Igor Man sulla Shoah, tira in ballo a sproposito il popolo palestinese che non ha ancora uno stato
ricordare con la disinformazione: la specialità del "vecchio cronista"
Testata: La Stampa
Data: 25/01/2005
Pagina: 11
Autore: Igor Man
Titolo: La difficoltà di dire l'impossibile
LA STAMPA di martedì 25 gennaio pubblica a pagina 11 un articolo di Igor Man sulla Shoah e la giornata della memoria.
Man sostiene, all'inizio del suo articolo, che "lo sterminio degli ebrei, e degli zingari, dei comunisti polacchi, degli omosessuali nella «fabbrica dei cadaveri» sarà conosciuto molto più tardi di quel 27 di gennaio del ‘45, un sabato sera " in cui vennero liberati i prigionieri di Auschwitz.
Si tratta di una confusione tra il conoscere e l'ammettere: può essere vero che la memoria della Shoah sia stata per lungo tempo negata, che si sia tentato di occultarla. Non è vero, però, che nel dopoguerra non si disponesse delle informazioni necessarie per comprendere la portata dello sterminio nazista. Ignorarle era una scelta.
Sostenere che solo nel 1993 è stata scritta "la testimonianza «decisiva»: il libro di Jean-Claude Pressac su Auschwitz, «macchina dello sterminio»" significa decisamente attribuire troppa importanza alle elucrubazioni dei negazionisti. Il libro di Pressac non è, intanto, una "testimonianza", ma un testo storico. Nel quale, per la prima volta è provata con l'esibizione di documenti scritti (i contratti commerciali per la fornitura di camere a gas e forni crematori all'amministrazione dei campi) l'esistenza di un sistema industriale di sterminio.
In questo modo Pressac liquidava le critiche metodologiche dei negazionisti alla storiografia sulla Shoah, incentrate appunto sull'assenza di documenti scritti.
Va detto però che quelle critiche erano viziate all'origine: intere comunità ebraiche sono scomparse durante la seconda guerra mondiale, ed esistono le testimonianze dei sopravvissuti su come questo è avvenuto. Testimonianze che soltanto l'antisemitismo può squalificare preventivamente, come parte di un complotto ebraico per ingannare il mondo.
Man sostiene poi che i rabbini che hanno benedetto e ringraziato il Papa il 18 gennaio gli avrebbero riconosciuto la "libertà religiosa" di beatificare Pacelli.
In realtà, in quell'occasione, della beatificazione di Pacelli non si è proprio parlato (vedi: "Dialogo ebraico-cristiano: rabbini di tutto il mondo ringraziano Giovanni Paolo II", IC 19-01-05). Le polemiche sull'eventualità di questo passo da parte della Santa Sede, comunque, non toccano la "libertà religiosa", perché nessuno, ovviamente, intende proibire per legge e impedire con la forza la canonizzazione e il culto di Pacelli. Criticare questa (eventuale) scelta della Chiesa non lede la libertà di nessuno.
L'udienza ai rabbini ci avrebbe anche ricordato che "i palestinesi sono ancora senza uno Stato". Anche di questo argomento non risulta dalle cronache si sia parlato in quell'occasione, ma si capisce che il riferimento non poteva mancare in un articolo di Man, uso a scorgere nella "questione palestinese" l'origine di tutti i mali del mondo.
Il fatto che i palestinesi non abbiano ancora uno stato, però, dipende dal terrorismo, dal rifiuto dell'esistenza di Israele, dalla propensione di tutte le classi dirigenti palestinesi ad allearsi con totalitarismi fortunatamente sempre risultati sconfitti dalla storia. Questioni complesse non certo affrontabili in poche parole, scorrettamente poste a chiusura di un articolo che trattava di tutt'altro argomento.
Ecco l'articolo:

IL 27 di gennaio del 1945, un distaccamento della 60ª divisione sovietica arriva, così, per caso, ad Auschwitz: un carro armato fa saltare il cancello principale e i soldatini russi incappano in «una legione di fantasmi»: esattamente settemila «internati» ridotti a larve umane, la pelle tesa sulle ossa, gli occhi sgranati sull’orrore di se stessi, cadaveri viventi. Poiché venivano dal paese dei gulag, i sovietici (scrive Eric Conan autore d’un esaustivo dossier sull’Olocausto, cfr. l’Express, 17-23 gennaio) non si meravigliarono di quei disgraziati avvolti in lugubri stracci; la loro attenzione cadde sulle costruzioni «inedite nella Storia dell’umanità»: le camere a gas. Accanto, i forni crematori: «Un meccanismo concepito per l’assassinio di massa».
