Un plauso a Magdi Allam, una critica a un "moderato" che non è tale
se non nell'immaginazione del Corriere della Sera
Testata:
Data: 31/01/2005
Pagina: 1
Autore: Giorgio Israel
Titolo: L'Islam e la tv. Al Arabiya con gioia, Al Jazira con veleno - Ieri a Bagdad, domani nel mondo arabo
Un plauso – l’ennesimo – per l’articolo di Magdi Allam sul Corriere della Sera di oggi 31 gennaio 2005 sul tema delle elezioni in Iraq. È un articolo che dovrebbe essere letto da tutti quei "democratici" che si sono battuti con tutte le forze perché l’Iraq fosse lasciato in mano ai terroristi e ai tagliatori di teste; e che oggi si dividono fra gli imbarazzati e gli sfrontati, come l’ineffabile Simona Torretta che ritiene che il voto non sia rappresentativo e che quel che conta è che "tutto quello che gli americani desiderano è distruggere questo paese". Evidentemente la nostra eroina nazionale pensa che coloro che desiderano edificarlo siano i tagliatori di teste.
Non merita invece plauso l’articolo di Fahmi Hweidi, editorialista del quotidiano egiziano Al Ahram, incautamente presentato dal Corriere come un "paladino dei moderati". La lettura del contenuto dell’articolo mostra – al di sotto dei titoli ottimistici – che l’autore crede alle elezioni nel mondo islamico soprattutto come a uno strumento per liberarsi dalle "potenze egemoniche" occidentali. Ma quel che colpisce è il parallelismo che egli istituisce tra le elezioni in Iraq e quelle svoltesi fra i palestinesi. Mentre le prime sarebbero più accettabili – sebbene volute dagli occupanti –, in quanto si è permesso di votare agli iracheni emigrati all’estero, "nel caso palestinese, i profughi residenti all’estero sono stati privati del diritto di voto per effetto degli accordi internazionali che limitavano la responsabilità dell’Autorità Nazionale Palestinese ai territori di Gaza e della Cisgiordania: il loro numero supera i 4-5 milioni".
Siamo alle solite. Anzi, peggio. Perché qui non si invoca il diritto al ritorno dei 4-5 milioni (in continua rapidissima crescita…) di "profughi" sul territorio israeliano, ma si parla di diritto al voto negato in base alla "limitazione" della responsabilità dell’ANP ai soli territori di Gaza e della Cisgiordania. Insomma, l’ANP dovrebbe avere sovranità anche sul territorio oggi "occupato" dagli israeliani. Un modo neanche tanto elegante e neanche tanto obliquo di dire che la Palestina deve ricadere tutta sotto la sovranità dell’ANP, e che Israele è un’entità transitoria destinata a sparire.
Ogni ulteriore commento è superfluo. Se questi sono i paladini dei moderati…

Giorgio Israel

Ecco l'articolo di Allam, "L'Islam e la tv. Al Arabiya con gioia, Al Jazira con veleno" :

Le prime elezioni veramente libere nella storia dell'Iraq e del mondo arabo non sono piaciute affatto a Al Zarqawi, Saddam, Assad e Al Jazira .
Sono piaciute poco a Erdogan, re Fahd, Khamenei. Sono risultate indigeste anche agli europei ossessionati dall'antiamericanismo e persino agli americani che mal sopportano Bush.
Ma sono piaciute tanto, veramente tanto, alla maggioranza degli iracheni, dentro e fuori l'Iraq.
Chi ha seguito le elezioni da vicino, calandosi nell'animo degli iracheni, analizzando le parole espresse da candidati e elettori, ha potuto constatare come in realtà si sia trattato di un plebiscito a favore di un Iraq libero, garantendo la più alta affluenza alle urne. Tutti si sono limitati a esprimere appelli e poi hanno gioito insieme per la comune vittoria di circa otto milioni di votanti.
Che hanno sfidato e sconfitto i kamikaze e i razzi di Al Zarkawi, nonostante l'alto sacrificio in perdite umane.
