente che piano piano stanno trovando la loro via per l'emancipazione. Questione di settimane e quelli che si erano opposti alla resistenza armata contro l'occupazione, insieme a Moqtada al Sadr ed a tutti i sunniti, saranno compatti nel chiedere la partenza degli americani dall'Iraq dove la battaglia per la libertà è appena iniziata. Bush sta cercando ancora conseguenze storiche dell'elezione, mentre Blair parla di un colpo inferto al cuore del terrorismo. Anche io sono d'accordo che è un colpo al cuore del terrorismo, quel terrorismo che hanno fomentato, che insieme a loro sarà sconfitto per mano di milioni di donne e uomini che con la scheda elettorale si sentono padroni del loro destino. Il «fatto storico» invece è già avvenuto in Palestina con le ultime elezioni che stanno creando un vero terremoto nei paesi limitrofi ed incoraggiando molti a rivendicare i loro diritti di cittadinanza, e di libertà dalla corruzione e dal dominio americano e dalla prepotenza israeliana nella regione. Queste elezioni danno un sbocco democratico alla questione del ruolo e della presenza delle forze islamiche nelle società, non solo come presunti o potenziali forze terroristiche. Uno sbocco che sta avvenendo in Palestina ed ha un valore storico che va al di là della Palestina stessa. La democrazia è ormai è un processo inarrestabile, e non mancheranno tra non molto i segni di non tollerabilità a questo processo da parte di chi ha voluto strumentalizzarla per giustificare la loro avventura imperialistica. Siamo ormai giunti ad imboccare una via autentica che fa emergere, finalmente, un'idea di sovranità assoluta, libera dai vincoli soffocanti delle religioni, nel quadro di un'idea dell'ordine politico integralmente umana.

La scomparsa del Presedente Arafat, la guerra del Iraq, porteranno effetti inimmaginabili, che sono l'esatto opposto di quelli sperati da chi ha voluto la sua scomparsa ed ha fatto quella guerra sciagurata. È un risultato inevitabile, perché se chi ha il monopolio della macchina di guerra ha dimostrato la sua capacità incontrastata di distruzione, ha reso evidente a tutti la totale incapacità di gestione e di dominio. È un quadro inedito, dove anche le religioni potranno iniettare valori, di libertà e non di dominio, che la politica ha smarrito, una sorta di teologia di liberazione islamica, che non è estranea ai concetti dell' Islam sciita. È una sfida difficile, entusiasmante, che avrà esiti positivi se si metterà al centro dell'attenzione la centralità dell'uomo e del suo futuro in questo trapasso che deve portare l'umanità oltre la modernità. Dalla Terra Santa, dalla Grande Siria e dalla Mesopotamia si riprenderà il cammino e nessuno dirà grazie agli americani.

Primo segretario della delegazionepalestinese in Italia
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