Pio XII: l'intervento di Giovanni Belardelli
e la replica di Giorgio Israel
Testata: Corriere della Sera
Data: 13/01/2005
Pagina: 35
Autore: Giovanni Belardelli - Giorgio Israel
Titolo: Ma l'Italia scoprì l'Olocausto solo dopo gli anni del silenzio - Risposta a Giovanni Belardelli
Il CORRIERE DELLA SERA di mercoledì 12 gennaio 2005 pubblica a pagina 35 un articolo di Giovanni Belardelli "Ma l'Italia scoprì l'Olocausto solo dopo gli anni del silenzio", che riportiamo:
Nel 1960 il manuale di storia per le superiori scritto da Raffaello Morghen sceglieva di trattare dello sterminio degli ebrei in un modo che oggi neppure il peggior « negazionista » oserebbe fare: non ne parlava e basta. Alla stessa data un altro manuale allora molto diffuso, quello di Francesco Moroni, dedicava alla questione non più di quattro o cinque righe che definire riduttive è poco, poiché vi si ricordava l'eliminazione di « centinaia di migliaia » di ebrei e di appartenenti all'élite polacca.
Ecco, credo che poche cose come il contenuto dei manuali scolastici possano confermare con altrettanta immediatezza la verità di quel che ha osservato su questo giornale Ernesto Galli della Loggia, e cioè che nell'Italia e nell'Europa del dopoguerra l'Olocausto semplicemente non esisteva. Non che non si conoscessero ormai la contabilità terribile e i caratteri diabolici del genocidio perpetrato da Hitler, ma una tale opera di sterminio veniva fatta generalmente rientrare nel complesso degli orrori e delle morti, a diecine di milioni del resto, verificatisi durante il conflitto. I manuali appena citati avevano un orientamento che potremmo definire genericamente come di destra; ma anche il testo di un autore certamente di sinistra, Armando Saitta, si sbarazzava della questione in poche striminzite righe, senza fare alcun preciso riferimento alle dimensioni quantitative assunte dallo sterminio degli ebrei. E questo, si noti, nel momento in cui pure dedicava una trattazione accurata, Paese per Paese, alla Resistenza europea. Ma appunto, tra fine anni Cinquanta e inizio Sessanta, per gli autori di manuali scolastici — di destra o di sinistra che fossero — l'Olocausto, inteso come uno degli eventi centrali del secolo qual è per noi oggi, non esisteva. Anzi, ancora al principio degli anni Settanta poteva accadere che il manifesto di una sezione romana del Partito comunista commemorasse il rastrellamento degli ebrei della capitale compiuto dai tedeschi il 16 ottobre 1943, cioè l'episodio certamente più grave nel « capitolo italiano » della Shoah, limitandosi a parlare di « cittadini romani » deportati e dunque senza usare la parola ebrei.
Nei giorni scorsi qualche commentatore ha manifestato sconcerto per l'invito di Galli della Loggia a non giudicare il passato con i criteri del presente: ma, senza il rispetto di questa elementare regola dell'indagine storica, l'Italia repubblicana ci apparirebbe popolata ( e sarebbe evidentemente una grave distorsione) dai peggiori negazionisti, invece che da persone che seguivano — spesso troppo pigramente, certo — orientamenti largamente diffusi.
Davvero significativo, poi, fu quel che a lungo i suddetti manuali di storia scrissero ( o, più spesso, non scrissero) sulle leggi razziali di Mussolini, cioè su un evento che oggi ( appunto: oggi) è diventato assolutamente centrale nel rapporto che l'Italia ha con il suo passato, fino al punto di rendere impossibile pensare a quel passato prescindendo da esse. A dimostrazione di come nei primi anni e decenni del dopoguerra anche le leggi razziali « non esistessero » , di come non facessero parte cioè della nostra rappresentazione del passato, cito per tutti il manuale di Rosario Villari, comparso nel 1969 e destinato a un ampio e duraturo successo. Ebbene, anche Villari si limitava a richiamare « il lancio in grande scala della campagna anti- ebraica [ da parte della Germania nazista] ( cui si associò Mussolini emanando un decreto razzista, 14 luglio 1938) » . Tutto qui: l'introduzione di leggi antisemite da parte del regime era evocata in modo puramente incidentale, per giunta con una imprecisione ( il 14 luglio fu in realtà la data di pubblicazione del « Manifesto » degli scienziati razzisti) che denotava l'interesse marginale che all'epoca poteva riservare alla questione anche uno storico di sinistra e di sicure convinzioni antifasciste come appunto Villari.
