Si ammette finalmente che la democrazia è necessaria alla pace, ma non l'errore del sostegno alla tirannia del terrorista Arafat
un editoriale scorretto di Luigi Bonanate
Testata:
Data: 10/01/2005
Pagina: 1
Autore: Luigi Bonanate
Titolo: Editoriale
Luigi Bonanate interviene lunedì 10 gennaio 2005 sull’Unità a proposito delle elezioni palestinesi e sulle prospettive che queste aprono sullo scacchiere medio orientale. L’editoriale, sin dalle prime righe, denota una chiara tendenza filopalestinese e una mancanza di approfondimento inusuale per questo genere di articoli, fatti omessi e argomentazioni poco solide .
Le elezioni in Palestina hanno forse, prima ancora che le urne abbiano svelato il loro contenuto, innescato un circuito virtuoso che in fondo era stato predisposto da Arafat morendo, dopo che era politicamente scomparso già prima.


Il mito di Arafat pare essere duro a morire e qui ne troviamo una palese dimostrazione. Ignorare il fatto che nel corso degli ultimi quattro anni di Intifada Arafat si fosse categoricamente rifiutato di concedere alcun tipo di riforma, è un errore che non può che essere voluto. Forse Bonanate dimentica di quando, dopo essere stato nominato primo ministro allo stesso Abu Mazen fu impedito di riunificare le forze di sicurezza palestinesi da un Arafat che temeva di perdere parte del suo potere dittatoriale; forse non ricorda che l’unificazione della sicurezza palestinese era uno dei primi passi della Road Map e che in seguito a questo episodio Abu Mazen si dimise per oggettiva impotenza di fronte alla volontà tirannica e oltranziasta dell’osannato Arafat.


