Intervista a Masimo D'Alema, un politico sordo alle ragioni di Israele
e poco chiaro sulla necessità che Abu Mazen combatta il terrorismo
Testata:
Data: 11/01/2005
Pagina: 10
Autore: Pasuqle Cacella
Titolo: D'Alema: i grandi non si fermino agli auguri
Il presidente dei Ds Massimo D’Alema viene intervistato oggi, 11 gennaio 2005, sul giornale del proprio partito a proposito del risultato delle elezioni palestinesi. D’Alema esprime posizioni che lasciano alquanto perplessi e che denotano una forte pregiudiziale anti-israeliana
ROMA «Gli auguri ad Abu Mazen sono significativi e importanti, ma non bastano. Sarebbe un grave errore se la comunità internazionale tirasse un sospiro di sollievo illudendosi che il processo di pace possa riprendere automaticamente. Ora più che mai serve una iniziativa forte». Massimo D’Alema è in attesa di una telefonata da Ramallah per definire gli ultimi dettagli operativi del suo nuovo viaggio in Palestina: «Mi ha fatto piacere - dice - ricevere questo invito proprio in un passaggio storico per la tormentata terra mediorientale. Abbiamo tutti il dovere di sostenere la straordinaria opportunità apertasi con l’elezione del nuovo presidente dell’Autorità nazionale palestinese e la contemporanea formazione in Israele di un governo con la partecipazione dei laburisti».
Quale ritiene essere il segnale più incoraggiante dell’elezione di Abu Mazen?
«L’elezione sotto il controllo internazionale e con un pluralismo di candidati. È un evento democratico di grandissimo rilievo, non solo perché non comune nel mondo arabo, ma anche perché è avvenuto nell’anomala condizione dell’occupazione militare israeliana di buona parte dei territori».
Però Israele non ha frapposto soverchi ostacoli all’esercizio del voto.
«È vero, e non è da sottovalutare. Ma non è nemmeno un particolare di poco conto che i palestinesi di Gerusalemme non abbiano potuto vivere normalmente la campagna elettorale e normalmente votare. Con l’angheria del voto per corrispondenza, Israele ha voluto affermare che Gerusalemme è una terra straniera per l’Autorità Nazionale Palestinese».
Lo interpreta come un tentativo di condizionare la scelta politica annunciata da Abu Mazen di puntare a uno Stato palestinese sovrano entro i confini del 1967 con Gerusalemme come capitale?
«È evidente la volontà di annettere di fatto Gerusalemme, contro una precisa risoluzione delle Nazioni Unite. E, quindi, oltre ad essere una prepotenza nei confronti dei palestinesi è anche un atto di disprezzo per il diritto internazionale. Ma la comunità internazionale ha il dovere, a questo punto, di chiedere che vengano rimossi tutti gli ostacoli unilaterali che impediscono alla Road Map di determinare l’approdo di pace».
Dopo aver elogiato la portata e l’importanza delle elezioni D’Alema perde il distacco necessario e comincia ad usare termini di propaganda come angherie e occupazione militare; volutamente non entra nello specifico parlando di Gerusalemme come corpus unico senza effettuare la distinzione tra est e ovest che renderebbe la sua argomentazione più sensata . Il presidente Ds dimostra anche di avere scarsa conoscenza della questione di Gerusalemme, citando risoluzioni Onu inesistenti e invocando l’intervento della comunità internazionale contro un unilateralismo che, ammesso e non concesso vi sia stato, riguarda questioni non contemplate nella Road map.
Lei ha conosciuto Abu Mazen. Lo ritiene davvero capace di imprimere una svolta a favore della ripresa del processo di pace?
«Abu Mazen non è affatto l’uomo grigio e remissivo che si è dipinto qua e là. È una grande personalità politica, autenticamente rappresentativa della leadership palestinese per averne condiviso tutte le alterne e drammatiche vicende. In questo gruppo dirigente ha dato voce alla componente pragmatica e riformatrice che più convintamente ha sostenuto la via pacifica, opponendosi in modo netto non soltanto al terrorismo ma anche all’opzione della lotta armata. Lo ha fatto anche in momenti difficili e delicati...».
Anche in contrasto con Arafat...
«A conferma che Abu Mazen non è uomo da compromessi artificiosi. Ebbi modo di incontrarlo il giorno in cui il Parlamento gli votava la fiducia come primo ministro, e ricordo bene come fosse già preoccupato di ritrovarsi nelle condizioni di non poter esercitare pienamente il suo ruolo. A causa tanto della ritrosia di Arafat a cedere alcuni dei suoi poteri quanto dell’intransigenza israeliana nel condizionare la ripresa dei negoziati alla fine dell’Intifada armata. Al dunque, non esitò a rinunciare all’incarico di governo».
D’Alema di nuovo e volutamente non entra nei dettagli poiché, qualora lo facesse, le sue tesi crollerebbero. Abu Mazen ha sì sostenuto la sua opposizione al terrorismo ma non in maniera così netta e fattuale poiché a suo tempo, come lui stesso dichiarò in un’ intervista, facendolo avrebbe rischiato la vita; stessa cosa accadde a proposito della questione dell’unificazione delle forze di sicurezza palestinesi, Abu Mazen fu ostacolato da un Arafat preoccupato di perdere il controllo su di un Intifada che non voleva terminasse. Israele, dal canto suo, si limitò a richiedere la fine della violenza così come indicato dalla Road Map


Oggi è investito dei pieni poteri. Ma sarà in grado di esercitarli di fronte agli stessi problemi che lo hanno visto evocare, in campagna elettorale, il fantasma del «nemico sionista»?
