I palestinesi scelgono Abu Mazen
reportage di Fiamma Nirenstein (e un'intervista al capo di Hamas)
Testata: La Stampa
Data: 10/01/2005
Pagina: 3
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: Un nuovo Raiss per scommettere sulla democrazia - Per noi di Hamas la guerra continua
LA STAMPA di lunedì 10 gennaio 2005 pubblica a pagina 3 un reportage di Fiamma Nirenstein sulle elezioni palestinesi, che hanno visto la vittoria con un ampia maggioranza di Abu Mazen.
Ecco l'articolo:

Non mi piacciono i terroristi suicidi». Santo cielo, l’ha detto. Anwar Khatib di 20 anni, osservatore presso un seggio elettorale di Shuafat, un piccolo seggio su una strada polverosa che porta a Ramallah, svela con un sorriso il segreto di tanti votanti e aggiunge specifico «penso che Abu Mazen sia il più adatto a portarci la pace». Certo, ha fatto anche tutta la premessa di ordinanza: i nostri non sono mai terroristi, sono combattenti per la libertà, gli israeliani sono i veri terroristi, perchè ci invadono, ci uccidono, ci occupano. Però poi fa un sorriso e lo dice: queste elezioni per me devono essere un nuovo inizio, io sono un laureando in computer dell’Università di Bir Zeit, voglio vivere la mia vita.
Per Anwar, le elezioni sono la fine di un’era «anche se Abu Ammar è stato grande, è il padre di tutti noi, votiamo Abu Mazen perchè è il più adatto a portarne avanti il messaggio». Però, con tutta la prammatica e certo anche sincera dichiarazione di continuità quello che troviamo andando di seggio in seggio nelle città e nelle campagna della Cisgiordania nel giorno delle elezioni è una netta, anche se difficilmente articolata, presa di posizione a favore di un cambiamento rispetto a Arafat e di Abu Mazen come messaggero di pace.
La democrazia è l’altro grande leit motiv delle interviste: non c’è bambino o vecchio con la galabja e il bastone, non c’è Tanzim anche di quelli delle Brigate di Al Aqsa, dai cinquanta anni in giù, non c’è donna con la testa coperta o ragazza con i jeans che non la chiami a gran voce. Freedom, basta con la «prepotenza e la corruzione dei politicanti ricchi». La voglia di libertà, molto evidente anche nei modi e nell’abbigliamento fra gli studenti elettori di Mustafa Barguti, sembra stare a cuore ai palestinesi che in questi anni hanno sofferto la presenza di una leadership in gran parte estranea e poco amata salvo il raiss, accusata a gran voce di corruzione e prepotenze.
Ma anche Nadem, un ragazzo con la kefia al collo e la barba lunga che parla agitando grandi mani da contadino nel paesaggio incredibilmente bello di pietre e di ulivi nel villaggio di Abu Kash dice prima «Bard, bard», che freddo, e poi spiega il punto: è venuto a votare perchè è una occasione per contare, che la democrazia porterà benessere, perchè i palestinesi vogliono essere un esempio per tutto il mondo arabo, che Abu Mazen è il suo candidato in quanto Fatah è l’anima della lotta per l’Indipendenza e, essendo la padrona di casa, porterà la pace. Sempre che gli israeliani finalmente capiscano qualcosa, e accettino un po’ di ragionevolezza invece di sparare sempre, dice Nadem. E se le fazioni armati non lasceranno portare la pace? Non è possibile. Nadem crede nell’unità con tutti, anche con Hamas. Il palazzo della fantasia dei palestinesi in queste ore è già alto come un grattacielo, e crea trepidazione il gran vento freddo che tuttavia seguita a soffiare.
La vetrina di una intera giornata di elezioni è uno specchio della condizione palestinese stessa e anche della svolta portata dalla scomparsa di Arafat. Intanto, pochi votanti: la gente è stanca e scoraggiata, il potere è lontano dai suoi desideri, e non crede in buona parte di poter cambiare la situazione. Ma per il cinquanta per cento, invece, ha grandi speranze, che in parte sono persino rivoluzionarie.
A Gerusalemme si vota in sei uffici postali, in cui sono stati distribuiti solo circa seimila votanti. Gli altri, a decine di migliaia, devono invece andare in uffici periferici: vengono all’ufficio dove le grandi scatole rosse dietro il vetro aspettano i voti postali che verranno consegnate a sera all’Autorità Palestinese; non sono iscritti; gli viene richiesto di andare a votare a Abu Dis, per esempio, quando non si sono trovati i loro nomi. La coda non è lunga, anche se c’è confusione perchè le liste non sono accurate e giornalisti e osservatori di ogni genere spingono e si affollano, le auto dei militanti del Fatah conducono quelli che devono votare altrove di corsa a altri uffici postali.
