Il Giorno della Memoria: per ricordare e per combattere l'antisemitismo dei nostri giorni e ogni attentato alla dignità dell'uomo
riflessioni e informazione nel giorno della commemorazione della Shoah
Testata:
Data: 27/01/2005
Pagina: 1
Autore: Federico Steinhaus - Renato Mannheimer - Marina Valensise - Carlo Panella - Anna Barducci - Dimitri Buffa - Shaykh Abdul Hadi Palazzi -la redazione
Titolo: Articoli sul Giorno della Memoria
Il CORIERE DELLA SERA di giovedì 27 gennaio 2005 pubblica in un edizione locale un editoriale di Federico Steinhaus sulla Giornata della Memoria, che riportiamo:
Il 27 gennaio 2005, che segna un giorno dedicato al ricordo, si colloca all’inizio di un anno in cui molte volte ripercorreremo i tragici avvenimenti che sessant’anni or sono cambiarono la storia dell’ Europa e dell’umanità intera.
La legge istitutiva di questa Giornata della Memoria ci chiede di commemorare gli stermini ed i genocidi che macchiarono la nostra storia nel secolo scorso ma anche coloro che vi si opposero a rischio della propria vita, per evitare che il loro ricordo sfumi nel trascorrere del tempo fino a scomparire dalla nostra memoria. Le finalità delle legge sono prevalentemente pedagogiche, oltre che commemorative: raccontare ai giovani significa infatti renderli consapevoli del possibile ripetersi di tali atrocità e dell’ esigenza fondamentale di reagire, di opporsi con ogni energia quando essi ne scorgano i sintomi.
Vi è chi tenta di banalizzare queste atrocità, di sminuirne il significato diluendole in un contesto generico di altri massacri, o addirittura di negarle. Fintanto che vi saranno vittime pronte a testimoniare – da Elie Wiesel a Nedo Fiano al cardinale primate di Francia Lustiger, la cui famiglia fu sterminata ad Auschwitz – e carnefici da processare queste operazioni di banalizzazione e negazione troveranno chi le sappia smascherare; ma cosa succederà dopo che vittime e carnefici non saranno più qui per ricordarci la realtà di quegli orrori?
La risposta alla domanda cruciale se sia utile continuare a ricordare questi stermini, a ricercarne cause, conseguenze, complicità, è dunque sicuramente affermativa: non è solo utile, è indispensabile. Solamente continuando a parlarne con i giovani potremo usare le malvagità del passato per costruire un futuro che sia rispettoso delle diversità e protegga con il diritto alla vita anche la dignità e la libertà dell’individuo.
Sessant’anni sono molti e pochi al contempo: segnano il passaggio dalla cronaca alla storia, modificano la percezione dei fatti negli adulti e rendono ardua la visione della loro contemporaneità da parte dei giovani; ma sono anche pochi per chi è sopravvissuto e sente ancora in ogni fibra del suo essere il dolore di quelle ferite insanabili e profonde. Per le persone sradicate dal loro mondo, per coloro la cui famiglia è stata sterminata, per quanti sono stati esclusi per sempre dal loro contesto culturale di riferimento – si pensi solo all’ebraismo dell’Europa orientale, che è stato annientato – il tempo si è fermato; dire loro che nulla di tutto ciò è mai avvenuto, o che è avvenuto ma non è stato che un minuscolo tassello negli orrori di un conflitto globale, significa rinchiuderli nuovamente nella prigione di quella tragedia.
Il dovere della memoria riguarda ogni massacro, ogni persecuzione, ogni crimine contro l’umanità; ma nella Giornata della Memoria l’ attenzione di tutte le istituzioni della nostra Regione si focalizza sulla Shoah. Ciò avviene in considerazione della sua caratteristica di unicità, che ne fa un parametro etico per l’umanità intera. Uno stato progettò scientificamente l’ eliminazione di un popolo sparso in un intero continente, e dedicò a quel progetto risorse, tempo e mezzi colossali.Ma anche altri tentativi di sterminio avvennero in quel contesto di tenebre, e fra questi il Comune di Merano ricorderà, giustamente, il mezzo milione di zingari che furono i compagni di viaggio degli ebrei nei forni crematori d’ Europa. A tutti costoro vogliamo collegare anche il ricordo dei malati di mente, degli handicappati e dei gay tedeschi austriaci ed altoatesini uccisi dai nazisti perché rappresentavano un pericolo per la purezza della razza.
La memoria, per essere tale, non deve trasformarsi in un ripetitivo esercizio di retorica. Usando le parole di Elie Wiesel, noi abbiamo il dovere di ricordare, per impedire che il passato del popolo ebraico possa divenire il futuro di altri popoli.
A pagina 17 il CORRIERE pubblica l'analisi di Renato Mannheimer di un sondaggio sull'antisemitismo in Italia e sulle sue motivazioni, fra le quali figura come molto rilevante un'immagine negativa, e falsa, di Israele.
Ecco l'articolo, "Gli taliani e il pregiudizio: Sono troppo attaccati al denaro":

