Il sangue dei martiri bagna la festa del Sacrificio, il quotidiano comunista si converte al fondamentalismo islamico
e ne adotta il linguaggio e la retorica
Testata: Il Manifesto
Data: 25/01/2005
Pagina: 9
Autore: Michele Giorgio - un giornalista
Titolo: Tregua, manca il sì di Sharon - Iran. Israele preme per l'attacco
"Tregua, manca il «sì» di Sharon", è il titolo scelto dal MANIFESTO di martedì 25 gennaio 2005 per l'articolo di Michele Giorgio sul possibile accordo tra Abu Mazen e Hamas per un "cessate il fuoco" verso Israele. Sottotitolo: "Palestinesi pronti, ma Israele va a vanti col muro".
Poichè Israele si difende da un aggressione terroristica è chiaro a tutti (anche ad Hamas, che anche in passato, per brevi periodi, ha limitato gli attacchi , sfruttando però il periodo di calma per riorganizzarsi e tornare a colpire e continuando sempre a considerare suoi obiettivi soldati e coloni) che, nel momento in cui l'aggressione cessasse, cesserebbero anche la risposte israeliane.
La necessità di un impegno formale di Israele è dunque un'invenzione del quotidiano comunista. Anche perchè di fatto Israele ha sospeso la risposta militare agli ultimi attacchi.
Per indicare azioni di Israele che nuocerebbero alla tregua si deve allora ricorrere al solito "muro", misura evidentemente difensiva .
A dispetto delle "smentite categoriche" dei palestinesi. Oppure questi smentiscono anche, portando le prove delle loro affermazioni, gli attentati suicidi? E la loro diminuzione dopo la costruzione di parte della barriera difensiva? Evidentemente sarebbe impossibile, com'è impossibile negare che la barriera serva alla difesa dal terrorismo.
La sentenza dell'Aia citata da Giorgio, del resto, lo riconosceva implicitamente e, tra le pieghe del suo linguaggio giuridico, negava a Israele il diritto alla legittima difesa, indipendentemente da ogni acquisizione territoriale.
La chiusura dell'articolo adotta un linguaggio sorprendente e inquietante: "le festività islamiche dell'Adha (sacrificio)" scrive Giorgio, "sono state bagnate dal sangue di tre ragazzini palestinesi - Salah Abu Iqab, 13 anni, Salah Abu Laish, 13, e Mohammed Abu Roub, 15 - uccisi durante scontri dai soldati israeliani rispettivamente a Jenin, Rafah (Gaza) e Sir (Jenin)".
Non ci stupiamo del fatto che Giorgio riferisca la notizia di tre morti in uno scontro incominciando la frase come se si fosse trattato di un omicidio a sangue freddo. E' la regola, non solo al MANIFESTO.
Ci stupisce invece l'uso di una retorica derivata dalla mistica sacrificale islamista: il sangue dei ragazzini morti ha "bagnato" la festa del sacrificio.
Inevitabile scorgere in queste parole la suggestione potente del sangue delle vittime sacrificali che irrora la terra, rendendola feconda, e l'adesione al simbolismo del martirio propagandato da Hamas, Jihad e Brigate di al Aqsa.
Un esito forse indesiderato, ma inevitabile, del sostegno acritico fornito dal quotidiano comunista ai dirigenti palestinesi durante la deriva terrorista e jihadista della "seconda intifada".
Ecco l'articolo:

Abu Mazen e le principali organizzazioni palestinesi sono giunte vicine ad un'intesa sul cessate il fuoco. Le indiscrezioni circolate domenica sono state confermate ieri proprio dal movimento islamico Hamas, la fazione che più di ogni altra ha chiesto garanzie precise al presidente palestinese sul rispetto anche da parte di Israele della tregua. «Abbiamo raggiunto un principio di accordo sulle questioni importanti e le divergenze diminuiscono» ha dichiarato il portavoce di Hamas, Mushir Al Masri. «È evidente che non possiamo parlare di cessate il fuoco senza che Israele paghi un prezzo», ha proseguito aggiungendo che le discussioni con il presidente palestinese hanno riguardato anche la partecipazione di Hamas al processo politico e il suo eventuale ingresso nell'Olp. «Abbiamo parlato di diverse questioni, compresa la situazione interna, la corruzione e la nostra futura partecipazione politica». Poco dopo Ziad Abu Amr, un esperto di movimenti islamici incaricato da Abu Mazen di condurre le trattative, ha confermato che il compromesso è a portata di mano ma è legato all'atteggiamento che adotterà il governo Sharon. Abu Mazen chiede allo Stato ebraico di mettere fine alle sue devastanti operazioni militari, compresi gli arresti e gli omicidi mirati dei leader dell'Intifada, un punto, quest'ultimo, sul quale insiste da giorni Hamas. Dallo Stato ebraico tuttavia non è giunta alcuna promessa ma soltanto qualche assicurazione informale. Asaf Shariv, un consigliere di Sharon, ha spiegato che Israele non intende fare annunci ufficiali. «Ci sarà una tregua de facto. Se ci sarà la calma, risponderemo con la calma», ha detto in riferimento al lancio di razzi Qassam da parte dei palestinesi sulla cittadina di Sderot e le colonie ebraiche di Gaza. Gli elicotteri Apache israeliani non apriranno il fuoco se il leader di Hamas, Mahmud Zahar, tornerà a farsi vedere in pubblico? Questo e altri interrogativi scuotono le fondamenta della strategia di Abu Mazen di riportare la calma nei Territori occupati.