La battaglia palestinese per Gerusalemme non sembra potersi vincere con un plebiscito alle urne, forse, come dicono i palestinesi, anche per la preoccupazione dei cittadini di Gerusalemme di perdere i loro diritti di arabi israeliani. Ma già qui si vede nelle parole del primo intervistato una grande differenza con le elezioni del ‘96. Mohammed, che non rivela il suo cognome, pure dichiara baldanzosamente di votare per Barghuty: «Voglio usare il mio diritto, voglio scegliere chi mi pare, voglio cambiare musica, Fatah ha fatto il suo tempo».
Sulle strade della Cisgiordania, nonostante l’attacco terrorista di ieri che ha ucciso un soldato e feriti altri tre (tutti in borghese in una macchina di passaggio), ci sono meno posti di blocco, e i soldati cercano di essere celeri e gentili. Dice Amran Mizna, ex candidato laburista al ruolo di primo ministro che con altri israeliani di sinistra sorveglia che i check point non blocchino le elezioni: «Una giornata che dimostra che con più gentilezza, velocità, attenzione, tanti problemi potrebbero essere evitati».
Al campo profughi di Calandia le urne sono nella scuola dell’«Unrwa», si entra in un gelido stanzone dove di nuovo vige il caos per via delle liste dei nomi. Molti registrati a Calandia città, vengono al campo profughi e viceversa. Accanto un centro dotato di telefono sistema i votanti altrove, auto strombettanti, manifesti, senso di dinamicità. Il ministro Abd el Rahmin esce con un cappottone alla russa, accompagnato da vicino. Dicono che avrete meno del 65 per cento, lo provochiamo: «A me basta il 51 per cento, come in ogni democrazia», grida baldanzoso, «Anzi, meglio».
Lilli Gruber insieme con un gruppo di osservatori europei accompagna attraverso un check point un gruppetto che non ha trovato il proprio nome elencato e non può entrare nelle tre stanzette dove si vota e si depongono le schede. Il gruppo della famiglia Yaacub, rifugiati del 1948, 14 figli, un padre senza denti e tante ragazze col velo in testa, di cui una ragazza sordomuta che mi scrive sull’agenda «What is your name, mine is Nihma», insistono per «eleggere un raiss che sia anche nostro, sperando che sia buono come Arafat, che ha sempre aiutato la nostra famiglia».
Le donne che vengono ai seggi sono le più motivate e battagliere quando non trovano i loro nomi. Così anche a Ramallah, dove però, visti i seggi che non sono mai pieni, andiamo a chieder ai negozianti intorno a piazza Manara perchè non sono andati a votare. Per carità! Ci andranno tutti, anche il Jihab, padrone del bel fioraio «Red rose»: «Abu Mzen creerà una vera Palestina, uno Stato con i confini del ‘67. Cambierà tutto. E’ una persona per bene, non è ricco, è stato sempre con Arafat. No, questo non vuol dire che sia identico a lui, ognuno ha la sua personalità. Hamas? Non lo può fermare, ci deve negoziare. Però ce la farà, appena ha il potere gli farà delle proposte che dovranno per forza accettare». Jihab ha il negozio a Ramallah e la casa a Gerusalemme, dove torna ogni sera. Complicato, con i check point: anche questo, Abu Mazen tratterà e risolverà. Tratterà, tratteremo, bisogna trattare, e speriamo che gli Israeli trattino.
Questo verbo torna di nuovo in vari luoghi dove si vota, in campagna e in città, e ovunque la gente si guarda perplessa il dito macchiato d’inchiostro viola che, imposto a tutti, dovrebbe impedire di votare di nuovo e che invece sparisce alla svelta se lo strusci col sapone; lo sentiamo dire anche alla Mukhata, dove i poliziotti che hanno ricevuto le armi per l’occasione sorvegliano i seggi. La tomba di Arafat, piena di fiori e cartelli di dedica della comunità europea e delle Ong che sono fioccati a «osservare», è giusto accanto alla grande sala delle riunioni adibita al voto. Due camion davanti alla porta sono carichi di bandiere e propagano marce militari a tutto volume. Un poliziotto va svelto davanti alla tomba di Arafat, ci dice «mi manca», poi va a votare e contento dice «comincia un’era nuova»: ma se Arafat gli manca tanto, è un bene o un male che cominci questa era? Certo, è un bene, e comunque questo è il sentimento prevalente.
John Kerry stringe la mano di Barghuty in un seggio di Ramallah, i due si scambiano qualche parola e Barghuty, accompagnato dalla sua bella figlioletta, ha un’aria professionale e moderna. Jimmy Carter gira per la Cisgiordania con tre grosse jeep che corrono in fila, i vetri oscurati. Ogni tanto scende, osserva, vede un mondo che sembra spenzolato sul futuro. Da oggi con Abu Mazen come nuovo capo col 60 per cento del voti, Sharon comunque avrà di fronte un interlocutore che non è mai stato ritenuto inconsistente e terrorista e quindi, comincia un dialogo inusitato.