Con il voto di ieri si è visto il Paese reale, un popolo che si è definitivamente emancipato dalla dittatura di Saddam, che rigetta l'oscurantismo di Al Qaeda e vuole edificare uno Stato democratico e federale in grado di reggersi senza la tutela degli americani. Si comprende bene la paura dei regimi teocratici e autocratici limitrofi. Il contagio dei valori dei diritti individuali della persona e dei diritti collettivi delle comunità etnico- confessionali è temuto più di uno tsunami.
A farsi interpreti della portata dello sconvolgimento prodotto dal voto iracheno sono state la più contestata tv araba, Al Jazira , e la rivale, ben più moderata, Al Arabiya . Quest'ultima, grazie alla ferma presa di posizione a favore del voto e della legalità in Iraq, ha di fatto scalzato il primato di ascolti di Al Jazira . Quando alle 17 si sono chiusi i seggi elettorali, Al Arabiya ha annunciato: « Gli iracheni hanno vinto la loro sfida contro le bombe dei terroristi » . E dallo studio a Dubai la conduttrice ha rivolto le « congratulazioni per la vittoria » al ministro dell'Interno Naqib al Fallah.
Viceversa Al Jazira ha dato libero sfogo alle invettive di Abdallah al Sennawi, direttore del quotidiano egiziano Al Arabi , contro le « elezioni farsa, antidemocratiche, i cui risultati sono già noti agli occupanti americani » , e a un anonimo siriano interpellato a Damasco che ha detto di essere sì preoccupato « ma mi tranquillizza la persistenza dell'attività della resistenza irachena contro l'occupazione americana » . E poi tanto spazio a un certo Ali Haj Massoud, rifugiato in Siria, che denuncia di essere stato escluso dalla candidatura per aver osato « criticare l'occupazione americana » e di un certo Zumaili, del Partito dell'avanguardia nasseriana, che da Mosul ha assicurato che « la popolazione ha boicottato in massa le urne » . Veleno. Solo veleno.
Distillato anche nella formulazione delle domande rivolte ai visitatori del sito di Al Jazira in lingua inglese, dove emerge una maggioranza a favore del rinvio delle elezioni in Iraq e di scettici sul cambiamento della vita degli iracheni dopo le elezioni di ieri.
Dal canto suo il direttore di Al Arabiya , Abdel Rahman al Rashed, ha detto entusiasta: « E' la prima volta che uno Stato arabo affida le scelte cruciali al suo popolo. Ora, dopo le elezioni, si paventa il rischio che l'Iraq esporti la democrazia nella regione. Devono forse preoccuparsi i Paesi limitrofi? Sì, se pensano solo a sigillare le frontiere e a non promuovere le riforme interne. Iraq o non Iraq, il mondo va avanti e tutti dovranno allinearsi » .
Contenuti e toni ben diversi da quelli di Al Jazira . Un cambiamento sul piano ideale che si poteva cogliere anche nell'inedita decisione del più diffuso quotidiano arabofono, Asharq al Awsat , di schierarsi apertamente con un editoriale dal titolo « Sì alle elezioni » , perché vi si legge « è una svolta storica per tutti gli iracheni e per l'intera regione » .
Il 30 gennaio 2005 resterà nella storia come l'inizio del crollo del Muro della dittatura e del fanatismo nel mondo arabo. La fine di Saddam, la disfatta dei terroristi islamici, il successo della democrazia in Iraq finiranno per contagiare l'intera regione. Certamente è una strada tutta in salita. Ma ora è lecito sperare.
E quello di Hweidi "Ieri a Bagdad, domani nel mondo arabo" :
Una delle più strane peculiarità del nostro tempo, per quanto riguarda noi arabi, è che i popoli sono condotti alle elezioni libere nel momento in cui essi sono privati della libertà.
Un paradosso che separa la democrazia dalla libertà, rendendo la prima attuale e rinviando la seconda a tempi futuri; insomma, si mette il carro davanti ai buoi.
