Il dovere di combattere l'odio
dimenticato da chi rifiuta di criticare il mondo arabo e islamico
Testata: Il Manifesto
Data: 28/01/2005
Pagina: 1
Autore: Rossana Rossanda - Cristina Piccino
Titolo: Auschwitz - Quella barriera di cemanto che umilia i palestinesi
IL MANIFESTO di venerdì 28 gennaio pubblica in prima pagina un editoriale di Rossana Rossanda sul Giorno della Memoria, intitolato "Auschwitz".
La Rossanda, una delle tre fondatrici del quotidiano, scrive un testo di indubbio valore morale e intellettuale, fatta salva, a nostro giudizio, alcune faziosità politiche di troppo, nel quale accade persino di leggere qualcosa di vero sul conflitto mediorientale, fatto che credevamo ormai impossibile sul MANIFESTO (quando scrive della "messa in causa dell'esistenza di Israele" e della "dura risposta della guerra dei sei giorni"; appunto risposta, non aggressione, come difficilmente i lettori più giovani del quotidiano comunista possono sapere).
Tuttavia manca completamente, ci pare, di cogliere la lezione più urgente e attuale della memoria della Shoah. Evento che, secondo Rossana Rossanda, in dissenso da Hannah Arendt, da lei citata, e da Primo Levi, una cui frase campeggia sotto la testata del quotidiano sulla fotografia del binario di ingresso ad Auschwitz, sarebbe irripetibile, giacchè: "un massacro degli ebrei perché ebrei, di un popolo perché è un popolo, non potrà più avvenire nel silenzio del mondo".
Ma nel silenzio del mondo avvengono, ogni giorno, l'incitamento al genocidio, la disumanizzazione degli ebrei, la sistematica diffusione delle menzogne e dell'odio. Avvengono nel mondo arabo e islamico e se non si sono tradotte in realtà perchè Israele ha i mezzi e la volontà per difendersi, a dispetto di ogni ipocrita condanna il mondo le riservi. E non si può dimenticare che gli attentati del terrorismo palestinese hanno realmente colpito gli ebrei in quanto tali, indiscriminatamente, nel silenzio del mondo. Nè i progetti di armamento nucleare dell'Iran il cui leader Khamenei dichiara apertamente aspirazioni genocide, mentre il mondo appare nuovamente tentato dallo "spirito di Monaco"
Natan Sharansky ha denunciato nei giorni scorsi il "clima genocida" diffuso nei mezzi di comunicazione dell'Autorità palestinese (vedi il sito israele.net), e il ministro degli esteri israeliano Shalom ha ricordato che il genocidio non iniziò con le armi, ma con le parole. Parole che ancora risuonano nel nostro mondo, senza che le si sappia contrastare con la fermezza e l'unità di intenti che sarebbero necessari.
Per questo non è possibile riposare nella tranquillizzante ed erronea convinzione che ciò che è accaduto sessanta anni fa non potrà accadere di nuovo.
Non c'è nessuna garanzia, nessuno sconto al dovere, largamente disatteso, di opporsi all'odio e alla menzogna
Ecco l'articolo

Quando Willy Brandt vi si recò, cadde in ginocchio senza parlare - lui che non c'entrava per nulla, ma era il leader della Germania e questa piegava le ginocchia nel gesto estremo di riconoscimento di colpa - più che di richiesta di perdono, perché ci sono colpe di cui non si può essere perdonati. Non so se lo farà anche Berlusconi, se gli verrà in mente che l'Italia ha partecipato della stessa responsabilità. Né so immaginare la sua lustra persona nei passaggi fra quelle baracche e i loro fantasmi. Che anche l'Italia debba chinare la testa non è venuto in mente neanche a Fini quando ha ammonito qualcun altro di non scordare la Shoah - sarebbe stato più convincente se fra coloro che la minimizzavano, fino a una decina di anni fa, avesse messo onestamente anche se stesso e il suo mentore Almirante. Oppure se avesse taciuto. Al dolore si addice il silenzio e la riflessione. A questo dovrebbe servire la giornata della memoria. Soprattutto per i più giovani che della seconda guerra mondiale hanno una vaga percezione, mentre sanno tutto dello sterminio degli ebrei ma banalizzato dall'essere diventato immagine corrente e oggetto di fiction in tanti e pur utili film. Certo, quella che corre è una percezione diversa da quella che ne ebbero quelli della mia età. C'è una generazione, di ebrei e non ebrei, che quella memoria non se la potrà mai togliere di dosso.
