L'Iraq immaginario di Stefano Chiarini
il baathista del quotidiano comunista
Testata: Il Manifesto
Data: 01/02/2005
Pagina: 3
Autore: Stefano Chiarini
Titolo: A Baghdad la resa dei conti
Mentre IL MANIFESTO si lascia prendere dai dubbi sulle elezioni irachene, e titola in prima pagina "Iraq anno zero", Stefano Chiarin non ne ha alcuno.
Oltre alle consuete opinioni degli "ulema sunniti", ex impiegati del regime di Saddam, e descrizioni dei curdi sterminati da Saddam come deportatori di arabi e turcomanni Chiarini offre alcune novità, dato che come ogni bravo illusionista, sa adattare i suoi trucchi alle circostanze.
Se in passato aveva descritto gli sciiti iracheni come sul punto di passare, come quelli libanesi con gli israeliani, dalla collaborazione con gli occupanti alla "resistenza", l'atyatollah Al Sistani come uno che dissentiva dalla medesima "resistenza" circa la tattica e non circa gli obiettivi (cacciare gli occupanti), partiti sciiti come Dawa e lo Sciri, parte del governo di transizione iracheno, come molto vicini a chi dal governo era rimasto fuori oggi ci informa che:
1) solo i partiti al governo hanno partecipato alle elezioni, il cui esisito è dunque scontato, può vincere uno di quella decina di partiti (una situazione analoga, ci pare, a quella dell'Italia nel 48, anche allora poteva vincere uno qualsiasi dei partiti del CLN, il Partito Nazionale Fascista invece no... non sarà allora che quelle elezioni siano invalide?)
2)Al Sistani ha minacciato l'inferno per chi non andava a votare, quindi gli sciiti no sono stati liberi di astenersi. Invece le minacce di Al Zarqawi, che oltre all'inferno contemplavano cecchini, kamikaze, autobombe e sgozzamenti servivano a dare agli iracheni coscienza nazionale.

Ecco l'articolo:

Il conteggio dei voti per le elezioni di domenica è in pieno svolgimento alla scuola Digle (il nome arabo del Tigri) in pieno centro, quando dall'altra riva del fiume, di là dal ponte al Joumuriya, si sente una grande esplosione e i marine appostati vicino agli argini si agitano come se cercassero qualcuno o qualcosa lungo le rive, tra i piloni. C'è un momento di sbandamento poi il conteggio riprende. La città è ancora paralizzata e sembra quasi che abbia già archiviato le elezioni e sia tornata ad occuparsi dei drammatici problemi dell'occupazione, della mancanza d'energia elettrica, d'acqua, di benzina e di gas. Gli scrutatori, o quelli che, in ogni modo, stanno contando i voti, sono tutti fedelissimi del primo ministro e non hanno problemi ad ammetterlo. Fuori invece, nella deserta Tharir Square trasformata in un accampamento militare, bighellonano dei sostenitori della lista unitaria sciita che già paventano scorrettezze nella conta dei voti e denunciano un sicuro piano americano per depredarli della vittoria, a loro parere ormai certa. Del resto, partecipando alle elezioni solamente quei partiti e movimenti che sono al governo, le due liste più favorite sono quella del primo ministro Allawi e quella unitaria dell'ex pupillo del Pentagono e d'Israele Ahmed Chalabi, del leader filo-iraniano del Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica in Iraq, Abdel Aziz al Hakim, e dell'ala occidentale del partito «al Dawa», Ibrahim Jafaari. Entrambe hanno giocato pesante alla vigilia delle elezioni e lo faranno ancor di più dopo il 10 gennaio quando la commissione, dopo i sicuri aggiustamenti che già tutti danno in corso d'opera, annuncerà il risultato delle elezioni.