Abbiamo davanti agli occhi due esempi freschi: le elezioni palestinesi che si sono svolte il 9 gennaio e l'appuntamento col voto in Iraq di ieri. In tutti e due i casi, il popolo vive sotto il peso di un'occupazione. In tutti e due i casi, le elezioni sono state richieste dalla potenza occupante: nel caso palestinese, in modo surrettizio da Israele; nel caso iracheno in modo chiaro e pressante dagli Stati Uniti. È stato lo stesso presidente Bush ad impegnarsi personalmente perché questa scadenza fosse rispettata a tutti i costi nella data prestabilita. Anche i particolari di queste elezioni sono state studiate per raggiungere gli obiettivi sperati: nel caso palestinese, i profughi residenti all'estero sono stati privati del diritto di voto per effetto degli accordi internazionali che limitavano la responsabilità dell'Autorità Nazionale Palestinese ai territori di Gaza e della Cisgiordania: il loro numero supera i 4- 5 milioni. Invece nel caso iracheno, gli esuli, circa due milioni, sono stati invitati ad iscriversi nelle liste elettorali e, ovunque è stato possibile, sono stati organizzati seggi.
L'interesse della forza occupante nel caso palestinese è la formazione di una nuova leadership, dopo la morte del presidente Arafat, che Israele ha fatto di tutto per isolare e ridurre negli spazi di manovra. Israele spera così di bloccare l'Intifada e fermare il movimento di resistenza armata per poi raggiungere un accordo finale che porti alla costituzione di uno Stato palestinese ( nella sola Gaza molto probabilmente) ed il rinvio di tutte le altre questioni centrali: Gerusalemme, colonie, profughi e confini.
In Iraq gli interessi degli Stati Uniti sono più chiari. Le elezioni legislative che gli Usa hanno insistito a tenere ieri non si differenziano dalle mosse dei britannici seguite alla rivolta del 1920, quando fu richiamato l'emiro Faisal Bin Al Hussein, incoronato re dell'Iraq con un regime costituzionale parlamentare democratico, sostenuto dal popolo in un referendum del 1921. Il primo atto compiuto dal nuovo re dopo il suo incoronamento fu la firma del trattato che canonizzò il mandato britannico e stabilizzò l'influenza di Londra sull'Iraq. Ciò che hanno fatto i britannici negli anni Venti del secolo scorso è la stessa cosa che gli americani vogliono raggiungere: la formazione di un consiglio iracheno eletto per legittimare il nuovo governo e la permanenza delle truppe militari USA nel Paese e garantire gli interessi americani.
Nei due casi, le procedure democratiche sono state separate dalla sovranità nazionale e le elezioni sono diventate fini a se stesse.
Ma questi casi di posizione agli antipodi tra democrazia e libertà non nascondono altre situazioni presenti nel mondo arabo e nel Terzo mondo in generale. Qui la dicotomia tra i due principi è stata messa al servizio del monopolio del potere e dell'imposizione di regimi anti- democratici. In più di una situazione abbiamo assistito a competizioni ciarlatane tipiche della « retorica degli slogan » ed alla costituzione di strutture che con la democrazia non hanno nulla a che fare.
Quando Gorbaciov negli anni Ottanta parlò di perestroika , in un Paese del Maghreb, la Tunisia, i mezzi di propaganda ufficiali sostennero ripetutamente che il loro presidente era stato il primo a intraprendere il cammino della ricostruzione, con il suo « movimento di rettifica » , aprendo così « la strada della luce e della speranza » .
Quando sono stati pubblicati i rapporti internazionali sui diritti umani che segnalavano e documentavano le nefandezze di quel regime, la campagna di propaganda ci aveva deliziato di una trovata alquanto curiosa: « Si studierà la materia dei diritti umani nelle scuole di ogni ordine e grado, si aprirà un ufficio per i diritti umani in ogni ministero e governatorato » . Ma dopo questi proclami nulla è cambiato nella dura realtà.