Se più delle parole contano i fatti allora non si può fare a meno di notare che il governo israeliano - che ora include anche i laburisti del premio Nobel per la pace Shimon Peres - non sta favorendo un calo la tensione. Al contrario due sue recenti decisioni rischiano di far riesplodere Gerusalemme est e la Cisgiordania. Il provvedimento di confisca delle proprietà dei palestinesi non più residenti nella Città santa ha già scatenato forti proteste, anche da parte dei pacifisti israeliani, come il leader di Yahad (sinistra sionista) Yossi Beilin, che si rendono conto dell'impatto che avrà nelle relazioni tra ebrei e arabi a Gerusalemme. Ma anche sui palestinesi cristiani, residenti a Betlemme e Beit Jala, tra i più penalizzati dalla decisione. È ripartita inoltre la corsa del «muro di separazione» che Israele sta costruendo all'interno della Cisgiordania allo scopo, afferma il governo Sharon, di bloccare i kamikaze. I palestinesi smentiscono categoricamente e sostengono che il progetto in realtà ha finalità politiche, ovvero l'annessione a Israele di ampie porzioni di Cisgiordania.
Ieri sono ripresi i lavori di costruzione di uno dei tratti più contestati del muro, vicino all'insediamento ebraico di Ariel (ad ovest di Nablus). I bulldozer si erano fermati lo scorso giugno dopo che gli abitanti della cittadina di Salfit avevano fatto ricorso a un tribunale israeliano contro le confische di terreni di loro proprietà per permettere la costruzione della barriera. I lavori si svolgono ora su un tracciato diverso da quello inizialmente stabilito ma il sindaco di Salfit ha negato di essere giunto a un accordo con le autorità di occupazione. Lo scorso luglio la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja aveva stabilito che il muro è illegale perché costruito su terre palestinesi occupate militarmente.
Intanto anche le festività islamiche dell'Adha (sacrificio) sono state bagnate dal sangue di tre ragazzini palestinesi - Salah Abu Iqab, 13 anni, Salah Abu Laish, 13, e Mohammed Abu Roub, 15 - uccisi durante scontri dai soldati israeliani rispettivamente a Jenin, Rafah (Gaza) e Sir (Jenin). Nei giorni scorsi, ma la notizia si è saputa solo ieri, otto presunti dirigenti di Hamas sono stati arrestati dall'esercito israeliano a Nablus.
IL MANIFESTO pubblica anche un trafiletto intitolato: "Iran, Israele preme per l'attacco".
In realtà Israele si è limitato a segnalare il pericolo che il regime degli ayatollah si doti di un ordigno nucleare e a dicirare che intende lasciare il problema alla comunità internazionale, la quale se ne occupa da tempo senza alcuna sollecitazione da parte di Gerusalemme.
Contrariamente a quanto sostenuto dal MANIFESTO dunque, il discorso del capo del Mossad smentisce l'ipotesi di un intervento diretto di Israele nella crisi (come in Iraq nell'81).
D'altro canto non vi sono neppure pressioni di Israele per un attacco all'Iran, dato che il pericolo rappresentato dal regime di Teheran è ben presente agli Stati Uniti e in parte persino all'Europa.
Ecco l'articolo:

Il capo del Mossad, il servizio segreto israeliano, Meir Daga, parlando alla Knesset, il parlamento, ha detto che il programma nucleare iraniano è a un «punto di non ritorno» e che l'Iran potrebbe costruire la bomba «in meno di tre anni». L'Iran sostiene che il suo programma nucleare è solo per un uso pacifico. Giovedi scorso, subito prima dell'insediamento, il vicepresidente Cheney aveva minacciosamente ricordato che l'Iran è «al primo posto dell'agenda» della nuova amministrazione Bush. Il quale a sua volta non esclude l'uso «dell'opzione militare». Magari attraverso Israele, come fu per la distruzione del reattore nucleare iracheno di Tammuz nell'81.
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