Ma ancor più sorprendente è che gli ebrei italiani non protestassero per il fatto che nel loro Paese circolavano libri scolastici in cui si sottovalutava, come abbiamo appena visto, la portata dello sterminio antisemita. Anzi, erano per primi gli ebrei a evitare che si parlasse « troppo » dello sterminio e che si ricordassero « troppo » quelle leggi del 1938 che li avevano espulsi dalla comunità nazionale. La spinta a dimenticare aveva varie motivazioni, ma dipendeva anzitutto dal desiderio di essere riammessi a pieno titolo nella vita dell'Italia democratica, laddove ricordare la persecuzione subita avrebbe significato sottolineare una propria diversità.
Del resto, a confermare quanto la nostra conoscenza del passato sia essa stessa storicamente determinata dalle idee e dai contesti politici del momento sta il fatto che in Israele il genocidio degli ebrei assunse il carattere di evento fondatore del nuovo Stato soltanto alcuni anni dopo la sua nascita, soprattutto dopo il processo Eichmann celebrato a Gerusalemme nel 1961.
Insomma, questi e i molti altri esempi che si potrebbero addurre mostrano come non sia esatto ciò che ha scritto Mario Pirani ( su Repubblica dell'altroieri), sostenendo che no, non sarebbe vero che nei primi anni del dopoguerra l'Olocausto, inteso come una rappresentazione- interpretazione dell'evento analoga a quella odierna, non esisteva ancora. Già nel 1945, secondo Pirani, quando si liberarono gli ultimi sopravvissuti dei campi di sterminio l' « orrore percorse il mondo civile » . Ma in realtà si trattava di reazioni diverse da quelle odierne, poiché quel sentimento di orrore non attribuiva al genocidio antiebraico la peculiare e duratura epocalità che noi oggi gli riconosciamo facendo così, di quei sei milioni di ebrei morti, appunto l'Olocausto. Si trattò anche per questo di un sentimento di orrore che poté presto lasciare il campo alla disattenzione o all'indifferenza.
Assai diversa l'obiezione mossa invece da Claudio Magris ( sul Corriere della Sera del 10 gennaio) non alla necessità in sé di « calarsi nell'epoca in cui sono avvenuti i fatti » , che appunto egli condivide in pieno, ma alla possibilità che una tale regola, valida in generale, possa applicarsi anche alla Chiesa. Per la Chiesa — scrive infatti — « la verità non è storicamente condizionata e relativa, ma immutabile » . Proprio la sua pretesa di non essere figlia del tempo richiederebbe insomma che dai mali e dai crimini del tempo in cui opera essa si mantenesse immune, pena « il nostro diritto di chiamarla in giudizio » . Ma mi permetto di dubitare circa la fondatezza della premessa di Magris riguardo a ciò che la Chiesa afferma di essere.
Cinque anni fa, nel corso del Giubileo, la richiesta papale di perdono si basava proprio sulla convinzione che anche la Chiesa, che trascende la storia ma insieme vive nella storia, avesse e non potesse non avere delle colpe. Se Cristo non conobbe il peccato, si argomentava nel documento vaticano Memoria e riconciliazione del marzo 2000, è vero invece che « tutt i i membri della Chiesa, compresi i suoi ministri, devono riconoscersi peccatori » . E il primo atto, o la premessa, del percorso di perdono e riconciliazione lì delineato consisteva, non a caso, nel « corretto giudizio storico » , elaborato secondo regole e metodi analoghi a quelli in uso presso gli storici di professione.
