La Shoah tra memoria e falsa memoria
una descrizione e una critica
Testata:
Data: 28/01/2005
Pagina: 1
Autore: Pierluigi Mennitti - Marta Brachini
Titolo: Il sibilo stridulo di Oswiecim - Il dono della memoria
L'edizione on-line della rivista Ideazione pubblica due articoli sulla Giornata della Memoria, "Il sibilo stridulo di Oswiecim", di Pierluigi Menniti:


Oswiecim è un nome quasi impronunciabile. Il suo suono ricorda quello di una saracinesca che si chiude, inesorabile, stridendo nei binari d’acciaio. Un fischio stridulo che provoca un brivido gelato nelle ossa e produce un sibilo acido, insopportabile alle orecchie. Oswiecim atterrisce già quando leggi le lettere sgraziate stampate sul cartello stradale. Si arriva percorrendo una strada statale sconnessa che porta alla fine del mondo, mentre la Cracovia elegante da cui siamo partiti è già cancellata dalla memoria. Nulla sembra umano a Oswiecim. Tutto rimanda all’orrore che fu.
Ma lo devi cercare quell’orrore, devi volerlo vedere con i tuoi occhi e faticartelo perché nessun cartello ti aiuterà, nessuna indicazione ti guiderà al campo. Oswiecim pensava di seppellire i fantasmi sotto un nome impronunciabile ma quel nome è la memoria che si concretizza, che si fa filo spinato, mura, binari ferroviari, forni, stanzoni, docce, camini, baracche, torrette, vagoni piombati, lampioni, valige, capelli, occhiali. E voci. Voci che sussurrano in ogni cortile, in ogni stanza, in ogni angolo, assieme al vento che s’è portato via la cenere, alla cenere che s’è portata via i corpi, ai corpi che si son portati via le anime.
Entrando dalla periferia orientale, ogni capannone, ogni complesso industriale sembra il campo. Oswiecim è tutta un campo. Non è riuscita a sfuggire al peccato originale. Costeggiamo una fabbrica dismessa che negli anni del comunismo era l’orgoglio produttivo della città. Mura alte la circondano e filo spinato. E torrette d’osservazione e lampioni. E chissà a cosa servivano, visto che qui si produceva acciaio. Ma c’erano anche i forni che forgiavano metalli invece che cremare cadaveri, ma producevano lo stesso sibilo della saracinesca che si chiude, lo stesso sibilo stridulo di sempre, il sibilo di Oswiecim.
Quel che i nazisti costruirono sulle baracche di una vecchia caserma polacca è il simbolo dell’orrore, la memoria che oggi ricordiamo, a sessant’anni dalla sua scoperta, avvenuta in una giornata del gennaio 1945. Oggi quel simbolo lo devi cercare perché nessuno te lo indica. Senza indirizzo ti perdi nel reticolo squadrato di questa brutta città di pianura polacca, fatta di case basse e giardini senza alberi, senza prato, senza fiori. Non nascono fiori a Oswiecim. Non ci sono mai nati. Il prato sì. Quando finalmente arrivi al campo e passi attraverso il cancello di ferro con la scritta "Arbeit macht Frei" il verde ti inonda gli occhi, preme sulle pupille e ti fa male tutto quel colore in un posto come questo. Le casette, le stradine, la ghiaia che ti scricchiola sotto i piedi, ripetendo il sibilo dell’orrore: Oswiecim, Oswiecim. Poi il secondo campo. Ci arrivi seguendo i binari, fino alla porta d’ingresso, il torrione in mattoni rossi che abbiamo visto in tante ricostruzioni cinematografiche. Punti i piedi per non svenire. La chiamano Oswiecim. Era Auschwitz.