Sempre a pagina 3 LA STAMPA pubblica un intervista di Fiamma Nirenstein ad Hassan Yussef, leader di Hamas.
Ecco l'articolo:

Nel gran giorno, Hamas rifiuta il voto. Visitiamo il suo capo nella sede di Ramallah, che è situata nel luogo più improbabile che si possa immaginare per un’organizzazione integralista islamica dichiarata terrorista dall’intero consesso internazionale. E’ una parabola sul rapporto fra terrorismo e modernità di stampo occidentale. Infatti l’ufficio del suo capo, lo sceicco Hassan Yussef, da poco rilasciato dalle prigioni israeliane, occupa un appartamento al terzo piano dell’edifico più elegante e più caro di Ramallah, la El Scheich Tower, che è nè più nè meno che un centro acquisti in puro stile americano, con negozi di moda, cibo, cosmetici. Sopra risiede Hamas.
Gentilissimo lo sceicco vestito di beige, in giacca cravatta e golf ribadisce l’irriducibilità di Hamas in un modo che invece suggerisce la correttezza della chiacchiera della comunità politica palestinese, ovvero la trattativa avanzata per un accordo con il prossimo Raiss, Abu Mazen. Dopo tutto Hamas è fra tutte le organizzazioni terroriste quella che quanto a uccisi e a imprigionati è la più colpita da questa Intifada, e molti dei suoi uomini sono in clandestinità.
Signor sceicco Yussef, perchè Hamas non va a votare?
«Perchè sappiamo benissimo quale sarà il seguito di queste elezioni, la possibilità di un compromesso che non soddisfa la nostra ideologia e la nostra politica e comunque trattive internazionali per cui è già pronto il tavolo. Sarebbe un disastro trovarci davanti agli americani e agli europei oltre che naturalmente agli israliani come partito maggioritario. Preferiamo stare da parte. Pensi se vincessimo le elezioni quale guaio diplomatico trattare con un’organizzazione dichiarata terrorista».
Pensa che potreste vincere?
«E’ sicuro. Hamas è una grande forza: abbiamo avuto il 50 per cento alle elezioni generali, non abbiamo nessun motivo di dubitare di noi stessi dopo poche settimane».
Perchè astenersi? Avreste potuto dare una vostra impronta religiosa alla nuova situazione.
«Noi abbiamo una priorità assoluta: battere l’occupazione, battere Israele. Dopo che questo obiettivo primario sarà ottenuto, ci occuperemo dell’affermazione della nostra ideologia in Palestina. Per ora, non vogliamo rompere l’unità di fondo nella guerra in corso».
Eppure rifiutate la hudna, la tregua, che Abu Mazen cerca da tempo.
Israele attacca, uccide, occupa, in ogni caso, sia che ci difendiamo sia che ci fermiamo. Quindi, perchè mettere da parte le armi?».
Abu Mazen stesso dice che il lancio dei Kassam danneggia la causa palestinese perchè provoca reazioni che fanno soffrire la popolazione.
«Per carità: il lancio dei Kassam è una forma di difesa da un attacco che avverrebbe comunque, gli israeliani non rispondono ai nostri colpi: sono i primi a colpire, qualsiasi cosa facciamo. Il problema è Israele, solo Israele..».
Lei vuole dire, mi sembra, che non cesserete gli attacchi terroristi se non costretti.
«Nessuno smetterebbe di difendersi quando è attaccato. Però...».
Però?
«Se Israele cessa la lotta armata, si ritira dai Territori, consente il ritorno dei profughi, consente Gerualemme come capitale palestinese, libera i prigionieri... possiamo parlare di hudna. Voglio dire: se Israele cambia politica a fronte di Abu Mazen, siamo interessati a capire cosa sta davvero succedendo».
Abu Mazen ha detto che se non smettete di minacciare la sua vita e di sparare i Kassam dovrete affrontare una punizione "nello stile di Falluja".
«Sarebbe un paragone sbagliato, se l’avesse fatto, e non ci credo: non credo si metta dalla parte dell’oppressore americano contro la gente che difende la libertà a Falluja».
Signor sceicco, cosa intende fare in definitiva con Abu Mazen? Contrapporsi? Allearsi? Lo conosce personalmente?
«Certamente, l’ho incontrato in varie occasioni. Fra noi c’è una buon rapporto. E’ educato, civilizzato, credibile».
Insomma, ci può fare un accordo.
«Giudichiamolo dopo che si sarà mosso. Ora è inutile pensare alla hudna. Aspettiamo che ce la chieda come Presidente. Comunque, sarà importante per noi se otterrà che cessino gli attacchi israeliani ai palestinesi, ai militanti, e che vengano liberati i prigionieri».
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