Regole e metodi tra i quali dovrebbe anche esserci, mi pare, l'attenzione a distinguere tra i fenomeni storici, riconoscendo la specificità di ciascuno di essi. Eppure, piuttosto sorprendentemente, Giorgio Israel ( sul Corriere di ieri), ha sollecitato invece a non separare l'antisemitismo nazionalsocialista dalle altre forme di ostilità e discriminazione antiebraica che coinvolsero vari settori della civiltà europea, in particolare in relazione al mondo cattolico e al suo antigiudaismo di matrice religiosa. Israel afferma che, certo, non si può considerare Pio XII alla stessa stregua di Eichmann. Ma in realtà, se accettassimo davvero — come egli ci invita a fare — di non scomporre in « pezzi disgiunti » l'antisemitismo, considerandolo dunque come un « fenomeno storico unitario » , la conseguenza sarebbe proprio che Eichmann e Pio XII finirebbero col trovarsi dalla stessa parte, dalla parte dei responsabili — sia pure con ruoli diversi — dell'Olocausto. Il che appare evidentemente assurdo. A non convincere, in un discorso del genere, è la stessa premessa che postula, al di là di ogni differenza, una identità sostanziale tra tutte le forme di antigiudaismo e antisemitismo. Ma quando si sia sottolineata la persistenza nella Chiesa di Pio XII ( e, per la verità, più in certe Chiese nazionali che in Vaticano) di pregiudizi antiebraici, resta il fatto che le forme di discriminazione che a volte a quei pregiudizi si accompagnavano rappresentano comunque un dato radicalmente diverso rispetto alla politica di sterminio progettata e attuata dal regime nazista.
Ecco la lettera che Giorgio Israel ha inviato al CORRIERE, che però non l'ha pubblicata. Lo facciamo noi.
La replica di Giovanni Belardelli a quanto ho scritto sul Corriere è fuori bersaglio. Avevo scritto – in compagnia di una vasta storiografia – che le tematiche dell’ostilità antiebraica hanno un carattere unitario per cui si può parlare di un fenomeno storico di antisemitismo, il quale si articola in manifestazioni di diversissima gravità. Anche in ambito cristiano la tematica antiebraica, quasi invariante nei secoli, ha prodotto una gamma di manifestazioni che vanno dalla semplice intolleranza a persecuzioni violente che, come quelle della Spagna medioevale, sono per molti versi paragonabili alla Shoah. Belardelli dice che, in tal modo, metterei Pio XII dalla parte di Eichmann. Ma così, per confutarmi, egli da per assioma che l’antisemitismo si identifichi con la Shoah, che è proprio quel che avevo contestato. Se Belardelli vuol uscire dal suo errore di circolarità logica deve prima considerare il suo assioma come una tesi tutta da dimostrare.
Quanto al fatto che l’Italia del dopoguerra ignorava la Shoah – pur sapendone –, d’accordo in toto. Ma questo cosa dimostra? Anziché restare alla fenomenologia, chiediamoci cosa aveva determinato quell’atteggiamento: una lunga tradizione di disprezzo, odio o indifferenza, il cui massimo responsabile è stato l’antisemitismo cristiano, come prova la rilettura di decenni de "La Civiltà Cattolica". Raffaello Morghen antisemita? Figuriamoci… Era un grande amico di mio padre e ricordo di essere stato a casa sua da piccolo. Ma era totalmente sordo al problema ebraico, era nella logica del "corpo condannato", e questo era causa di amichevole dissenso totale. Difatti, anche con l’indifferenza, il silenzio e le distorsioni storiche si può comportarsi – magari senza volerlo – da negazionisti. Una lezione ancora validissima. La storia non è un tribunale e si può spiegare razionalmente la notte di S. Bartolomeo, la strage del Ruanda e il Gulag. Ma se poi la spiegazione in base al "contesto" serve a dire che non era successo niente di così grave, allora si sta usando la storia per dare giudizi etici, ovvero quel che si rimprovera ad altri di voler fare.

Giorgio Israel
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