Perché la seconda guerra mondiale e questo suo orrore in essa non finirono il 25 aprile né alla firma della resa finale. Anche se di ogni guerra ciascuno che non abbia fatto parte d'uno stato maggiore conosce soltanto quel poco che gli sta nell'orizzonte (e in guerra l'orizzonte si restringe, poco ci si dice, al più si sussurra fra paura e speranza) della dimensione della seconda guerra mondiale ognuno seppe singolarmente poco. Apprese quando finì, quella guerra continuò a rivelare per anni la sua estensione e i suoi abissi. Sgocciolò sangue su di noi per tutta l'estate del 1945, nella quale sui giorni di sollievo o di festa caddero successivamente la notizia delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki e le prime fotografie dei lager. L'atomica ci mettemmo un pezzo a concepirla in concreto. Quanto ai campi, io avevo veduto gli impiccati a Fondo Toce e i corpi dei fucilati ammucchiati a Milano, e credevo di sapere tutto, quando mi arrivarono le prime istantanee di Buchenwald, le fosse di corpi diventati strame, fradici come foglie marce confusi l'uno nell'altro, ossa pelle e orbite di volti senza più lineamenti. Neppure mi resi conto subito che la maggior parte di essi non erano combattenti che avevano messo in conto di finire sanguinanti sotto terra, non erano i miei compagni comunisti e resistenti, erano ebrei uccisi perché ebrei - non per quel che avevano tentato di fare ma per quel che erano o erano classificati. Perché gli ebrei e, seppi dopo, anche gli zingari vennero sterminati come una specie animale infetta. Il sogno che ossessiona il deportato, come scrive Primo Levi, è che torna a casa, racconta e nessuno gli crede. Perché quel che gli è successo è impensabile.
Nessuno di noi poté vedere per anni quei forni crematori simili a locomotive, quei cortili circondati dalle palizzate di ferro spinato ed elettricità, gli osceni becchi di doccia delle camere a gas, senza sentirsi messo in causa come essere umano. Si era andati oltre ogni limite immaginato. E non per caso, per decisione di molti e per un esercito di esecutori tranquilli. E sull'umanità questo si riversava, sua terribile proiezione.
Oggi qualcuno dice che prima non si sapeva e dopo la guerra non si volle sapere. Non credo, anche se certamente fu la messa in causa dell'esistenza di Israele in Palestina e la dura risposta della guerra dei sei giorni a riportare con una forza mai avuta la memoria degli ebrei sulla scena del presente, ad allargarla e approfondirla.
Non c'era stata censura, c'era l'insopportabilità di un passato così vicino, dell'aver visto qualcuno portato via in camion da casa, di notizie e timori che arrivavano - e questa è una percezione che neanche il processo di Norimberga, neanche quello ad Eichmann, neanche i fiumi di testimonianza che escono oggi possono rendere come la sentimmo allora. Non tutto quel che è stato vissuto si può riprodurre.
Ed è forse un bene che sia così. Che tutti sappiano della Shoah come di una delle tragedie più atroci che sono state possibili per trarne un insegnamento decisivo. Capisco che non può essere una pagina di storia per chi è uscito da quell'inferno. Ma penso che Hannah Arendt sbagli quando dice: «Quel che una volta è stato pensato e fatto, è destinato a ripetersi». Altre disumanità stiamo compiendo, perché l'inventività degli uomini nel distruggere è infinita. E potente la tentazione di uccidere chi non appartiene ai tuoi. Ma un massacro degli ebrei perché ebrei, di un popolo perché è un popolo, non potrà più avvenire nel silenzio del mondo. Qualche volta la storia fa anche una passo indietro e l'impensato torna a essere impensabile. Almeno nel giorno della memoria lasciamo le miserie in cui inciampiamo tutti i giorni e inginocchiamoci tutti perché sia così.
A pagina 16 Cristina Piccino firma una recensione al film di Simon Bitton "Il Muro", "Quella barriera di cemento che umilia i palestinesi".
La barriera difensiva vi si legge crea un "enorme ghetto per i palestinesi2, con un evidente parallelo con la segregazione degli ebrei, nell'Europa cristiana e durante la persecuzione nazista.
