La visita di Gianfranco Fini in Egitto, un reportage sulla Chiesa cattolica in Israele
cresce la consapevolezza della necessità di fermare il terrorismo per arrivare alla pace
Testata:
Data: 12/01/2005
Pagina: 11
Autore: Emanuele Novazio - Aldo Cazzullo
Titolo: Italia e Egitto: che cosa fare per la pace - Voci dalla Terrassanta:
Riportiamo da pagina 9 della STAMPA di mercoledì 12 gennaio 2005 un articolo di Emanuele Novazio "Italia e Egitto: che cosa fare per la pace"
«Il grande compito di Abu Mazen è togliere l'acqua al pesce. Isolare i gruppi più irriducibili». Ribatte il suo collega egiziano Aboul Gheit: «Non possiamo isolare, ma parlare a tutti e cercare di creare una posizione comune». Più che un aperto dissenso con la diplomazia del Cairo sull'atteggiamento da tenere nei confronti dei gruppi terroristici che operano contro Israele, la messa a punto italiana mostra attenzione alle nuove dinamiche innescate dalla morte di Arafat e dall'elezione di Abu Mazen alla testa dell'Autorità palestinese. Come già il mese scorso in Israele, anche al Cairo - prima tappa di un tour mediorientale che lo porterà ad Amman, Damasco e Beirut - Fini ha sottolineato la necessità di prosciugare lo stagno del terrorismo favorendo quanti sono disposti al dialogo, e sfruttando le contraddizioni che stanno emergendo all'interno di questi stessi gruppi (Hamas non era univoco nell'invitare all'astensione e la sua parte più «politica» non ha nascosto il favore per Abu Mazen; le Brigate dei Martiri di al-Aqsa sono altrettanto divise, e sul comportamento degli Hezbollah l'Unione europea e l'Italia stanno facendo forti pressioni sul loro sponsor, il presidente siriano Assad, che Fini incontrerà domani contando «sui legami particolari fra i due Paesi»).
Proprio riferendosi a Hamas e al suo tentativo di gonfiare l'astensionismo alle elezioni, il vicepremier e ministro degli Esteri sottolinea che l'esito del voto conferma «la possibilità di battere politicamente i gruppi radicali». Dialogo dunque («fa bene l'Egitto a favorirlo»), ma senza rinunciare al limite invalicabile dell'«irriducibilità». La violenza, è il senso dell'appello italiano all'Egitto, deve essere fermata per non compromettere la stessa esistenza politica di Abu Mazen e per mostrare al popolo palestinese - intervenendo anche con rapide azioni di sostegno economico - che le condizioni di vita migliorano senza più Intifada e attentati. La strada è lunga, riconosce Fini, ma per la prima volta negli ultimi dieci anni si presenta «una finestra di opportunità tanto promettente». La comunità internazionale - e l'Egitto «crocevia obbligato per ragiungere la pace» - «hanno il dovere di aiutare a realizzarla».
Anche l'Italia, secondo il capo della nostra diplomazia, può agire con successo per la ripresa del processo di pace. Per gli stretti legami con Israele e per la rinnovata attenzione nei confronti di un mondo arabo e palestinese che si è liberato del principale elemento di turbativa, può «esercitare un ruolo di raccordo fra le parti». Di certo, Roma non ritiene maturi i tempi per una conferenza internazionale di pace sul Medio Oriente, e la riunione che si svolgerà il mese prossimo a Londra sarà semplicemente il segno dell'attenzione per la nuova leadership palestinese: «Il nostro approccio è pragmatico. Va verificato ogni giorno se quanto si decide prende corpo». Inutile e dannoso dunque parlare ora dell'«ultima tappa», lo status di Gerusalemme e il diritto al ritorno dei profughi.