Il vincitore delle elezioni (se, come sembra, vincerà Abu Mazen) non avrà vita facile: conosciamo tutti le difficoltà che lo aspettano; ma tre questioni mi paiono dominare tutte le altre. La prima riguarda la lotta politica interna: il Presidente dell’Autorità nazionale palestinese dovrà trovare un solido accordo con chi sarà (sempre probabilmente) il prossimo Primo ministro, Abu Ala. Ciò significa che dovranno collaborare in vista delle successive elezioni amministrative nonché di quelle municipali: in altri termini, dovranno far nascere, insieme a tutti gli altri, un sistema politico vero e proprio, capace di discutere e di votare senza che nessuno debba mettere il mitra o una bomba sul tavolo. Questa è una prima grande sfida democratica. La seconda difficoltà è legata al silenzio del terrorismo: abbiamo temuto, nelle settimane scorse (e ora lo si può dire), che anche i gruppi estremistici «votassero». In pochi secondi avrebbero potuto vanificare anni di sforzi: che non l’abbiano fatto non significa che siano impotenti (il terrorismo è irrefrenabile, se non dalla politica, appunto), ma che hanno scelto di partecipare a un gioco che lascia aperte varie possibilità di contro a una scelta suicida che non lasciava spazio se non al nulla e a una nuova sconfitta per il popolo palestinese.
L’opzione terroristica è stata sempre giocata da tutte le fazioni palestinesi, Al Fatah in primis, voler far credere che i vari Arafat, Abu Mazen, Abu Ala ecc. stessero da anni cercando di trovare una soluzione negoziale al conflitto,una smilitarizzazione, la democratizzazione dei territori palestinesi, è mistificare la storia, almeno quella che parte dal rifiuto di Camp David e dello scoppio della seconda intifada. Il terrorismo degli uomini bomba è stato arginato soprattutto dall’estenuante lavoro dell’esercito israeliano, che, grazie anche alla barriera difensiva, ha man mano reso quest’arma inefficace o almeno non più spendibile politicamente nell’attuale scenario , sia dall’Anp, via Brigate Al Aqsa, che da Hamas che, dal canto suo, sembra voler al momento restare alla finestra.
Dar vita a un sistema politico civile e pacifico; emarginare il terrorismo: queste sono le due principali e tradizionali richieste a cui Israele (e così tocchiamo la terza difficoltà) ha condizionato la sua disponibilità alle trattative per una soluzione definitiva della questione palestinese.
Basta ricordare che tale questione dura da 57 anni, e ha avvelenato costantemente la scena internazionale per capire quanto importante la sua soluzione sia per tutti noi, e quanto buona sarebbe la notizia della sua archiviazione. Questa è la sfida decisiva, anche perché coinvolge due parti e non più una soltanto: la pace, come la guerra, non si fa da soli, bisogna essere in due. Vorremmo poter essere sicuri che non soltanto la società israeliana (che oggi è tendenzialmente favorevole al compromesso con i palestinesi, anche con qualche sacrificio), ma anche il suo governo è deciso a intraprendere questa sorta di nuova «road map», non più decisa da Stati Uniti e Russia, Onu e Ue, ma dai diretti interessati: i soggetti e i destinatari della democrazia.
Bonanate si dimostra qui un abile rivoltatore di frittate, se da un lato, senza peraltro alcun riscontro, dà per scontato la costante volontà da parte della leadership palestinese di raggiungere un’accordo con Israele, dall’altro mette in dubbio sia la volontà di pace del governo israeliano che la sua effettiva rappresentanza della popolazione. Israele che con la sua vivacità politica e il continuo dibattito attorno a questioni etiche e di diritto cui si trova fare fronte, può essere annoverato a pieno titolo nel gruppo delle grandi democrazie moderne, viene qui messo sullo stesso piano di dell'Anp, governata da un dittatore terrorista e la sua cricca di cui molti come Bonanate ancora tessono le lodi . La democrazia deve sì affermarsi, ma è un lungo processo a cui i palestinesi per la prima volta nella loro storia timidamente si affacciano.
Oggi infatti è in gioco ben più che il destino politico di uno statista, o forse di una parte del Medioriente; è in gioco la cultura della democrazia, che ci viene riduttivamente riproposta proprio in queste settimane come una pura e semplice tecnica elettorale: ieri in Afghanistan, oggi in Palestina, domani (a fine mese) in Iraq. La loro scarsa somiglianza alle nostre abitudini (campagne elettorali poco ortodosse, scelta dei candidati tutt’altro che rappresentativa, propaganda elettorale e dibattito pubblico inesistenti) è giustificata con l’argomento che senza delle elezioni fondative, che segnassero una cesura netta con i rispettivi precedenti regimi, non si poteva né si può dire di aver davvero trasformato un sistema politico, di aver fatto nascere una nuova e sana società politica. Ma il problema è ben più complesso e la sua soluzione, per fortuna, straordinaria e affascinante. Infatti tra elezioni e pace c’è naturalmente un nesso forte: non si può andare a votare se non si è in pace. Ma attenzione: non è detto che votare comporti una totale e limpida applicazione dei principi democratici. La democrazia è più che elezioni, le comprende ma non vi si esaurisce: essa è non soltanto libertà di voto, di espressione, rispetto delle minoranze, libertà di religione, eccetera, ma è anche (se non di più) un metodo, una scelta morale, uno stile di vita, insomma, quello di chi ha deciso (ben prima di andare a votare) di rinunciare alla violenza per conquistare la vittoria: votare invece che sparare è uno straordinario passo avanti di civiltà politica, e non dobbiamo mai scordarcene nel momento in cui compiamo il semplice e modesto gesto di deporre la nostra scheda in un’urna: è come se avessimo buttato via le pallottole dalla pistola.
In questo modo la democrazia diventa non soltanto più solida, perché discende dalla convinzione e non dall’abitudine, ma si trova a rappresentare la più straordinaria promessa di pace che possa esistere nel mondo della politica, tanto interna quanto internazionale, perché esser democratici significa aver applicato i principi della politica nonviolenta: ecco perché pace e democrazia si richiamano l’una l’altra. Se Israele e Palestina fossero (o se saranno) completamente e compiutamente democratici, ebbene potrei scommettere che la crisi mediorientale finirebbe.
Dopo questa lezione sulla democrazia, nella quale faziosamente sostiene la tesi della non completà democraticità di Israele, Bonanate giunge a conclusioni che poco si discostano dalle tesi comunemente accettate all’interno dei vari think tank vicini all’amministrazione americana che vedono nell’esportazione della democrazia l’unica vera arma di protezione di massa; al contrario dei neocon però Bonanate non vuole riconoscere chi effettivamente si pone come ostacolo alla realizzazione di quest’ultima, forse per non turbare la coscienza di chi è ancora in lutto per la scomparsa di Arafat.

Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de L'Unità. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.

lettere@unita.it