Un paragone inaccettabile, sia per la differenza delle condizioni di vita nei territori che la barriera separa da Israele ( e non circonda) rispetto a quelle dei ghetti, sia per la diversa genesi delle due realtà: se i ghetti nascevano dalla volontà di segregare o di perseguitare, la barriera nasce dalla necessità di difendersi dai "kamikaze" che, contrariamente a quanto scrive la Piccino, non sono "rappresentazioni eclatanti", ma una concreta e tragica realtà.
Ecco l'articolo:

Il ghetto di Sharon «Ho filmato il muro perché fa parte di me, riguarda ciò che sento e quello che vedo»
Nelle note al film della regista, Simone Bitton, marocchina nata a Rabat, dove è cresciuta muovendosi tra Gerusalemme e Parigi, passaporto con doppia nazionalità, francese e israeliana, dunque cultura e storia della diaspora di apertura e contaminazione, leggiamo: «non ho fatto questo film per convincere chi ha opinioni diverse dalle mie sul conflitto tra israeliani e palestinesi. Volevo dividere con lui ciò che sento, raccontare ciò che vedo, perché il muro che ho filmato fa parte di me come l'orizzonte mentale e umano dei personaggi». Muro è infatti l'immagine a più punti di vista della vergognosa barriera che Sharon continua a costruire delimitando un enorme ghetto in cui sono chiuse migliaia di persone. Nelle immagini viaggiamo lungo il muro e i cantieri sempre aperti a distanza ravvicinata, una presenza fortissima, dolorosa nella sua implacabilità. Il muro è un segno che modifica paesaggio fisico e soprattutto mentale, che afferma violenza, nega ogni contatto, pratica la progressiva e radicale sparizione di chi sta, necessariamente, dall'altra parte. Chi non ha diritto di uscire, che dietro a quel muro dove appunto si fa fatica a arrivare accumula miseria, frustrazione, rabbia. Il muro determina il primo piano di una parte, gli israeliani, coloro che lo costruiscono, che lo agiscono e che per questo sono liberi di muoversi, controllano la loro immagine. Gli altri invece l'immagine sembrano perderla nel quotidiano, nelle piccole storie, al di là delle rappresentazioni più eclatanti - il kamikaze - nella vita. «Riprendimi, portami lontano da qui», grida un ragazzo palestinese alla macchina da presa. Contro le certezze politiche e militari - l'intervista a Amos Yaron, responsabile per il ministero della difesa che non vediamo quasi in viso, contiene affermazioni sulla necessità del muro che oltrepassano il paradosso - tra chi vive ci sono dubbi. Cosa significa questo muro? Prima di tutto umiliazione, la stessa che ai checkpoint subiscono i palestinesi continuamente mortificati. Poi negazione dichiarata di ogni possibile rapporto. Un uomo, israeliano, approfitta del documentario per parlare a un amico palestinese dell'altra parte: «c'è il telefono è vero ma vedersi, bere un bicchiere è molto meglio». Dunque? Lungo il muro si sovrappongono voci diverse, canti sacri in arabo e in ebraico, parole che cercano di spezzare il fracasso dei bulldozer. Quel muro grigio sembra invece negare ogni presente e ogni futuro.

Il film di Simone Bitton - in questi giorni al Sundance - ce lo mostra come non lo avevamo mai visto, contestualizzato, radicato nel vissuto, cosa che del resto investe tutto questo conflitto come altre guerre embedded anche senza richiesta ufficiale, composte in quelle immagini che poco raccontano - forse volutamente - e nel loro replicarsi, quasi un nuovo mantra formato digitale, finiscono col produrre assuefazione. Di per sé infatti le immagini di Mur forse non le vedremmo mai in un tg. Ma la forza sta proprio qui. Ci dicono cosa è la disperazione imposta, che peso abbia vivere un perenne stato di occupazione e di apartheid dichiarati come umana necessità, essere privati dell'orizzonte, del presente e della Storia.
IL MANIFESTO non dà oggi spazio alcuno alle aperture di Sharon verso Abu Mazen. Le notizie che potrebbero mettere in discussione in qualsiasi modo l'immagine di Israele come sabotatrice della pace sono "clandestine" sul quotidiano comunista.
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