Nei suoi incontri con i massimi vertici egiziani (oltre ad Aboul Gheit, il presidente Mubarak, il premier Ahmed Nazif e il potente capo della Mukhabarat, i servisi segreti, generale Omar Suleiman), Fini ha ricevuto anche precise indicazioni sull'atteggiamento del Cairo nei confronti del ritiro israeliano da Gaza, che i palazzi del potere egiziano ritengono possa concludersi entro il prossimo settembre. Sono tre le richieste a Gerusalemme in cambio di un ruolo attivo (confermato all'impegno ad addestrare le forze di sicurezza palestinesi): 1) Il ritiro deve comprendere anche la fascia di frontiera con l'Egitto, una decisione che al Cairo considerano politicamente importante anche per il suo valore simbolico. 2) L'apertura di Gaza, per garantire contatti agevoli con l'Egitto e la Cisgiordania, con la realizzazione fra l'altro di un collegamento ferroviario. Un'altra condizione che al Cairo si ritiene realizzabile se dopo un anno dal ritiro la situazione resterà sotto controllo. 3) La liberazione di altri prigionieri palestinesi: quelli usciti dalle carceri israeliane finora, si sostiene, erano per lo più in scadenza di pena e fra loro non c'era nessun nome con una valenza simbolica. Tutto questo, si sottolinea, dimostrerebbe ai palestinesi che l'Egitto è un partner credibile e rafforzerebbe la posizione di Abu Mazen. Due elementi indispensabili, par di capire, per «togliere l'acqua al pesce».
Da pagina 11 del CORRIERE DELLA SERA riportiamo un articolo di Aldo Cazzullo, "Voci dalla Terrassanta: "Sharon parla come Rabin".
Interessanti in particolare le dichiarazioni di Pierbattista Pizzaballa sul terrorismo.
Ecco il testo:

GERUSALEMME — Dice dalla residenza sul monte degli Ulivi il nunzio Pietro Sambi che quanto accade gli pare incredibile: « Sharon parla come Rabin. E cristiani ed ebrei non sono mai stati così vicini come ora » . Dice nel convento presso il Santo Sepolcro il nuovo custode di Terrasanta Pierbattista Pizzaballa: « Io tra gli ebrei mi sono formato, devo a loro quel che sono e penso che non solo i palestinesi ma pure gli israeliani siano pronti a un'altra stagione » .
Un'eco di cose nuove, i segni di una speranza oltrepassano anche le mura dell'Istituto biblico pontificio, all'ombra della porta di Jaffa, dove Carlo Maria Martini è curvo sulla copia del codice vaticano greco 1209, il più antico manoscritto greco della Bibbia, di cui sta scrivendo un'introduzione critica.
Racconta l'arcivescovo emerito di Milano di essere affascinato da san Gerolamo, che aveva abbandonato il mondo per dedicarsi alla traduzione della Bibbia e « talora si addormentava con il capo sulle Sacre scritture » . Martini non dà interviste politiche, si limita « alla preghiera e all'intercessione, che significa mettersi in mezzo ai contendenti, senza propendere né per l'uno né per l'altro, perché a tutti sia dato di capire anche le ragioni dell'altro » . Ma avverte con chiarezza che q u a l c o s a è cambiato. « Vedo piccole linee di pace. Segnali di riconciliazione. Prove che il dialogo è ancora possibile » . Il cardinale non crede all'ineluttabilità della separazione tra i due popoli. « Gli accordi di Ginevra hanno dimostrato che le parti possono confrontarsi » . E le elezioni palestinesi sono un segnale incoraggiante: « La percentuale di votanti è stata alta, e ha premiato un moderato, l'unico che gli israeliani considerino un interlocutore. Resta da vedere se avrà una forte leadership » .
Martini non crede a interventi dall'esterno, a mediazioni, a formule elaborate altrove. « Sono loro, le parti in causa, che devono trovare la via d'uscita. Loro è il compito, loro è la grazia.