Un intero anno di iniziative, dibattiti, prese di posizione, non sembra essere servito a molto. La presenza di persone definibili come « antisemiti » non si è attenuata. Anzi, per certi versi l'atteggiamento di intolleranza si è accentuato. Così com'è accaduto in vari altri Paesi europei.
L'orientamento negativo verso gli ebrei si può manifestare con diversa intensità e molteplici espressioni, più o meno radicali. Analogamente all'anno scorso e ai precedenti ( ma con un incremento del 3% negli ultimi mesi), la maggioranza della popolazione dichiara che « gli ebrei hanno mentalità e modi di vita diversi dal resto degli italiani » .
E, similmente alle rilevazioni passate, c'è un 7%, circa tre milioni di persone, che afferma che « gli ebrei dovrebbero lasciare l'Italia » . Permane l'accusa di un eccessivo attaccamento al danaro ( il 42%, con un incremento rispetto all'anno scorso, ritiene che gli ebrei abbiano « un rapporto particolare con i soldi » ) , accanto all'idea che vi sia un sostegno troppo fazioso alla politica dello Stato di Israele.
Si ha dunque conferma dell'esistenza di due matrici nella formazione e nella permanenza del pregiudizio antisemita. La prima è legata a un'immagine distorta delle caratteristiche specifiche degli ebrei e, in particolare, al rapporto di questi ultimi con il danaro. La seconda dipende dall'atteggiamento verso lo Stato di Israele e dalla stretta relazione con quest'ultimo attribuita agli ebrei. I due fattori sono legati tra loro: l'atteggiamento critico verso Israele risulta di RENATO MANNHEIMER più accentuato tra chi ha un'immagine negativa degli ebrei e viceversa.
Entrambe le matrici del pregiudizio hanno un significativo peso causale nel determinare l'orientamento antisemita. Ma un'analisi statistica più approfondita mostra come il giudizio, positivo o negativo, verso Israele « conti » più di ogni altra cosa nella formazione e nell'intensità dell'atteggiamento verso gli ebrei. Risulta di un certo interesse anche la descrizione dei tratti salienti di chi, più di altri, esprime un atteggiamento antisemita. Quest'ultimo si rileva in misura relativamente maggiore tra quanti si collocano politicamente a destra. Ma è una mera accentuazione: il connotato prevalente degli antisemiti più convinti è la perifericità nello status socio- economico. Si tratta perlopiù di persone anziane ( la punta massima è rilevabile tra chi ha oltre 65 anni, la minima si riscontra sotto i 25 anni), con titolo di studio basso ( tra chi ha fatto solo la scuola elementare gli « antisemiti » sono quasi un terzo), residenti in comuni medio- piccoli. Generalmente pensionati o casalinghe.
Questi segmenti di popolazione, più marginali socialmente, sono più ricettivi di pregiudizi di ogni genere. E' tra loro che si rileva, ad esempio, anche il più alto tasso di « antipatia » verso gli arabi, nei confronti dei quali emergono talvolta atteggiamenti ancora più ostili di quelli riscontrabili verso gli ebrei. Ciò rende ancora più preoccupante il fenomeno. Si ha infatti conferma dell'esistenza di un'ampia base di portatori potenziali di pregiudizio, stimolabile da questo o da quell'episodio, da questa o quella forza politica. Con un conseguente pericoloso accrescimento dell'intolleranza sociale.
Sempre a pagina 17 una notizia significativa del clima antisemita creatosi in alcune università americane nelle quali la demonizzazione di Israele è salita in cattedra.
Ecco l'articolo, "Gli studenti ebrei: siamo discriminati":

Una conferenza di studi sul Medio Oriente è stata cancellata ieri alla Columbia University di New York.
L'appuntamento era stato organizzato da George Mitchell, l'ex inviato della Casa Bianca incaricato di gestire la questione israelo- palestinese.
A determinare l'annullamento è stata la defezione all'incontro dell'ambasciatore di Israele negli Usa, Daniel Ayalon, « alla luce delle denunce degli studenti ebrei di intimidazioni da parte di membri del corpo accademico » .
La crisi del prestigioso ateneo statunitense nasce dalle accuse di alcuni studenti ebrei, che sostengono di venir discriminati e insultati da docenti di simpatie filopalestinesi. Il presidente della Columbia, Lee Bollinger, ha avviato un'inchiesta interna.
Il FOGLIO dedica una pagina alla memoria della Shoah. Particolarmente impressionante la testimonianza di Alberto Sed, riportata nell'articolo "Lager quotidiano".
Ecco il testo:

