Se la pace non verrà sarà colpa di Israele
quattro quotidiani "mettono le mani avanti"
Testata:
Data: 11/01/2005
Pagina: 9
Autore: Ingrid Badurina, Marc Innaro, Barbara Schiavulli, Eric Salerno
Titolo: Ora palestinesi e israeliani credano gli uni negli altri - Quel felice paradosso dopo Arafat - Abu Mazen, tendiamo la mano a Israele - E ora la parola passa a Bush e Sharon
A pagina 9 LA STAMPA di martedì 11 gennaio 2005 pubblica un intervista di Ingrid Badurina al ministro degli Esteri egiziano Ahmed Aboul Gheit, "Ora palestinesi e israeliani credano gli uni negli altri".
Fin dall'inizio dell'intervista Gheit sostiene una visione parziale del processo di pace, la responsabilità per il quale sarebbe in sostanza tutta di Israele, tenuta a cooperare con i palestinesi al ritiro da Gaza e parte della Cisgiordania e a sospendere lo sviluppo degli insediamenti.
Gheit non fa cenno al dovere palestinese di combattere il terrorismo. Non solo la Badurina non solleva questa questione, ma le sue domande sembrano rivolte a indicare in Israele l'ostacolo alla pace e uno stato prevaricatore: "Con il loro voto i palestinesi sembrano aver scelto la via della pace. Crede che Israele farà lo stesso"? E poi: "Tra i palestinesi c’è chi teme che Abu Mazen sarà costretto a fare grandi concessioni". non mancano le previsioni catastrofiche sull'Iraq, moderate da llo stesso Gheit.
Ecco il testo dell'intervista:

IL CAIRO Con la vittoria di Abu Mazen alle presidenziali palestinesi inizia davvero una nuova era in Medio Oriente? Rivolgiamo la domanda a Ahmed Aboul Gheit, ministro degli Esteri egiziano. «Sì - risponde - si tratta di una nuova era perché incomincia col piede giusto. Dopo l’annuncio della sua vittoria il Presidente dovrà affrontare i compiti assegnatigli, ma lo stesso verrà chiesto a Israele, alla comunità internazionale, all’Egitto, al Quartetto. Per Abu Mazen la prima cosa sarà ottenere l’appoggio dell’intera società palestinese. Dovrà ottenerne il consenso. Dovrà inoltre lavorare con gli israeliani per stabilire una struttura di pace che permetta di rilanciare i negoziati. Da parte loro gli israeliani dovranno rispondere positivamente a queste elezioni, dovranno tendere la mano. Agli israeliani verrà chiesto di cooperare con i palestinesi con l’aiuto degli americani, degli egiziani e della comunità internazionale per un ritiro ordinato da Gaza e dalla Cisgiordania settentrionale. Quando questo succederà tutta la regione sarà calma e si potrà rilanciare il processo della Road Map. Ma questo richiederà la moratoria di Israele sulla costruzione degli insediamenti. E’ un punto cruciale perché si tratta di buona volontà, di costruzione della fiducia. Gli americani, la comunità internazionale e l’Europa in particolare dovranno dare la loro assistenza ai palestinesi, aiutandoli a costruire il loro potenziale economico».
Teme che ci possano essere nuove violenze?
«Spero di no. Ognuno dovrà assumersi le proprie responsabilità e controllare la situazione con l’aiuto degli elementi moderati, sia in Palestina sia in Israele. Non ci devono essere provocazioni. Palestinesi e israeliani devono costruire la fiducia reciproca per poter credere gli uni agli altri. Qualche incidente isolato non dovrebbe nuocere a questo processo».
Con il loro voto i palestinesi sembrano aver scelto la via della pace. Crede che Israele farà lo stesso?
«Sì, penso di sì. Tutti gli indizi mostrano che Israele adesso è pronta a muoversi insieme con i palestinesi, almeno per quel che riguarda il ritiro da Gaza e Cisgiordania».
La morte di Arafat ha aiutato in questo senso?
«Non direi così. La morte del presidente palestinese ha fatto scattare la molla, ha innescato la dinamica degli eventi».
Tra i palestinesi c’è chi teme che Abu Mazen sarà costretto a fare grandi concessioni.
«Questo farà parte dei negoziati e tutti dovranno trattare in buona fede. Ma i negoziati non saranno campati in aria, verranno fatti in base a punti di riferimento precisi che sono le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, la Road Map, la Conferenza di Madrid con "terra in cambio di pace". In passato abbiamo avuto negoziati che sono andati lontano. Ci serviranno come serbatoi di esperienza».
L’Egitto si occuperà della sicurezza nella regione di Gaza dopo il ritiro degli israeliani?
«No, l’Egitto non manderà le sue forze a Gaza, ma aiuteremo i palestinesi a sviluppare il loro apparato di sicurezza».
Tante volte è sembrato di essere sulla strada giusta per la pace ma poi è sempre successo qualcosa.