Qualcosa però è già accaduto: si è capito che la violenza è un vicolo cieco, come ha detto il Papa, che produce solo altra violenza. Le genti di Terrasanta sono stanche. Vedo nella vita di ogni giorno storie di riconciliazione, di rispetto reciproco, di ascolto, che non arrivano alla superficie della politica ma considero preziose. Spero che i pellegrini non abbiano più paura, che tornino numerosi, a respirare questo clima » . Il cardinale cita il « Parent's Circle » , associazione di famiglie ebree e arabe accomunate dall'aver perso un figlio in questi anni di terrorismo e guerra. « Si incontrano, si parlano, mettono in comune il dolore. E sono ascoltate, perché il lutto dà loro una grande credibilità » . E' tempo d'incontro anche per due comunità divise ancora negli anni scorsi da pregiudizi e incomprensioni, cristiani ed ebrei.
« Noi dobbiamo essere equivicini ai popoli di questa terra » dice Martini, che dopo una vita passata a leggere l'ebraico antico sta imparando l'ebraico moderno.
C'è da parte dei cristiani maggiore apertura e comprensione verso le ragioni di Israele e il pluralismo del mondo ebraico, nota il cardinale; un'attenzione ricambiata. « Per secoli gli ebrei hanno considerato Gesù nulla più di un falso messia. Oggi molti sono interessati alla sua figura.
Qui in Israele c'è una vivace comunità di ebrei messianici, convinti che Cristo sia il messia. E ci sono comunità di cristiani di lingua ebraica » , piccole ma rafforzate dall'arrivo di immigrati dall'Est europeo che vanno riscoprendo le loro radici e che Martini descrive mentre entrano incerti in chiesa il sabato a chiedere dei santi e della Vergine.
Proprio tra i cristiani di lingua ebraica si è formato padre Pizzaballa ( che è davvero parente del portiere dell'Atalanta). L'hanno eletto i 400 confratelli francescani che vegliano sui luoghi santi; ma il Vaticano ha avuto l'ultima parola e l'ha spesa per un uomo che dovrà rendere meno aspro il rapporto con Israele, da sempre freddo con il patriarca Sabbah, filopalestinese. « Dobbiamo guardare agli israeliani con la mente libera da preconcetti e paure, con libertà. E' un bene ad esempio che si sia consolidata qui una forte comunità di neocatecumenali, attenta al rapporto con la cultura giudaica. E' il nostro modo di contribuire alla nuova stagione che si apre.
Conosco Abu Mazen, abbiano cenato e preso la messa insieme la notte di Natale: ha meno carisma di Arafat, ma è più affidabile » . Il custode di Terrasanta dice di essersi « stancato della retorica delle pace. Pace è una parola bruciata. Ho visto un'amara vignetta su un giornale israeliano: che noia questa pace! La pace non si fa in pochi giorni; va costruita. Fermando il terrorismo e le armi.
Insegnando la tolleranza nelle scuole. Cogliendo le opportunità: è evidente che al momento ebrei e arabi non possono vivere insieme, ma possono vivere uniti, trovando forme di collaborazione perché tutti abbiano l'acqua e possano pregare nei propri santuari » .
Pregare e vivere non è facile per i cristiani. La roccaforte della comunità, Betlemme, è impoverita dal crollo del turismo. Il nunzio, monsignor Sambi, calcola che dall'inizio della seconda Intifada in tremila siano partiti per l'America o l'Europa. I cristiani erano il 20% della popolazione della Palestina dopo la seconda guerra mondiale, ora sono dieci volte meno. Sambi era qui come segretario durante la guerra del Kippur, 7 anni fa è tornato come ambasciatore del Papa.
« Sono cauto, ma vedo ragioni di ottimismo. Sharon è un uomo trasformato e finalmente ha di fronte un realista come Abu Mazen. I due hanno difficoltà parallele: i coloni che non intendono andarsene e invitano i soldati alla disobbedienza, i terroristi che non vogliono disarmare » .
La storica opportunità può essere colta, conclude Martini prima di tornare al manoscritto, « a patto si capisca che la pace ha un prezzo, implica una rinuncia. Io posso solo pregare, per Gerusalemme e per noi; perché Gerusalemme e il suo crogiolo di fedi e di popoli è il nostro futuro; è il pettine dove i nodi della storia si incastrano e si sciolgono » .
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