Roma. Alberto Sed non ha nessuna voglia di ritornare ad Auschwitz, nemmeno in
pellegrinaggio col sindaco, nemmeno per prendersi una "rivincita" sui tedeschi. "Una volta che ce torno, so’ sicuro che ce rimango", dice. Eppure, non è di quelli che appena sentono parlare di lager rispondono "ancora?" come scrive Annette Wievorka nel suo bel saggio ("Auschwitz, 60 ans après") uscito da Robert Laffont. E’ uomo semplice, ebreo romano del ghetto, orfano di padre a sette anni nel 1935, cresciuto in collegio, costretto a lasciare la scuola per le le leggi razziali, arrestato dai fascisti nel 1944 e deportato ad Auschwitz con madre, nonno, tre sorelle e un cugino. La sua rivincita sono le tre figlie e i nipoti, in tutto 18 persone con i quali e per i quali ogni venerdì sera ringrazia Dio. "Il 16 ottobre eravamo riusciti a scappare da via Sant’Angelo in Pescheria. Per cinque mesi ci nascondemmo da mio nonno, in una cantina, a Porta Pia. Il 21 marzo 1944 vennero a prenderci lì, a colpo sicuro. Arrivarono all’alba. Erano fascisti, parlavano italiano. Ci portarono alle Carceri di San Gregorio e da lì in non so quale questura, dove un certo dottor Contini ci diede un sacco di botte per sapere dov’erano finiti gli altri 10 figli di mio nonno. Poi ci misero su un pullman con altre 50 persone. Non sapevamo dove stavamo andando. Finimmo a Fossoli, Carpi di Modena, dove restammo 20 giorni. I tedeschi comandavano, gli italiani stavano nelle torrette. A volte mi chiamavano, vieni a pulì ‘sta stanza. Permettevano a qualcuno di uscire per comprare due uova, un pezzo di pane. Io stavo in cucina. Facevo le uova sode per chi le voleva e ci mettevo il nome. A metà aprile ci portarono alla stazione. I tedeschi non parlavano, ordinavano, los, los. Ci caricarono sui carri blindati, stipati come alici. ‘Alza su Emma’, mi diceva mia madre, ‘falle prendere un po’ d’aria. Solo a Bolzano ci fecero scendere, poi da lì arrivammo ad Auschwitz. Fu il principio del calvario. Fummo accolti da altri deportati che pulivano i treni, smistavano la gente. Lo dico perché ci ho lavorato anch’io. Dopo due o tre giorni, in cui vedevo solo uomini, sentii parlare uno in francese. ‘Che sta succedendo?’ chiesi. ‘Di dove sei? Quando sei venuto? Da solo? E tua madre poteva lavorà? Beh, vedi quel fuoco lassù? Non la vedrai più tua madre e manco le tue sorelle. Che mi stai dicendo? So’ morte? Cremate. Mai esistite’. Sarà un imbecille, ho pensato, e l’ho lasciato perdere. Man mano che vedevo arrivare dei carrettini con decine di cadaveri, gente ridotta allo stremo che si buttava sui reticolati, dove li porteranno, mi chiedevo. Un giorno andai al gabinetto, che era un muricciolo lungo così con tanti buchi. C’era un commando, la mattina, con dei pali lunghi, che si prendeva gli escrementi, li metteva dentro una cisterna e li scaricava in aperta campagna. Sentii uno senza un braccio che imprecava in italiano ‘Va’ a fa ‘n culo’. Sai che significa? gli chiesi ‘E come non lo so? Sono italiano. So’ un militare. Ero partigiano, mi hanno preso e portato qui. Come soldato non mi fanno niente, ma so tutto quello che succede’. E mi raccontò. ‘Sta’ attento la domenica’, mi disse, ‘te possono pure sparà pe’ divertimento. Quando disinfettano i blocchi, bisogna stare fuori, al freddo. Fa’ in modo di non prendere le botte’. Si chiamava Tasca. Un giorno, a Roma, lo rividi allo stadio. Gli orrori del campo non si possono racconta’. Non c’è storia… Le barbarie erano tutti i giorni. La mattina zuppa d’acqua con un po’ d’orzo. A pranzo, acqua bollita con qualche pezzo di patata o carota o crauti, ‘na zozzeria. La sera un pezzetto di pane con un po’ di margarina. Secondo i posti dove andavi, se c’era un po’ d’erba, la tagliavi col cucchiaio limato. A cosa gli è servito farci soffrire tanto? Far morire tanta gente? E tutti quei lavori inutili, zappare la terra, spostarla da una parte all’altra, scaricare le patate. Io lavoravo 12 ore al giorno, con la neve, il gelo. A volte, ai forni crematori, riportavo i vestiti di gente che era morta, dopo che era stata uccisa. A volte pulivo i vagoni dei nuovi arrivati, incolonnavo le persone, mettevo i neonati sui carretti, per portarli nei forni. Di notte, andavo in cucina a capà le patate, le rape. Quando ti capitava, ne mangiavi una. La cosa più terribile? I morti addosso ai reticolati, le impiccagioni quotidiane, vedere sparare ai neonati, come al tiro a segno. Atrocità impensabili. I tedeschi scommettevano marchi, costringendoci ad assistere al gioco. Ci odiavano a tal punto che non eravamo più esseri umani. La domenica sempre ubriachi ci terrorizzavano coi manganelli, pronti a picchiare, e i cani lupi che ci mettevano poco a sbranarci. Mia sorella è impazzita vedendo l’altra sorella più piccola sbranata dai cani. Io invece ricordo la scena di un giovane che veniva dalla Grecia. Era stato preso perché aveva aiutato i partigiani. La domenica sull’uniforme riusciva a mettersi la tonaca, non so come avesse fatto a portarsela dentro, e diceva messa. Guarda non lo fare, se passano i tedeschi sono guai, gli dicevamo noi. Sono un prete,
senza tonaca non posso dire messa. Noi gli stavamo intorno, cercavamo di coprirlo. Senonché, come ha voluto il padreterno, un giorno i tedeschi lo vedono, gli ordinano di togliersi la tonaca, lui resiste. Cerchiamo di farlo noi. So’ cattivi. Non fa niente, dice lui. I tedeschi lo prendono, lo portano in mezzo a una pozzanghera. Risate.Vuoi scommettere quanto dura prima di morire, dieci minuti? venti? un’ora? Quello per uscire si aggrappava ai bordi, e loro calci per buttarlo giù finché non è morto affogato. Ce l’ho sempre in mente".
Un articolo di Carlo Panella, "Negazionismi", affronta il nodo scomodo del negazionismo e dell'antisemitismo arabi, ignorato dai grandi quotidiani e, ovviamente, da quelli più schierati contro Israele.
Ecco l'articolo:

