L'Europa chiederà agli Stati Uniti pressioni su Sharon? Sarebbe l'ennesimo errore
Emanuele Ottolenghi spiega perché
Testata: Il Foglio
Data: 02/02/2005
Pagina: 1
Autore: Emanuele Ottolenghi
Titolo: Arriva Bush e la Vecchia Europa adesso gli parlerà molto di Sharon
A pagina 1 dell'inserto IL FOGLIO di mercoledì 2 febbraoio 2005 pubblica un'analisi di Emanuele Ottolenghi sulle relazioni transatlantiche dopo le elezioni irachene e sulle loro possibili ripercussioni nel conflitto israelo-palestinesi.
Ecco l'articolo:

Washington. Quando a metà febbraio
George W. Bush verrà in Europa, è possibile
che a qualche europeo sia finalmente venuto
più di un dubbio sulla politica mediorientale
dell’Unione. Nonostante gli errori,
i ritardi, i pasticci, dopo tre anni e mezzo di
bushismo in medio oriente ci sono state tre
elezioni democratiche, una in Iraq domenica,
una in Palestina e una in Afghanistan.
Delle tre tornate elettorali, due sono avvenute
sotto l’egida delle truppe d’occupazione
alleate (Iraq) e israeliane (Palestina). I
liberi popoli del mondo arabo per contro –
liberi dall’odiato "imperialismo" occidentale,
non dalla tirannia dei loro despoti locali
– di elezioni libere non ne hanno avute
mai, né ne avranno presto, a meno che i loro
despoti cedano alle pressioni americane
o l’America abbia nuovi appetiti di guerre
di liberazione. Ma né gli europei timorosi
della grandiloquenza repubblicana del discorso
inaugurale né i despoti arabi dovrebbero
preoccuparsi più di tanto. L’entusiasmo
della primavera democratica nel
mondo arabo va esercitato con cautela.
Un’elezione, come una rondine, non fa ancora
primavera, e le sfide, per l’Iraq e per
Bush, sono ancora molte. Che cosa dunque
ci si deve aspettare dalla visita del presidente
americano in Europa?
Fino a novembre la Vecchia Europa ha
tifato per la sconfitta di Bush, ritenendo
che la sua politica estera fosse una momentanea
aberrazione di un’Amministrazione
estremista, guidata da pericolose
ideologie. L’elezione ha dimostrato invece
che la politica estera americana gode di
ampio sostegno nell’opinione pubblica. La
reazione dell’Europa alla vittoria di Bush è
stata duplice. Da un lato gli intellettuali, i
giornali liberal, e il brusio diplomatico a
porte chiuse: la sconfitta di Kerry rappresenta
la vittoria di una linea politica che rimane per loro aberrante. Dall’altro c’è il
paternalismo intellettuale esemplificato
dalla lettera aperta dei tre saggi d’Europa
(Giuliano Amato, Ralph Dahrendorf e
Valéry Giscard d’Estaing) al presidente
americano. L’appello dice: caro presidente,
la sua vittoria elettorale ha confermato una
linea politica che noi osteggiamo. Quindi
noi, la nostra alternativa politica e il nostro
candidato abbiamo perso e alla grande. Ergo,
tocca a lei cambiare linea. Tutto nell’interesse
del futuro della relazione transatlantica,
che soffre delle divisioni tra Europa
e America. Occorre senza dubbio ricucire
gli strappi: di fronte a minacce comuni
(il terrorismo) ci vuole un fronte unito. L’unione
fa la forza, e Stati Uniti ed Europa
devono ritrovare l’armonia. Da Chirac a
Schröder, tutti sperano che il viaggio di Bush
dunque ristabilisca un’atmosfera positiva.
Nonostante le differenze, oggi in Europa
c’è un clima di buona volontà: sarà anche
un’aberrazione, ma la linea politica di
Bush continuerà a guidare l’America per
quattro anni. Meglio adeguarsi. Ma gli europei
farebbero bene a far meglio che adeguarsi.
Dovrebbero accettare le premesse
della linea di Bush per ricucire lo strappo.
Altrimenti tanto vale parlar d’altro.
Gli europei vorrebbero un maggiore
coinvolgimento americano nel processo di
pace tra Israele e palestinesi, e offriranno
probabilmente una maggiore partecipazione
alla stabilizzazione dell’Iraq in cambio
di maggior diplomazia americana sul fronte
palestinese (leggi: pressioni su Sharon).