Quando Tony Blair venne eletto in Gran Bretagna e avanzò il concetto di « terza via » , i mezzi d'informazione di un altro Paese arabo, la Libia, si vantarono che Blair copiò il programma dalla terza teoria internazionale lanciato dal leader indiscusso di quel Paese in un noto libretto ( il Libretto verde, ndr ).
Dopo la caduta del Muro di Berlino e la diffusione dello slogan del multipartitismo, ho sentito l'imam di una moschea di un Paese del Golfo che elogiava l'idea e sosteneva che era in realtà un'invenzione islamica, alla quale siamo arrivati prima degli altri popoli.
La strampalata conclusione era basata sull'assonanza ( in lingua araba) tra multipartitismo e poligamia.
Infine, quando recentemente è comparso all'orizzonte arabo lo slogan delle riforme politiche, più di un leader ha dichiarato che la questione non era nuova e che ogni suo atto era improntato al raggiungimento del totale appagamento dell'obiettivo delle riforme democratiche del sistema politico.
La sostanza di tutte queste blande argomentazioni, ripetute dai media ufficiali ad libitum , era che i loro regimi non sono interessati a questi inviti alle riforme democratiche.
Se la discussione si limita alle procedure e alle forme della democrazia e non si estende anche alla sua funzione ed ai suoi fini, la libertà sarà, alla fine, la prima vittima. Le elezioni sono importanti senza dubbio, ma se non sono il mezzo per la partecipazione nelle decisioni politiche e nel controllo, se non sono la formula per garantire l'alternanza pacifica alla guida del potere nel Paese, diventano una zavorra e non una leva per la democrazia.
Possiamo dire che le elezioni libere non sono soltanto quelle in cui viene garantito il diritto al voto nelle urne, ma sono quelle in cui il cittadino gode della libertà di scelta e di volontà politica. Questo significa non soltanto che la gente debba poter votare senza pressioni, oppressione o terrore; che lo spoglio delle schede avvenga senza brogli o falsificazioni; ma soprattutto che le elezioni avvengano in un clima di libertà: libertà di espressione, libertà di stampa, libertà di formare partiti politici, ecc. Queste sono le condizioni necessarie per liberare la volontà del cittadino e rafforzare e fortificare la società, stimolando le istituzioni della società civile e le voci indipendenti che partecipano alla formazione di un'opinione pubblica e, nello stesso tempo, frenando le inclinazioni del potere alla dominazione.
Le elezioni quando sono un fine a sé, saranno nel migliore dei casi un passeggero momento di libertà; quando sono, invece, un mezzo, fonderanno un'intera società libera.
Purtroppo ciò a cui assistiamo è soltanto questo passeggero momento di libertà e vedo le nostre élite occupate in un'attesa spasmodica della novità, mettendo da parte una visione globale sulle condizioni per la costruzione di una società libera e partecipativa.
Ciò che abbiamo detto sulle elezioni si deve applicare su tutti gli aspetti della vita democratica, come la creazione di partiti, la costituzione di movimenti per i diritti umani, gli inviti alla realizzazione delle istituzioni della società civile ed alla partecipazione delle donne alle funzioni dirigenziali pubbliche.
Tutto questo deve avere l'obiettivo della partecipazione e della liberazione della società, altrimenti è un prodotto che viene utilizzato per svuotare la democrazia del suo contenuto. Non c'è alternativa a mettere i buoi davanti al carro, per condurlo verso la salvezza. Non possiamo che rivendicare innanzitutto la libertà, dalla quale nascerà la democrazia. L'esperienza ci ha dimostrato che il contrario non funziona, cioè la democrazia di facciata potrebbe essere la strada per annullare ogni valore di libertà.
La questione non può essere considerata come una semplice ipotesi. È ampiamente confermato dall'esperienza di Paesi come l'India: una nazione di quasi un miliardo di persone, nella quale convivono innumerevoli differenze e contraddizioni etniche, religiose ed economiche che hanno reso molto difficile l'applicazione della democrazia. Ma che con la pratica della libertà ha potuto assorbire queste contraddizioni e realizzare un grande sviluppo economico ed un sistema relativamente stabile basato sulla tolleranza e l'alternanza. Peculiarità che hanno garantito all'India un riconoscimento e un rispetto politico a livello internazionale.