«La campagna elettorale è finita. Se si ha chiaro che nessuna leadership potrà mai rinunciare al diritto dei palestinesi a una patria, allora è decisivo che la comunità internazionale sostenga l’opportunità apertasi con queste elezioni. E non mi riferisco solo al risultato che premia la linea politica di Abu Mazen, ma alla disponibilità di una parte significativa delle stesse componenti islamiche radicali nei confronti di quella proposta unità nazionale lanciata dal presidente dell’Autorità palestinese persegue per poter negoziare a nome di tutti».
Nonostante il boicottaggio delle elezioni da parte di Hamas?
«Il boicottaggio c’è stato ma, se ha confermato che Hamas ha una rappresentanza forte e reale, non ha compromesso la libera espressione del voto. Né la sua valenza democratica».
Il problema dei rapporti tra Al Fatah e Hamas è cruciale sia per il futuro assetto interno dell’Anp che per l’eventualità di negoziati con Israele, risolverlo, come fa D’Alema, con un "andrà tutto bene" è indice di superficialità; come potranno conciliarsi infatti il negoziato e l'obiettivo della distruzione di Israele dichiarato da Hamas? Se Abu Mazen vuole effettivamente combattere il terrorismo dovrà ad un certo punto contrastare energicamente Hamas e le sue infrastrutture per imporre la via moderata.
Abu Mazen non dovrà anche tener conto del 20% dei voti raccolti da Mustafa Barghuti su una linea critica?
«Si è dispiegata una dialettica politica vera. Barghuti rappresenta effettivamente una nuova leva della società civile, più colta e innovatrice, vogliosa di dimostrare di non essere con il fondamentalismo islamico ma nemmeno con l’autoritarismo e della corruzione di alcune frange del vecchio potere. Credo che Abu Mazen sia capace di raccogliere positivamente questa critica, perseguendo il rinnovamento con una autentica apertura democratica a tutte le componenti della vita politica e sociale».
Anche in Israele si vara un governo di unità nazionale, o quasi. E il socialista Peres, fautore di questa soluzione alla crisi apertasi sul ritiro unilaterale da Gaza, lancia messaggi concilianti. Un buon segnale anche questo, sia pure condizionato alla verifica dei «fatti»?
«La novità è indubbia. Che i laburisti entrino nuovo governo israeliano a fronte di una rottura nella destra, compresa una parte del partito di Sharon, sottolinea le potenzialità innovatrici dello spostamento dell’asse politico. Peres dice di voler giudicare Abu Mazen dai fatti? È giusto. Ed è altrettanto giusto che pure Israele sia giudicata dai fatti. Tutti sono chiamati alla prova dei fatti».
Quali fatti c’è da attendersi da Israele?
«Che torni sui passi compiuti da Rabin, sulla linea, intelligente e avveduta, di negoziare come se non ci fosse il terrorismo e di combattere il terrorismo come se non ci fosse il negoziato. Sono convinto che Abu Mazen farà di tutto per bloccare il terrorismo e riformare le strutture di sicurezza, ma questa azione rischia di essere indebolita se Israele si pone solo su una linea di mere richieste, senza assumere speculari impegni negoziali, sia sul piano dell’occupazione militare sia su quello delle condizioni di vita dei palestinesi. Lo stesso ritiro unilaterale da Gaza senza un negoziato rischia di creare elementi di confusione, e persino di destabilizzazione, se i palestinesi non sono messi in condizione di gestire il territorio.
Il punto in questione non sono tanto le eventuali concessioni che Israele farà ai palestinesi nel caso in cui Abu Mazen prenda iniziativa contro i gruppi terroristici quanto l’eventualità che questo avvenga. Se effettivamente ci sarà un’azione di lotta al terrorismo da parte Anp, Israele non avrà alcun interesse né a mantenere l’esercito nei territori né a sigillarli, così come nel passato recente della seconda intifada ha dimostrato più volte di ritornare sulle vecchie posizioni appena terminata l’emergenza. Israele ha in passato già rilasciato prigionieri e aperto confini non c’è motivo di credere che si astenga dal farlo i futuro se le condizioni miglioreranno.
La conferenza promossa da Blair per la fine del mese può servire allo scopo?
«È sicuramente utile, anche se questo vertice ha il piccolo difetto di essere dedicato esclusivamente alle riforme dell’Autorità nazionale palestinese. Per quanto importante sia, questo è solo un aspetto del problema. E gli altri non possono davvero essere ignorati o, peggio, rimossi. Vanno affrontati anch’essi, con una impostazione coerente con le risoluzioni dell’Onu, che sanciscono chiare obbligazioni per una parte e per l’altra».
A chi tocca, allora, l’iniziativa d’insieme?
«Al cosiddetto quartetto: l’Onu, l’Europa, gli Usa, la Russia. In questi giorni al Parlamento europeo discutiamo delle relazioni transatlantiche, nella cui agenda il gruppo socialista propone una iniziativa per la ripresa di un processo bilaterale in Medio Oriente. Mi auguro sia raccolta e si realizzi al più presto offrendo ad entrambe le parti un processo di pace bilanciato. Senza questo parallelismo si rischia il definitivo fallimento della Road Map. Non ce lo possiamo permettere».
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