E "Il dono della memoria" di Marta Brachini:

"Meditate che questo è stato". E’ l’imperativo di Primo Levi. L’imperativo che ognuno di noi, nel suo privato, deve riflettere. A maggior ragione a sessanta anni dal giorno in cui lo stesso Primo Levi vide aprirsi davanti ai suoi occhi i cancelli del lager. Dopo aver vissuto l’orrore di uomini ridotti a numero, l’abbrutimento di chi lotta per mezzo pane e chi muore per un sì o per un no, Primo Levi sopravvisse ad Aushwitz ma non alla memoria di Aushwitz. La sua è una delle più grandi testimonianze di quello che fu lo sterminio sistematico e industriale di sei milioni di ebrei europei da parte dei nazisti. Ma nel mondo smemorato non è così facile mantenere viva questa immagine e sempre di più la riflessione rimane scolpita sulla carta invece che sui nostri cuori, come sperava Levi. Così il pubblico europeo si stanca delle forzature istituzionali e le minoranze anti-ebraiche europee colgono la palla al balzo per ottenere simpatie politiche o popolari.
Da cinque anni a questa parte in Europa ogni 27 gennaio si ricorda quello che è stato. Ma non sempre in un clima di silenzio e rispetto per le vittime e i sopravvissuti. C’è infatti crescente bagarre politico-culturale che precede e segue ogni tipo di commemorazione ufficiale. E soprattutto si fa sempre più evidente la tendenza a considerarlo un più generico giorno dei diritti umani universali. Infatti, nei sentimenti comuni e diffusi dell’Europa del dopoguerra, quella dei diritti umani è diventata una specie di ideologia, una parola chiave che apre le porte alle simpatie multiculturali. E così il giorno della memoria rischia di caratterizzarsi come universale, smette di essere una celebrazione silenziosa e particolare diventando pretesto propagandistico per rubare un po’ di pietà alla causa ebraica e indirizzarla altrove. Così c’è chi cerca di affiancare a questo giorno tutti i genocidi storici da quello degli armeni a quelli consumati nei gulag sovietici e chi invece vorrebbe aggiungerne altri, di moderni e attuali.
Non a caso per la prima volta anche alle Nazioni Unite, istituzione regina della babele assembleare, hanno deciso di dedicarsi al ricordo. Cofi Annan ha esordito difronte all’aula semi-vuota con una frase universalista: "Perché il male trionfi basta che i buoni non muovano un dito". E tale incpit gli ha poi permesso di citare insieme al genocidio ebraico anche le diversissime, e discutibilmente assimilabili, esperienze del "Darfur, della Cambogia, della Bosnia o del Ruanda". Esperienze sulle quali il gigante buono che Annan rappresenta non ha potuto niente se non discuterne. Al punto che si potrebbero aggiungere per l’occasione le catastrofi naturali che hanno colpito intere popolazioni civili e fare del giorno della memoria anche una commemorazione dei "genocidi naturali", come quello dello Tsunami (magari inserendo anche la peste che colpì l’Europa nel XIV secolo!).
A parte l’ipocrisia, e l’ironia, tutte le tragedie umane hanno certamente il compito di mobilitare le coscienze affinché nessuna di queste possa ripetersi. Ma se non si riesce a far questo si rischia di far scadere la Shoà in un relativismo perbenistico e forzato, se non in una aperta campagna antiebraica, come hanno fatto molti musulmani occidentali, che siano quelli delle massime associazioni islamiche inglesi o quelli di casa nostra. E’ triste infatti constatare che in Italia ci siano dei cittadini di religione musulmana che parlano del giorno della memoria come "propaganda ebraica" o insistono sul "genocidio iracheno" (intendendo quello perpetrato dagli americani contro gli iracheni) o su quello palestinese (perpetrato da i nuovi nazisti ebrei israeliani contro i palestinesi) o che infine dichiarano apertamente: "Le parole (della poesia di Primo Levi) sono drammaticamente attuali. Ma se togliessimo il nome dell’autore, potremmo tranquillamente attribuirle a un detenuto di Guantanamo o a uno sfollato di Gaza". La memoria è forse un dono. O lo si possiede oppure non resta che parlarne a sproposito.
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