«Questa volta non succederà».
La speranza di pace nell’area sembra sempre più lontana per quanto riguarda l’Iraq.
«Stiamo tutti osservando l’Iraq. Tra poco ci saranno le elezioni e potremo capire come si svilupperà lo scenario iracheno».
L’Egitto ha sempre avuto buoni rapporti con gli Stati Uniti. La politica americana verso l’Iraq li ha in parte incrinati?
«No. Abbiamo spesso delle differenze con gli americani su molte questioni, sappiamo però che dobbiamo lavorare insieme per la pace nella regione».
Ma l’intervento americano in Iraq...
«Si tratta di un dato di fatto. Se sia stata una cosa giusta o sbagliata, se ci siano stati interrogativi o critiche, sono tutte cose alle nostre spalle. Adesso quello che dobbiamo guardare è il futuro, come ristabilire la pace in Iraq, e assicurare il ritiro delle truppe straniere dal Paese».
La sua risposta è in armonia con la tradizionale politica egiziana della mediazione.
«Certo, perché noi egiziani siamo centristi per natura. Non prendiamo mai posizioni rigide, estreme. Siamo il Paese più grande e più popoloso della regione, e la nostra responsabilità non è limitata al solo Egitto».
Nelle strade del Cairo ci sono molte più donne col velo di alcuni anni fa.
«E’ vero, ma al tempo stesso si vedono ragazze col velo che camminano mano nella mano o quasi abbracciate ai ragazzi lungo le rive del Nilo. Prima questo non si vedeva mai. Cosa vuol dire? Vuol dire che le ragazze vogliono affermare la loro identità: porto il velo, quindi sono musulmana, ma mi permetto di farmi abbracciare da un ragazzo. C’è una forte pressione dell’Occidente sulla nostra società che risponde affermando in superficie la propria identità. Di fronte ai modelli e alle regole che vengono da fuori, la gente si mette lo scudo. E lo scudo è l’Islam. Ma non è un fenomeno che fa paura, perché è accompagnato da un comportamento liberale che non si vede in altri Paesi islamici».
Un’ultima domanda. Alcuni giornali americani hanno affermato che l’Egitto possiede armi nucleari.
«Un nonsense. E’ stata una notizia diffusa da alcuni gruppi all’interno dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica a fini personali».
IL MATTINO pubblica in prima pagina e a pagina 10 un articolo di Marc Innaro "Quel felice paradosso dopo Arafat".
Vi si sostiene, ostentando una falsa equidistanza, che le fragili speranze di pace sono a rischio per due motivi: l'impossibilità per Abu mazen di combattere Hamas e la volontà di Sharon di mantenere sotto controllo Israeliano alcuni insediamenti in Cisgiordania.
Innaro non spiega perché affrontare Hamas sia impossibile per Abu Mazen, nè perché il compromesso tra israeliani e palestinesi non possa riguardare anche il problema degli insediamenti.
Soprattutto, però, è l'equiparazione tra terrorismo e insediamnti come cause del conflitto ad essere inaccettabile nel suo articolo.
Ecco il testo:

Ancora una volta il Medio Oriente si conferma come il luogo in cui la politica è l’arte dell’impossibile, del paradosso. Fino a poche settimane fa, due anziani leader, l’israeliano Ariel Sharon e il palestinese Mahmoud Abbas (alias Abu Mazen), apparivano destinati alla pensione. E invece, ribaltando tutti i pronostici, ai due era riuscita, anzitutto, la mossa più ardita e inattesa: quella di sopravvivere a Yasser Arafat. Poi, nelle ultime ore, la vera e propria resurrezione politica. Domenica sera, l’anziano, grigio e navigato Abu Mazen è stato eletto dai palestinesi proprio alla successione del defunto raìs, con cui - in aperta e durissima polemica - aveva troncato ogni rapporto nell’ultimo anno. Come se non bastasse, ieri sera il premier israeliano Ariel Sharon, grazie ai voti determinanti dei deputati pacifisti dell’estrema sinistra, è riuscito a superare, di strettissima misura, la clamorosa fronda interna del Likud, il suo stesso partito, e a ottenere la fiducia parlamentare (58 sì, 56 no) per il suo nuovo governo di coalizione, il cui obiettivo principale sarà quello di iniziare entro pochi mesi il ritiro da Gaza e lo sgombero di migliaia di coloni. Ennesimo paradosso, questo, se si considera che il padre di quegli insediamenti ebraici era stato proprio lui, Ariel Sharon. Qualcosa di nuovo davvero sta accadendo a Gerusalemme e dintorni? A giudicare dalle euforiche reazioni che si diffondono, a macchia d’olio, da Washington alle capitali europee, da Ramallah a Tel Aviv, si sarebbe tentati di crederlo.