"L’ebreo può uccidervi e prendere il vostro sangue per impastare il suo pane sionista. Questa realtà apre davanti a noi una pagina ancora più orribile del crimine in se stesso: le credenze religiose degli ebrei e le perversioni che contengono, che si impiantano su un odio cupo verso tutto il genere umano e tutte le religioni". Sarebbe bene leggere queste frasi deliranti prima di
ognuna delle commemorazioni pubbliche della Shoah. Perché non sono state scritte settant’anni fa, sono state scritte oggi. Non sono di Adolf Hitler né di un fanatico cattolico dell’Ottocento convinto dei riti di "sacrificio umano" degli ebrei. Sono le parole di un leader arabo di un paese cui la diplomazia
di molti Stati, purtroppo anche quella italiana, riconosce un’evoluzione moderata. Sono frasi del libro "Il pane azzimo di Sion", pubblicato nel 1983 da Mustafa Tlas che, dal 1972, è l’uomo forte del regime siriano, che da allora, ininterrottamente è ministro della Difesa baathista della Siria, che garantisce oggi al presidente Beshar al Assad la fedeltà al regime delle forze armate.
Con orgoglio la stampa siriana ricorda sovente che questo libro è un best seller. Con altrettanto orgoglio più di un serial televisivo ha tratto ispirazione da queste pagine: in una fiction si vede un povero arabo legato
come un salame su un tavolo da cucina, circondato da famiglie di ebrei dal naso adunco che stanno per ucciderlo con coltellacci per usare il suo sangue per riti immondi. Si possono avere rapporti diplomatici normali con paesi che vivono di questa "cultura"? Si può convivere senza dir nulla, senza fare un gesto, un cenno di disapprovazione con un mondo islamico in cui le correnti negazioniste della Shoah si sposano con saggi storici sull’omicidio rituale da parte degli ebrei, in cui vanno in onda in continuazione, al posto di Beautiful, serial ispirati dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion? Questo è il tema oggi, 2005, in Europa, nel Mediterraneo, se si vuole parlare seriamente di Shoah. Il giorno in cui le truppe alleate sono entrate ad Auschwitz in una parte non piccola del mondo musulmano è considerato una sciagura e non ci si vergogna a dirlo, a esprimere pubblicamente il dispiacere perché "il lavoro non è stato portato a termine". In Europa si stenta a credere che questo sia
possibile, che possa accadere a poche centinaia di chilometri da noi, ma così è. L’insulto di Auschwitz nei paesi islamici è prassi costante, continuativa, diffusa. Non è patrimonio di poche nicchie di negazionisti, ma di una larga parte della cultura di massa. Rivolgendosi a Hitler con un rimprovero per non aver "finito il lavoro", l’editorialista Abdallah Mahamud scriveva in prima pagina del quotidiano ufficiale del regime egiziano Al Aharam il 29 aprile del 2002, a chiosa di un’analisi in cui spiegava che gli ebrei – non i sionisti, gli ebrei – sono "un modello di degrado e degenerazione: "Se solo tu l’avessi fatto, fratello… Il mondo potrebbe respirare in pace senza la loro malvagità e i loro peccati". Il "fratello" cui si rivolge Abdallah Mahamud è naturalmente Hitler. E non è, purtroppo, un caso isolato: le speranze di pace in Palestina sono oggi affidate ad Abu Mazen, successore di Arafat ed è quasi un luogo comune, non da oggi, definirlo un pragmatico moderato. Probabilmente è così, e forse riuscirà sul serio a fare qualcosa sulla strada della pace. Resta il fatto che Abu Mazen è un negazionista, che ha conseguito a Mosca un dottorato nel 1982 con una tesi dal titolo inequivocabile: "L’altro volto: i legami segreti tra nazismo e sionismo", oggi pubblicata dalle edizioni Ibn Rashid di Amman. Tesi che coincide perfettamente con quanto ha dichiarato il 24 aprile 2001 l’ayatollah Ali Khamenei, guida della Rivoluzione islamica iraniana, aprendo a Teheran la conferenza interparlamentare musulmana: "I sionisti e i nazisti avevano strette relazioni e sono state fornite cifre esagerate sull’Olocausto degli ebrei per attirare la simpatia dell’opinione pubblica, per preparare il terreno all’occupazione della Palestina e per giustificare i crimini dei sionisti". Le tv egiziane trasmettono in continuazione talk show in cui "esperti" sostengono che la bomba all’hotel Hilton di Taba (16 israeliani straziati, più gli altri) l’hanno piazzata gli ebrei per ragioni di propaganda. Ora spiegano che "Auschwitz è una falsificazione, un’esagerazione per giustificare il vero olocausto in atto", quello di cui sarebbero vittime i palestinesi. Infiniti sono gli esempi di un antisemitismo feroce, radicale, intollerabile diffuso oggi nel mondo islamico, anche nel più distante dal teatro dello scontro israelo-palestinese, come la Malaysia, il cui leader Mohammad Mahatir, il 16 ottobre 2003 rispolverò la dottrina nazista del "complotto ebraico", dicendo davanti a capi di Stato di tutto il mondo: "Anche se gli ebrei domineranno il mondo per procura non vinceranno contro l’islam". Oggi buona parte di quell’Europa che pure commemora contrita la Shoah fa finta di credere che tutte le classi dirigenti arabe, palestinesi in testa, siano state entusiaste di Hitler soltanto per problemi tattici. Fa finta di credere che tanto odio di oggi sia stato suscitato nei musulmani non da un radicato, millenario antisemitismo musulmano (come è) ma esclusivamente dalla "provocazione" della nascita dello Stato di Israele (che ovviamente un suo peso gioca). Gli Stati Uniti, l’11 settembre 2001, hanno iniziato a capire che è vero il contrario.
L'articolo di Anna Barducci "Israele, per molti la Shoah era un fatto del passato, poi giunse l'Intifada" traccia egualmente una linea tra il passato e il presente, descrivendo il rapporto con la memoria della Shoah in Israele, prima e dopo l'offensiva terroristica della "seconda intifada" nella quale ancora una volta, e ancora nel silenzio del mondo, gli ebrei venivano uccisi solamente perchè tali.
Gerusalemme. Israele è il frutto dei figli della Shoah, la storia di una terra costruita mattone su mattone da un popolo, quello ebraico, che dopo l’Olocausto non aveva rinunciato a vivere. Molti ebrei europei raggiunsero a bordo di barconi le coste di "Ha’retz", il paese, di quella terra biblica "di latte e miele", che sembrava aprire nuove speranze. "Avevo sette anni quando sono partita da Livorno per Haifa nel 1945 – dice al Foglio Giovanna Di Porto – Israele non esisteva, noi eravamo in viaggio come clandestini, con il rischio che gli inglesi ci rimandassero indietro. Eravamo cinque fratelli, ma i responsabili della nave avevano detto a mia madre che poteva portare soltanto tre di noi e che gli altri due figli, io e mia sorella, li avrebbero caricati in un secondo momento. Arrivate ad Haifa siamo rimaste per mesi in una tendopoli. Mia madre ci ha cercate per giorni, gridando il nostro nome, fino a quando non ci ha ritrovate. La guerra non ci aveva lasciato niente e mio padre era stato preso dai tedeschi. Piano piano abbiamo iniziato la nostra vita da capo, con entusiasmo, in un paese dove ci sentivamo sicuri. Avevamo nostalgia dell’Italia, la terra dove eravamo nati e da dove ci siamo sentiti cacciati". Nacquero nuove città e quelle esistenti si trasformarono in metropoli, si incominciò a insegnare con entusiasmo una rinata lingua ebraica, attecchì il socialismo dei primi kibbutz e il vento trasportava un nuovo tipo di musica con i toni nostalgici dell’est Europa mescolati ai ritmi della ritrovata identità mediorientale. A pochi giorni dalla sua creazione, senza avere il tempo di piangere i corpi gasati dei propri cari, gli israeliani si ritrovarono a combattere una nuova, lunga guerra contro l’intero mondo arabo che allora, come oggi, minacciava la loro esistenza. Rimanere uniti e combattere significava impedire un secondo "disastro", una nuova Shoah. I cinquant’anni di guerra che hanno accompagnato la crescita dello Stato di Israele non hanno impedito la nascita di una democrazia dinamica e pronta a mettersi in discussione. Si è riformata l’identità israeliana del "sabra", cioè del fico d’india, dolce dentro e spigoloso all’esterno, molto diretto econ poco tempo per i convenevoli. Nuovi "olim", immigrati ebrei, che sfuggivano dalle persecuzioni del mondo arabo o da quelle degli Stati comunisti, sono andati a formare una sorta di "goulash", che continua a caratterizzare la società israeliana. "Mia nonna dice che sono fortunata – racconta al Foglio Yael Katz, una giovane ragazza israeliana – Il mio popolo è sempre stato perseguitato e tuttora noi ragazzi sentiamo sulla nostra pelle la tragedia dell’Olocausto. Ora però, dopo duemila anni, abbiamo una patria, un rifugio dove poter vivere". Fuori dalla porta del Yad Vashem un ragazzo di appena vent’anni si siede sul marciapiede, si mette le mani sulla testa e piange. Un’associazione, Amcha, aiuta non soltanto i sopravvissuti dell’Olocausto, ma anche la seconda e la terza generazione. I "mizrahim", gli israeliani provenienti dagli Stati arabi, nonostante non abbiano subito direttamente la perdita di un familiare nei campi di concentramento, sentono la minaccia costante di un nuovo "disastro". "Una delle più belle canzoni israeliane s’intitola ‘ein li eretz aheret’, che vuol dire ‘non ho nessun altro paese’ – dice Tomer Segman, un ragazzo i cui nonni morirono ad Auschwitz – E’ proprio così che mi sento. Il mio Stato è continuamente minacciato dai terroristi che vogliono cancellarci dalla carta geografica. Viviamo come in una roulette russa, senza sapere se torneremo a casa ogni volta che andiamo al cinema o saliamo su un autobus. In Europa invece prima piangono per aver causato l’Olocausto e poi ci chiamano assassini. Abbiamo sofferto e combattuto per questo fazzoletto di terra, accettando compromessi sempre respinti. I nostri nonni non avevano nessun luogo dove poter scappare. Ma oggi Israele esiste". Yossi Klein Halevi, scrittore e analista israeliano, spiega al Foglio che le nuove generazioni, prima di Oslo e prima dell’attuale Intifada, consideravano la Shoah un evento appartenente al passato. "Con l’inizio degli attacchi terroristici i giovani hanno riniziato a porsi le domande che ci hanno accompagnato per millenni: perché vogliono ucciderci soltanto per il fatto che siamo ebrei? Perché quando ci difendiamo il
mondo ci accusa di essere gli aggressori?".
Ciò che è cambiato, dalla Shoah ad oggi, è la possibilità per gli ebrei di difendersi dai loro aggressori, grazie alla nascita di Israele.
La lezione storica della Shoah è l'irrinunciabilità del diritto all'autodifesa del popolo ebraico, ha sostenuto Ariel Sharon nel discorso di commemorazione tenuto il 26 gennaio alla Knesset, di cui dà brevemente notizia LA STAMPA, nell'articolo "Da allora contiamo solo su noi stessi", che riportiamo:

TEL AVIV. «Il mondo non ha mosso un dito» per fermare l’Olocausto: è la violenta accusa scagliata da Ariel Sharon nel sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz. La lezione della Shoah, secondo il premier israeliano che ha tenuto ieri un discorso davanti alla Knesset, è «la triste e terribile conclusione che gli ebrei venivano massacrati e a nessuno ne importava nulla». Un discorso di una durezza senza precedenti che non ha risparmiato nemmeno gli alleati non hanno voluto intervenire pur sapendo cosa stava accadendo nei campi della morte nazisti: «Sapevano che gli ebrei erano in via di sterminio e non hanno fatto nulla», evitando di accogliere profughi dal Terzo Reich e rifiutandosi di bombardare le linee ferroviarie lungo le quali dall’Ungheria verso la Polonia partivano ogni giorno convogli di deportati ad Auschwitz dove ogni giorno venivano uccisi 10 mila ebrei.
Dal genocidio gli ebrei hanno imparato a contare solo su se stessi, ha detto Sharon gettando un ponte tra il tragico passato del suo popolo e un presente che vede una rimonta di antisemitismo che prende spesso la forma di ostilità verso lo Stato d’Israele. Il premier ha citato in proposito Martin Luther King secondo il quale «l’antisionismo è antisemitismo camuffato». Vengono denunciati quali «neoantisemiti» coloro che accusano gli israeliani di usare metodi da nazisti nella loro guerra contro il terrorismo palestinese. E in un parallelismo tra la Shoah e il presente Sharon fa capire che il suo popolo si sente oggi solo nel suo dramma esattamente come 60 anni fa, giustificando e rivendicando fieramente il diritto alla legittima autodifesa: «Lo Stato d’Israele ha imparato la lezione di Auschwitz», ha detto ricordando come il suo Paese rimanga «l’unico luogo al mondo dove noi ebrei abbiamo il diritto e il potere di difenderci con le nostre forze, non vi rinunceremo mai».
Su L'OPINIONE Dimitri Buffa intervista Leone Passerman.
Ecco l'articolo, "Il giorno della memoria e gli italiani che la rimuovono":

