Hamas avrebbe già accettato la tregua, se Israele non provocasse
il mondo alla rovescia del quotidiano della Margherita
Testata: Europa
Data: 26/01/2005
Pagina: 2
Autore: Filippo Cicognani
Titolo: Sei giorni di consultazione tra le fazioni e Abu Mazen. La tregua con Israele ora è più vicina, ma c'è chi frena
A pagina 2 di EUROPA un articolo di Filippo Cicognani spiega la tregua con Israele sarebbe di fatti già decisa dai gruppi terroristici palestinesi, mentre Israele non starebbe facendo nulla per favorire Abu Mazen.
In realtà Israele ha sospeso le sue operazioni militari, nonostante l'attentato a Karni.
Hamas e altri gruppi palestinesi d'altro canto non hanno ancora aderito a nessuna tregua, né hanno ipotizzato una cessazione definitiva delle ostilità. In tale contesto non sivede come la prosecuzione dei lavori di costruzione della barriera difensiva possa essere una "provocazione".
Ecco l'articolo:

Era arrivato martedì scorso a Gaza dicendo che non se ne sarebbe andato se non fosse riuscito a convincere i gruppi armati radicali a siglare una tregua. Invece, l’altro ieri Abu Mazen è tornato a Ramallah senza alcun annuncio, nonostante l’ottimismo che ha accompagnato i suoi incontri con i leader di Hamas, Jihad ed altre fazioni minori. Comunque l’accordo di tregua sembrerebbe nell’aria: Abu Mazen ha parlato di progressi significativi nel dialogo nazionale palestinese, mentre il portavoce di Hamas, Mushir al Masri, si è limitato a sottolineare che i colloqui si sono svolti in un’atmosfera positiva. Un’espressione vaga, che può significare molto, se si tien conto dell’intransigenza che ha sempre contraddistinto i gruppi radicali, oppure niente, visto che Hamas e Jihad continuano a rilanciare la palla nel campo avversario.
Mushir al Masri, come Hassan Jussuf, uno dei principali esponenti di Hamas in Cisgiordania, che ha trascorso anni in galera per terrorismo, sono stati chiari: tutto dipende da Israele, se il governo Sharon metterà in libertà i prigionieri palestinesi, restituirà i corpi dei caduti, cesserà le devastanti operazioni militari contro i militanti del movimento, cioè desisterà dai sistematici omicidi mirati, e si ritirerà dai territori occupati, una hudna è pronta per la firma.
Ma su questi punti per ora il governo Sharon fa orecchio da mercante. Benjamin Netanyahu, leader dell’ala più nazionalista del Likud, il partito di maggioranza, sostiene che Israele non debba fare alcuna concessione all’Anp in cambio di un cessate il fuoco.
Ottimista, comunque, la radio pubblica israeliana: citando fonti di Hamas afferma che il movimento di resistenza islamico e il presidente dell’Autorità palestinese hanno risolto quasi tutte le divergenze e un accordo di tregua con Israele sarebbe ormai a portata di mano. Insomma, secondo l’emittente i risultati di sei giorni di consultazioni tra l’estremismo palestinese e il successore di Arafat, sarebbero fi- nalmente costruttivi.
Sembra che dai colloqui sia emersa anche un’intesa sulla futura partecipazione di Hamas al processo politico non escluso un ingresso del gruppo islamico nell’Olp.
Tra l’altro, quasi a sottolineare che alle buone intenzioni possono seguire fatti concreti, nell’ultima settimana i gruppi armati hanno ridotto praticamente a zero gli attacchi contro obiettivi israeliani, salvo un gruppo dissidente di Fatah, che l’altro ieri ha sparato alcuni colpi di mortaio contro un insediamento ebraico, ma senza conseguenze.
Molto più guardingo l’atteggiamento israeliano: nessuna promessa, ma soltanto qualche informale assicurazione a fronte di un’offerta di un cessate il fuoco.
Non abbiamo alcuna intenzione di fare annunci ufficiali – dicono dall’ufficio del premier Sharon – se si arriverà ad una tregua, sarà de facto: «Alla calma risponderemo con la calma ».Insomma cominciate a non lanciare più razzi Qassam sulla vicina Sderot o sugli insedianti, poi si vedrà.
In sostanza, se alle parole, alle buone intenzioni devono seguire fatti concreti , come ha sempre chiesto Israele, non sembra che l’invito valga per il governo, di cui ora fanno parte i laburisti di Shimon Peres. Infatti Sharon non sta facendo niente per far abbassare il termometro della tensione e in qualche modo aiutare il complesso impegno di Abu Mazen. Anzi.
L’altro ieri sono ripresi i lavori, fermi dal giugno scorso, di uno dei tratti più controversi del muro, che, vicino all’insediamento di Ariel, nella zona di Nablus, si spinge in profondità nei territori palestinesi. La costruzione era stata a lungo combattuta dagli abitanti del vicino villaggio di Salfit, defraudati della loro terra, ma si sono visti respingere la richiesta di sospensiva dal procuratore generale, anche se poi il tracciato è stato leggermente modificato. E il muro, non dimentichiamolo, lo scorso luglio era stato dichiarato illegale dalla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja.
Non basta. È stato deciso di confiscare le proprietà dei palestinesi non più residenti a Gerusalemme est, un provvedimento che ha fatto esplodere le proteste anche dei pacifisti israeliani, come Yossi Beilin, leader della sinistra, consci dell’impatto che avrà nei rapporti tra le due comunità nella Città santa, come della rabbia che scatenerà nei territori.
Il prezzo della pace, col passare del tempo, si sa, è sempre più alto, ma qualcuno deve pur cominciare a pagarlo.
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