Persino George W. Bush, fino a ieri convinto assertore del «desengagement», del disimpegno americano nel conflitto israelo-palestinese, oggi si dice disposto a ricevere «in qualsiasi momento» il neo-eletto Abu Mazen alla Casa Bianca (per Arafat, invece, negli ultimi quatto anni le porte erano rimaste ostinatamente chiuse), addirittura ammonisce il fedele alleato israeliano a fare stavolta la propria parte perchè finalmente riparta la Road Map, il piano di pace che prevede la nascita del futuro stato di Palestina. Ma non ci si illuda: la prudenza è più che mai d’obbligo, spesso da queste parti le apparenze ingannano. Forse non indosserà la kefiah (come in vita tanto amava fare il suo amato-detestato raìs), ma - seppure in doppiopetto - Abu Mazen, va ricordato, è stato uno dei padri fondatori di Fatah, come Arafat anche il neo-presidente dell’Anp pretende per lo stato di Palestina i confini pre 1967, Gerusalemme Est come capitale, il diritto al ritorno per i palestinesi della diaspora. E come non aveva voluto o potuto Arafat, è illusorio ritenere che Abu Mazen da domattina possa ordinare alle proprie forze di sicurezza di estirpare radicalmente Hamas, Jihad Islamica o Brigate di Al-Aqsa, come invece molti sperano, sia in Israele che in Occidente. Per una ragione molto semplice: non è in grado di farlo. Proverà, invece, a riformare i tanti (troppi) servizi di sicurezza palestinesi, a porli sotto un comando unificato, e a convincere i tanti gruppi armati (fondamentalisti e non) che il negoziato politico, e non il ricorso alla violenza, è il modo migliore per realizzare il sogno comune di una patria per il martoriato popolo palestinese. Ma anche con Ariel Sharon è forse bene non illudersi. Il premier d’Israele non ha mai fatto mistero che la sua battaglia parlamentare per imporre lo smantellamento di 25 insediamenti ebraici nella striscia di Gaza è frutto di un abile calcolo: lasciare il superfluo per mantenere in Cisgiordania la maggior parte delle centinaia di colonie israeliane. Messa così, la prospettiva di pace non appare certo di facile e breve soluzione. Ma si sa: in Medio Oriente, mai dire mai. Dopo migliaia di morti, dopo una interminabile stagione di terrore, odio e distruzioni, oggi israeliani e palestinesi sono esausti e, come alla vigilia degli accordi di Oslo, sembrano di nuovo uniti dalla voglia di voltare pagina, di ricominciare a sperare. Ma soltanto se americani ed europei riusciranno, almeno per una volta, a imporre a entrambi i contendenti una comune e ferma visione diplomatica, politica e di sviluppo economico, non è affatto assurdo ritenere che Ariel Sharon e Abu Mazen possano, in un giorno non lontano, davvero andare in pensione a godersi i frutti della pace, in compagnia dei nipotini. E, perchè no, a sorseggiare assieme un caffè nei vicoli di Gerusalemme - Al Quds.
A pagina 7 di AVVENIRE, nell'articolo "Abu Mazen, tendiamo la mano a Israele" Barbara Schiavulli scrive:
Intanto in Cisgiordania è stato elevato il livello di allerta e sono state rafforzate le misure di sicurezza a causa di allarmi attentati. dopo l'incredibile giornata delle votazioni, dove la gente si muoveva liberamente, la situazione è tornata difficile come sempre. E' perfino peggiorata all'entrata di Gerusalemme dove gli accessi sono stati bloccati per ore.
Gli "allarmi attentati" sono citati come case delle "misure di sicurezza", ma l'enfasi è tutta posta sui disagi della popolazione palestinese, il fatto che esistesse la minaccia di una strage e che si è operato per sventarla passa in secondo piano.

IL MESSAGGERO pubblica in prima pagina e a pagina 4 un editoriale di Eric Salerno, "E ora la parola passa a Bush e Sharon".
Il titolo sintetizza bene la tesi di Salerno: i palestinesi hanno scelto un "uomo contrario alla violenza", non è neanche da chiedersi se questa "contrarrietà" produrrà un impegno effettivo contro il terrorismo (l'argomento non è neppure affrontato), è piuttosto su Israele che grava per intero la responsabilità di far realizzare o naufragare le speranze di pace. La lista dei suoi doveri comprende la liberazione dei "prigionieri", la sospensione dei lavori negli insediamenti, l'eliminazione del "muro", "indifendibile" quando "passa come uno spartitraffico in mezzo alla via separando gli abitatnti arabi di un lato da quelli arabi dall'altro lato": ci sono arabi anche in Galilea, Salerno li vuole dal lato palestinese de l "muro" per non separarli dagli altri arabi? Secondo i sondaggi la maggioranza diloro non ne vorrebbe sapere, peccato. E gli ebrei che vivono negli insediamenti, territori che potrebbero essere scambiati con altri in un accordo definitivo devono trovarsi dalla parte palestinese? Nonostante i terroristi li vogliano uccidere senza distinzioni (mentre nessuno minaccia gli arabi in Israele)?

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