Presidente Paserman che ricorda di quel 27 gennaio 1945, quando gli alleati liberarono Auschwitz?
Premetto che ero un ragazzino di nemmeno sei anni. All’epoca non c’erano internet e la televisione e la notizia degli orrori rimbalzò in Italia nei mesi seguenti. Nella tarda primavera del 1945 tutti sapevano cosa era accaduto nei campi di concentramento. Per noi romani la liberazione era già avvenuta e all’epoca quella data non era ancora un simbolo.


C’è una tentazione revisionista oggi anche in Italia sull’Olocausto?

Purtroppo sì e non mi riferisco solo alle recenti dichiarazioni di un esponente di An. Troppa fretta di autodefinirci italiani brava gente. Cosa anche vera, visto che la mia famiglia stretta fu salvata dalla deportazione da un brigadiere dei carabinieri che ci avvertì che per noi a Genova si stavano preparando i treni piombati. Va però ricordato che quei seimila che vennero invece deportati, e quasi nessuno dei quali tornò vivo a casa, fu tradito da suoi connazionali, anche per motivi abbietti, come impadronirsi delle case o degli averi, altri venivano venduti per 5 mila lire, che era la taglia che si pagava a chi consegnava alla milizia fascista o alle SS i cittadini di religione ebraica. C’è stato di tutto.



Come era la vita degli ebrei in Italia negli anni ‘40 per quello che lei ricorda dai racconti dei suoi parenti?