Ma lo sterminio degli ebrei, e degli zingari, dei comunisti polacchi, degli omosessuali nella «fabbrica dei cadaveri» sarà conosciuto molto più tardi di quel 27 di gennaio del ‘45, un sabato sera. La realtà della Shoah comincia infatti a rivelarsi negli anni 1960-1970. Perché tanto ritardo? Perché quel che accadde nell’immenso compound dello sterminio (Auschwitz, Birkenau, Monowitz e ancora Treblinka, Chelmno, Majdanek, Sobibor, Belzec) «era indicibile», «impensabile» per gli stessi nazisti che prima di darsi alla fuga cercarono di cancellare l’Olocausto e infatti scarseggiano film, fotografie dei campi del massacro, nonché gli archivi eccetera.
Si aggiunga l’escalation dei negazionisti (non necessariamente tedeschi), la propaganda sovietica tesa al martirologio dei tovarisc gasati. Certo, da Primo Levi, dal Caleffi, dalla Spizzichino abbiamo avuto testimonianze incancellabili ma è anche vero che solo di recente, citiamo ancora Eric Conan, appena nel 1993, è stata scritta la testimonianza «decisiva»: il libro di Jean-Claude Pressac su Auschwitz, «macchina dello sterminio». Sessant’anni dopo, il negazionismo appare in ritirata, sicché la memoria ancorché triste può farsi religiosamente pulita. Certo, rigurgiti di antisemitismo si avvertono qua e là ma si tratta di spazzatura che assolutamente non tange «quei morti».
Durante la Resistenza, a Roma, portavo documenti falsi da Santa Maria dell’Anima a una pensioncina di via Panisperna dove sostavano ebrei (perloppiù tunisini) in attesa d’essere affidati ai coraggiosi comunisti di Sezze che li avrebbero portati nell’Italia liberata. Ricordo un anziano signore che ascoltando Radio Tevere che proclamava «l’obbligo di bruciare gli ebrei, uno per uno», sconsolato, chiedeva «perché?». Perfino sessant’anni dopo riesce difficile, se non impossibile, rispondere a quell’interrogativo. Sono giornate aspre queste che scorrono in Medio Oriente e la mente del Vecchio Cronista ricorda l’incontro, nel 1959, con Berta Grinstein, la cara «Tata Berta» approdata a Catania dopo la fuga da Odessa al tempo della Nep. Non la vedevo dal 1939, quando lei con tutta la famiglia venne cacciata dall’Italia in forza delle leggi dettate ai fascisti da Hitler. Ci rivedemmo a Waterbury (Connecticut) e fu lei a procurarmi l’intervista a Tel Aviv, con Ben Gurion, suo mezzo parente. Alla lettera di presentazione Berta Grinstein accluse un bigliettino per me: «Gorik, se vuoi capirci, se vuoi capire Israele, devi, devi visitare Lahomei Haghetaot. Shalom, shalom».
E’ un kibbutz dove gli scampati alla strage di Varsavia (il 3 di agosto del 1944) in soli trenta metri hanno allestito un museo della memoria. Sui muri le macchie gialle delle stelle di pezza imposte da Hans Frank agli ebrei; gli stampati con la scritta Jood da affiggere sulle botteghe; una svastica; manifesti che dicono «ebreo=pidocchio» e un documento (allora) inedito, un foglio intestato «Questura di Roma - Oggetto: traduzione ebrei al concentramento di Carpi, in numero di 38. Pregasi rilasciare al funzionario latore relativa ricevuta. Firmato: il Questore Pietro Caruso - Roma addì 25 febbraio 1944, XXII».
Bisogna di visitare questo minuscolo museo della memoria soprattutto pei disegni. I disegni dei bambini ebrei condannati a morte perché ebrei. Capovolgendo la realtà (siamo al presagio) quegli innocenti disegnavano i grandi: il papà, lo zio, che armati di lunghi fucili, mettevano in fuga le SS. Inconsciamente quei bambini si ribellavano al cliché dell’ebreo rassegnato, eterno perdente. Quei disegni (profetici) anticipavano la mutazione degli sfiniti reduci dai campi di sterminio in soldati vincenti: quelli che han costruito il Nuovo Israele paese democratico, prima potenza militare del Medio Oriente. Ed ecco che ritorna alla più recente nostra memoria il viaggio in Israele di Giovanni Paolo II, cui l’altro giorno gli ebrei han voluto dire «grazie». Grazie perché il pellegrinaggio del polacco Wojtyla laggiù ha significato il riconoscimento definitivo della nazione che ha restituito il bene prezioso della patria, e dunque della dignità, agli ebrei, nostri «fratelli maggiori».
Sessant’anni dopo lo svelamento di Auschwitz, la grande udienza privata agli ebrei riconosce al Papa la «libertà religiosa» di beatificare Pio XII, ricordandoci altresì che i palestinesi sono ancora senza uno Stato.
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