E in questo sbagliano. Per l’America, esistono
due priorità: la prima è l’Iraq, dove le
elezioni sono un passo avanti importante
ma la vittoria non è ancora assicurata. La
seconda è l’Iran. Gli americani sanno bene
– su questo gli europei non sono in disaccordo
– che i tempi del cambio di regime causato da fattori endogeni e i tempi del
programma nucleare sono diversi: il primo
è fragile, lento e incerto, il secondo è rapido.
Occorre quindi affrontare il problema
nucleare con un’urgenza che non ritardi
però il lento processo interno di disgregazione
del regime. Gli europei temono – in
parte a torto – una nuova avventura americana
contro l’Iran, non rendendosi conto
che l’America non ha le truppe per farlo
(né la volontà politica) e si occuperà quasi
esclusivamente di Iraq nei prossimi quattro
anni. L’unica possibilità d’intervento militare
si limiterebbe a colpire installazioni
nucleari per sabotare, o ritardare, il programma
iraniano. Per mantenere l’iniziativa
diplomatica e non creare a breve una
nuova fonte di disaccordo con gli Stati Uniti,
gli europei dovrebbero promettere all’America
di adottare – cosa finora "inimmaginabile",
a sentire il ministro degli
Esteri inglese Jack Straw – una politica del
bastone oltre che della carota, mandando
forti segnali a Teheran sulla seria intenzione
dell’Europa di ricorrere a dure sanzioni
economiche – e al limite di sostenere un’azione
militare americana – se Teheran non
accedesse alle richieste di disarmo.
Sull’Iraq, parte dello scetticismo europeo
deve lasciare il passo a un atteggiamento
più costruttivo. Innanzitutto, se l’America
perdesse, l’America indebolita lascerebbe
la regione alla mercé dei terroristi, l’Iraq ricadrebbe
nelle mani del vecchio regime
(magari in versione riveduta e corretta), e gli
altri regimi rischierebbero pure loro di perdere
il potere. E il terremoto che ne conseguirebbe
produrrebbe uno tsunami politico
che travolgerebbe prima di tutto l’Europa,
arrivando attutito nella lontana America, la
cui minor dipendenza energetica dal medio
oriente e la naturale difesa dell’oceano permetterebbero
di subir minori conseguenze.
Ma aiutare l’America in Iraq significa anche
soddisfare l’interesse europeo (malposto peraltro)
a favorire un ritorno americano sulla
scena diplomatica israelo-palestinese. Prima
gli americani lasciano l’Iraq in buone
condizioni, prima possono occuparsi d’altro.
Una rapida stabilizzazione dell’Iraq, oltre
che un successo diplomatico con l’Iran, e
non un do ut des il cui prezzo sia la testa di
Ariel Sharon, permetterebbe agli americani
di poter rivolgere energie ad altri problemi.
Inoltre, e questo è quanto Bush dovrebbe
chiarire agli europei, sul fronte palestinese
il 2005 non può sbloccarsi attraverso pressioni
americane sugli israeliani. Sharon affronta
l’anno forse più critico della sua carriera
politica, con il ritiro da Gaza e le sue
possibili violente ripercussioni interne e regionali,
e con una coalizione fragile e litigiosa.
Aumentare la pressione su Sharon, in
un momento in cui è chiaro che le questioni
più difficili del processo di pace rimangono
per il momento irrisolvibili, significherebbe
solo ritardare il ritiro israeliano dai territori
e destabilizzare il governo di Gerusalemme.
Bush deve quindi frenare sulla road
map, accelerare sull’Iran e concertare sull’Iraq.
La sua visita in Europa deve portare
a tre risultati, che saranno benefici per Stati
Uniti e Ue: accordo sulla necessità d’investire
al massimo per favorire la stabilizzazione
dell’Iraq e la crescita della democrazia
irachena; accordo sulla necessità di perseguire
un’intesa con Teheran, con la diplomazia
europea ma sostenuta e rafforzata
dalla disponibilità non solo americana a ricorrere
alla forza; sostegno a Sharon per il
disimpegno da Gaza. Iraq, Iran e solo dopo il
processo di pace: questa dovrebbe essere la
sequenza.
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