I miei si erano trasferiti negli anni ‘30 dalla Polonia per una serie di motivi: c’era un antisemitismo diffuso che precedeva quello di importazione nazista, c’era per noi difficoltà a lavorare e a studiare, c’era la crisi economica. Nel 1934 l’ideologia hitleriana ancora non era penetrata in Polonia e quell’odio contro gli ebrei era proprio locale. Finchè fu vivo il maresciallo Pildsuzsky, fino al 1925, ancora ancora la vita per noi ebrei era possibile, dopo il 1925 l’antisemitismo ricominciò più forte di prima. Era quello di chiara matrice cattolica.


E allora?

I miei genitori nel 1934 si decisero ad emigrare in Italia e si stabilirono a Genova, in quella città io sono nato nel 1939, mio fratello era nato quattro anni prima, quando venni al mondo io le leggi razziali erano già in vigore da un anno e a mio padre era stata appena revocata la cittadinanza italiana che con tanta fatica era riuscito ad ottenere. Tutti gli ebrei stranieri che avevano ottenuto la cittadinanza dopo il 1919 si ritrovarono ancora una volta apolidi. Nel maggio del 1940 tutti noi venimmo internati, così come i nostri correligionari. Mio padre venne mandato a Ferramonti di Tarsia, sperduta località in provincia di Cosenza in Calabria.

Non esattamente un luogo di vacanza...

No davvero, anzi. Stava a mille chilometri da Genova. Mio padre venne arrestato e tradotto in quel paese in manette insieme ad altri ebrei. Mia madre aveva me di undici mesi e mio fratello di cinque anni e venimmo tutti mandati al confino a Montefiascone a 80 chilometri da Roma. Siamo stati lì fino al 1942, poi ci fu un movimento di protesta contro noi ebrei che venimmo accusati di avere occupato le case di villeggiatura degli italiani con la scusa del confino e insieme a qualche decina di famiglie ci spedirono in altri posti, nel frattempo mio padre era riuscito a ottenere il ricongiungimento con noi perchè mamma si era ammalata di tifo ed era stata ricoverata nell’ospedale di Montefiascone e fu il podestà scrivere alle autorità fasciste perchè si mettessero una mano sulla coscienza in quanto due bambini, io e mio fratello, eravamo di fatto lasciati soli al mondo.

E poi?

Nel 1941 ci eravamo ricongiunti con mio padre e quando nel 1942 venimmo di nuovo sloggiati, avendo mio padre saputo che lì vicino, a Pitigliano, esisteva una piccola comunità ebraica, fece richiesta di potervi essere assegnato insieme alla propria famiglia. Pitigliano era un luogo storico e simbolico per i miei correligionari, perchè era stato il primo paese al di fuori dello Stato pontificio, dentro al Granducato di Toscana, e quando gli ebrei nei secoli precedenti vennero tutti espulsi dal Papa, molti si andarono a stabilire proprio lì, dando vita a una comunità ebraica di un certo peso.


Lei ha avuto parenti finiti nei campi di sterminio?

Praticamente tutta la famiglia materna e paterna ha fatto quella fine, di quelli che rimasero in Polonia negli anni ‘30 non se ne è salvato uno. Si salvò solo una sorella di mia madre oltre a quella che era venuta con noi in Italia, tutti gli altri sono morti a Treblinka o ad Auschwitz, si salvò anche un cugino che aveva nove anni e che riuscì a scappare dal ghetto di Varsavia in Russia.

Come fece?

Se lo sono chiesti tutti. Questo cugino venne ricoverato per anni in un orfanotrofio fino al 1944 quando venne arruolato nell’Armata rossa e concluse la guerra liberando Berlino insieme agli altri nella primavera del 1945. Dopo il congedo ritrovò un parente in Germania, anche lui era stato arruolato dai russi, e quello gli disse: "ehi Zucker, tu hai dei parenti in Italia". Ci trovò nel 1946 a Roma, ricordo che venne a bussarci una notte e che noi ci mettemmo paura. Ci disse che ci aveva rintracciato grazie alle informazioni che gli aveva dato la Croce Rossa.

E invece che storia ebbe la zia che si salvò da Auschwitz?

Mia zia Amalia fu liberata dai russi e andò a piedi fino Kiewickze in Polonia, quasi 150 chilometri. Il 4 luglio 1946 però in quella città ci fu un pogrom post nazista e vennero uccisi 42 ebrei da gente che voleva loro rubare la casa, mia zia capì che in Polonia non ci si poteva proprio più stare. Nazisti o non nazisti. Prima della guerra c’erano 3 milioni e mezzo di ebrei, in Polonia, dopo ne erano rimasti 200 mila. Dopo quell’ulteriore pogrom cominciò un’emigrazione di massa prima verso gli Stati Uniti e poi verso Israele nel 1948, dopo la fondazione dello stato ebraico. Rimasero in pochissimi lì, solo quelli veramente convinti dal comunismo. Ma mal gliene incolse perchè tra il 1947 e il 1948 ci furono ulteriori ondate di violenza anti semita mirata proprio contro gli ebrei del partito comunista. E alla fine anche gli ebrei funzionari di partito andarono via. Oggi in Polonia ci saranno rimasti seimila ebrei in tutto, quasi tutti molto anziani.

Ci furono però anche ebrei fascisti della prima ora, il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ricordava che anche loro furono alla fine vittime delle leggi razziali.