Allawi, uomo forte in tv

Il premier Yiad Allawi, cercando di ricalcare le orme di Saddam Hussein, ieri mattina si è presentato alla tv come l'insostituibile «uomo forte» invitando tutti gli iracheni ad unirsi e ha promesso ai sunniti, totalmente esclusi dal voto proprio da lui, di farsi garante di una loro presenza nel prossimo governo. Il ministro della difesa, Azmi Shalaan, da parte sua ha annunciato che le truppe multinazionali potrebbero ritirarsi quando l'Iraq avrà un esercito in grado di assicurare l'ordine e che questo potrebbe avvenire tra circa «diciotto mesi». La lista unitaria sciita di Chalabi, Haziz, Jafaari, ha mobilitato da parte sua i religiosi a lei più vicini e soprattutto si è giocata l'immagine del grande ayatollah al Sistani che ha minacciato l'inferno per chi ieri non fosse andato a votare. Non volendo rischiare di finire arrosto, domenica mattina verso le dieci, alla scuola Digle si sono presentati puntuali molti sciiti i quali alla domanda «per chi votate?» rispondevano senza alcuna esitazione «per Sistani», anche se l'anziano religioso non è presente certo in alcuna lista. Altri ancora si dichiaravano orgogliosi di aver votato per il premier Allawi già chiamato «rais», che ha giocato con un certo successo la carta della legge e dell'ordine e quella del «laico» in grado di fermare la deriva integralista. Impossibile sapere il numero dei votanti, né tanto meno la percentuale di chi si sarebbe recato alle urne. Probabilmente dovrebbe aggirarsi attorno al 55% . In ogni caso una metà degli iracheni non ha voluto o potuto votare. E' chiaro anche che le città e i paesi a maggioranza curda e sciita hanno in generale votato mentre le città sunnite e i quartieri sunniti di Baghdad non lo hanno fatto o lo hanno fatto in misura minore. In tutta la fascia a sud di Baghdad (Mamoudiya, Latifiya, Yusufiya) ma anche nella provincia di Anbar (Ramadi, Hit, Falluja), molti seggi non hanno neppure aperto. Lo stesso è avvenuto anche in alcuni quartieri arabi di Mosul, dove l'esercito americano ha dovuto trasportare gli scrutatori dal sud del paese dando loro 500 dollari a testa, ma anche a Baji, Tikrit e Baqouba. Quattro province, nelle quali abita un buon 40% della popolazione irachena, oltre a intere aree della capitale - i seggi ad Ameriya e Adhamiya domenica erano in sostanza deserti - non saranno così rappresentate nella nuova assemblea costituente privandola di qualsiasi legittimità e costituendo al contrario un ulteriore fondo di uomini e mezzi per la resistenza irachena.

Ma qual è, a poche ore dal voto, la posizione dell'Associazione degli Ulema Musulmani sunniti che aveva invitato al boicottaggio? «Le elezioni non possono risolvere i problemi dell'Iraq - ci dice il suo portavoce sheik Omar - poiché questi dipendono dalla presenza di una potere che ci occupa e che si rifiuta persino di fissare un calendario per il ritiro» e, riferendosi alle aperture di Allawi, «Se volevano coinvolgere i sunniti e gli sciiti contrari all'occupazione lo potevano fare prima delle elezioni».

Il C-130 britannico è stato abbattuto

Sparatorie, scontri ed esplosioni si sono comunque sentiti anche ieri nella capitale irachena, mentre i comandi inglesi confermavano l'abbattimento, domenica, di un aereo da trasporto C-130, con la morte di dieci militari a bordo, a nord di Baghdad e i comandi Usa l'uccisione di quattro marine. Intanto le contrastanti promesse americane fatte agli sciiti da una parte e ai curdi dall'altra, rischiano già di far precipitare la situazione. Alla vigilia del voto gli Usa hanno infatti dato ai partiti curdi 100.000 voti in più nelle elezioni per la provincia di Kirkuk (teoricamente il numero dei curdi allontanati dalla città sotto il regime di Saddam) a danno sia degli arabi sia dei turcomanni di religione sciita (le tre comunità, prima che le milizie curde cacciassero da Kirkuk almeno 50.000 arabi, nei mesi scorsi, avevano ciascuna circa 250.000 abitanti). Il conteggio dei voti alle elezioni provinciali è ancora in corso ma all'annuncio dei risultati potrebbero scoppiare gravi incidenti che coinvolgerebbero anche gli stati vicini. Chiarissimo il ministro degli esteri turco Abdullah Gul secondo il quale «se i nostri affini (i turcomanni ndr) non avranno pace in questa regione e saranno oggetto di ingiustizie, i governi dei paesi democratici non possono rimanere a guardare». E con un monito esplicito: «La Turchia non può rimanere semplice spettatrice, siamo una potenza regionale con responsabilità storiche nella regione».
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