Un altro Paese che ha seguito l'esempio indiano è l'Indonesia che ha 250 milioni di abitanti. Anche questa nazione ha forti difficoltà e problemi: scontri interreligiosi tra musulmani e cristiani e movimenti secessionisti come nella provincia di Aceh. E tuttavia ha scelto di intraprendere la via democratica durante la quale è stata possibile l'alternanza al potere per ben tre volte in pochi anni, dopo la caduta nel 1998 del regime di Suharto, una dittatura durata per 32 anni nella quale si annidavano corruzione e oppressione.
Non vi è nel successo politico di questi Paesi nessun segreto. Ciò che è avvenuto è semplicemente l'affermazione del principio della libertà del cittadino ed il superamento delle formule vuote. Le elezioni sono state il mezzo per arricchire la partecipazione e non uno scopo fine a se stesso. Questo approccio ha permesso l'alternanza pacifica al potere, vitalizzando la scena e il dibattito politici e cancellando tutte le ragioni della chiusura e dello scontro. Nello stesso tempo le elezioni hanno accresciuto la convinzione della gente che è possibile raggiungere il cambiamento con metodi pacifici, sbarrando la strada automaticamente ai sostenitori del cambiamento con la violenza.
Gli estremisti sikh, rappresentati all'interno del partito Bharatia Janata, quando hanno vinto le elezioni in India, nel 1999, hanno assunto il potere con la volontà della maggioranza e poi, quando nel 2004 sono stati sconfitti nelle elezioni dal Partito del Congresso, hanno lasciato il comando dopo cinque anni di governo.
Perché la libertà e la democrazia vere hanno un difficile parto nel mondo arabo, contrariamente a quanto avviene in tutte le altre parti del mondo? Sarebbe una bassezza sostenere una diversità genetica o psicologica oppure accusare la fede islamica, la religione della maggioranza nei Paesi arabi, avanzando tesi al limite del razzismo, secondo le quali ci sarebbe qualcosa di errato nella fede islamica che porti a questi miseri risultati. Sono tesi ripetute da diversi ricercatori oltranzisti che odiano l'Islam e i musulmani ( e alcuni di questi sono di origine araba, purtroppo).
Potrei invece rispondere con queste due affermazioni: innanzitutto, la difficoltà di affermare la libertà e la democrazia nel mondo arabo è figlia del fallimento da parte dei ceti dirigenti arabi di mettere al centro della loro attenzione e dei loro programmi la difesa degli interessi dei loro popoli. Questo fallimento è causato principalmente dallo scontro ideologico e dalla mancanza di un'unità nazionale, particolarmente tra le élite laiche e islamiche.
La seconda questione riguarda gli interessi delle potenze egemoni, in palese contraddizione con le scelte di libertà e democrazia.
Un sistema democratico avrebbe portato sicuramente al rifiuto dell'egemonia occidentale. Molti uomini politici e diplomatici occidentali hanno riconosciuto nei loro libri di memorie che il mondo arabo è vittima della sua posizione strategica; posizione che ne ha fatto un teatro di scontro, per il suo controllo, tra le potenze egemoniche. Sono state le potenze occidentali a disegnare la carta politica della regione ( accordo tra Parigi e Londra del 1916) ed esse sono interessate a mantenere tale divisione. Queste potenze occidentali non cesseranno l'interferenza per imporre i loro interessi strategici.
Ma questo non ci deve indurre a una visione pessimistica del futuro. Voglio solo dire che l'affermazione di una democrazia di facciata in assenza di una vera libertà rappresenta la situazione migliore per garantire gli interessi delle potenze egemoniche. Questo contesto rende difficile ma non impossibile il raggiungimento dell'obiettivo; accresce il livello della sfida per chi ama la libertà e la democrazia vere. La nostra generazione è cresciuta con i versi del poeta tunisino Abil Qassim Shabbi: « Se il popolo sceglie la vita, il destino risponderà » .
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