Emblematico fu il caso di Ettore Covatta, uno dei fascisti della prima ora, figlio di una famiglia di ebrei di Torino persino imparentata con gli Agnelli. Era quello che aveva disegnato il logo della bandiera degli ebrei fascisti e criticava i sionisti dicendo che gli ebrei dovevano essere nazionalisti, questo negli anni ‘30 quando già da molti anni c’era chi faceva l’"alyà" nel futuro stato d’Israele. Quando fu al dunque anche lui dovette fuggire, anzi tentare di farlo, perchè poi fu ucciso ai confini della Svizzera mentre tentava di scappare, fu tradito dagli spalloni che dovevano farlo espatriare.

Dimitri Buffa

Nell'articolo "E per lo Spectator Auschwitz è come Jenin" Buffa dà invece notizia del blasfemo paragone apparso sul settimanale inglese.
Ecco il testo:

La stampa inglese sta diventando antisemita? Se lo chiede sgomento il sito internet "Honest reporting" che ha pubblicato l’altro ieri alcuni estratti di interviste uscite nei giorni scorsi in concomitanza con la settimana della memoria dell’Olocausto in Gran Bretagna. Il peggiore di tutti è stato il settimanale "The spectator", una specie di Bibbia per i patiti del 35 millimetri di oltre Manica, che pubblicava un’intervista a tale Anthony Lippmann, un anglicano la cui madre sopravvisse ad Auschwitz, il quale candidamente ha affermato che "non si dovrebbe parlare solo di forni crematori ma anche del Darfur, del Rwanda dello Zimbabwe, così come di Jenin e di Falluja.."
Praticamente un paragone tra i 57 guerriglieri uccisi dai soldati israeliani (che subirono a loro volta perdite per 23 unità) in una operazione antiterrorismo e 6 milioni di inermi cittadini ebrei d’Europa rastrellati, deportati e uccisi dai nazisti. Tali blasfemi paralleli in questi giorni vengono suggeriti anche da chi distribuisce "Jenin, Jenin", un "film verità" che è tutto una balla. Per esplicita ammissione del regista che lo ha realizzato. Il quale, in udienza pubblica in Israele trascinato per diffamazione in tribunale dai soldati che combatterono a Jenin, ha ammesso di avere fatto solo propaganda. E di essere stato finanziato per questo.

(dim.buf.)
Sempre L'OPINIONE pubblica un editoriale di Shaykh Abdul Hadi Palazzi,Segretario dell'Assemblea Musulmana d'Italia (A.M.d'I.), "
Shoà e paesi arabi: la memoria e la tragedia ".
Ecco il testo:

A sessant'anni dalla Liberazione dei deportati del campo di Auschwitz, in occasione della Giornata della Memoria, l’Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana e l’Assemblea Musulmana d’Italia rinnovano al popolo ebraico, alle Comunità ebraiche in Italia e all’estero e allo Stato d’Israele il cordoglio e la solidarietà per un crimine efferato e cieco di sterminio ideologicamente pianificato. Le organizzazioni musulmane moderate d'Italia ribadiscono oggi il loro impegno affinché la memoria del passato serva ad impedire che un crimine orrendo venga reiterato, ancora in odio del popolo ebraico e d'Israele, dagli ideologi del fanatismo wahhabita che sono eredi e continuatori delle ideologie totalitarie del secolo scorso.

Per la prima volta nella storia, il 24 gennaio 2005 si è svolto presso il Palazzo di Vetro di New York un memoriale delle Nazioni Unite per commemorare l’Olocausto del popolo ebraico.
Possiamo rallegrarci che oggi le nazioni che rifiutano di condannare e commemorare la Shoah non abbiano potere di veto come membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Quando si tratta di commemorare pubblicamente la Shoah di fronte al mondo, molti regimi però si astengono: il Palazzo di Vetro era mezzo vuoto. E questa la Tragedia di cui dobbiamo esser consapevoli nel giorno della Memoria. Possiamo attenuarla sostenendo quelle organizzazioni che chiedono che l’educazione all’odio etnico etnico, religioso, razziale o antisemita sia classificata come crimine contro l’umanità secondo la legislazione internazionale.

La reale tragedia per chi oggi si richiama alla Memoria e che nessuno degli ambasciatori arabi, eccetto quello giordano, abbia presenziato mentre le Nazioni Unite commemoravano l’Olocausto. E che il principe Zeid Ra'ad al-Hussein, unico diplomatico arabo a partecipare al memoriale, lo abbia fatto inserendo nel suo intervento insinuazioni di propaganda anti-israeliana. La Shoah seguita ad essere oggetto di rimozione culturale in tutti i paesi arabi, mentre non lo è, e in alcuni casi non lo è mai stato, in molti dei paesi musulmani non-arabi. Le eccezioni fra gli intellettuali, gli scrittori, i giornalisti, gli opinioni e i leader religiosi arabi esistono e sono pregevoli, ma restano tali. Se il test della "moderazione" dei paesi arabi passa attraverso la loro condanna dell’antisemitismo, l’indice è infimo oggi come lo era nel secolo ventesimo. L’epoca in cui i rappresentanti dei paesi arabi diranno circa l’Olocausto quelle parole di condanna che sono comuni in America e in Europa, è purtroppo per tutti noi ancora lontana.
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