Cronache elettorali
analizzate da Fiamma Nirenstein
Testata: La Stampa
Data: 09/01/2005
Pagina: 7
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: Noi ci pieghiamo alla storia ma deve farlo anche Israele
Proseguono le analisi di Fiamma Nirenstein sulla campagna elettorale dell 'ANP.
RAMALLAH
I seggi si aprono, una folla di osservatori internazionali con gli occhi puntati si affolla attorno alle urne, un palestinese piuttosto affannnato e solitario cerca di farsi largo fra il grappolo dei volenterosi per arrivare a votare, ma è dura. Chissà se ce la farà. La vignetta, apparsa su un giornale locale dell’Autonomia Palestinese, fa ridere ma non troppo i leader di Al Fatah alla vigilia delle elezioni: la preoccupazione che i votanti vengano è grande. Dal grande ufficio elettorale di Abu Mazen a Ramallah si telefona nelle case, anche quelle remote dei campi profughi e dei contadini, per invitare a votare. Richard Gere seguita a ripetere dalle tv: «Il mondo vi guarda, uscite di casa». Continua lo sforzo di convincere i palestinesi che stavolta si cambia, che votare rinnova la vita. La preoccupazione dell’assenteismo preoccupa particolarmente Al Fatah: se Abu Mazen non totalizzerà una grossa affermazione, la lotta con le fazioni nemiche sarà durissima già in partenza, e sarà quasi impossibile gestire una politica di trattative. Mohammad Shtayyeh però è ottimista, dinamico, assolutamente tonico come si conviene al cervello e al capo della campagna elettorale dell’uomo di punta. Del resto la sua origine professionale come capo del Pecdar, il Consiglio economico palestinese per lo Sviluppo e la Ricostruzione, da anni mette nelle sue mani di economista e professore universitario grandi responsabilità e miliardi da investire in infrastrutture, studi, progetti di riabilitazione di aree.
Dunque ecco arrivato il grande giorno. Ma sarà un grande giorno o tutto tornerà come prima?
«Si guardi intorno, sta succedendo qualcosa di inusitato. Non so se ha notato che a Ramallah ci sono molti più manifesti ed enormi foto di Mustafa Barghuti di quanti non ce ne siano di Abu Mazen. Eppure Abu Mazen è il candidato di Al Fatah, il partito di Arafat. Non è un segnale di grande novità questo?».
Ci sono state molte proteste di candidati che dicono di essere stati sovrastati sui giornali dalla propaganda di Abu Mazen. Abd al-Sattar Qassem ha detto: «La campagna non è libera e corretta».
«Ma non è vero, anche se certo eistono candidati più forti e più deboli: Abu Mazen ha avuto più copertura di stampa perché il candidato di Al Fatah è il più politicamente rilevante. Ma la campagna è stata forte, un vero scontro politico con piena libertà di espressione. Mi nomini un altro Paese dove lo scontro politico per le elezioni sia così aperto».
Nella campagna avete detto tutto e il contrario di tutto, «Sharon è un partner», «il nemico sionista»,«smettere con la lotta armata», «non ci volgeremo mai contro i nostri fratelli»...
«Ecco i nostri obiettivi. Prima di tutto: togliere a Israele il monopolio della democrazia nel Medio Oriente. Mostrare i palestinesi aperti e civili come sono. La gente parteciperà, controllerà».
Perdoni, non sono evidenti le premesse per questa ottima intenzione.
«E’ dal ‘96 che non ci sono elezioni presidenziali, e sono passati 16 anni da quelle di Al Fatah. Presto vedremo anche le legislative. Poi, il 4 agosto, ci saranno le elezioni per Al Fatah... Insomma, siamo in fase di rivoluzione nella leadership, cambia tutto».
Ma questo porterà a una rivoluzione della linea politica? Alla fine della violenza e del terrorismo?
«Intanto qui siamo in due a giocare, e Israele certo non è neutrale in questo processo: se ci darà tregua, se cesserà di pretendere impossibili risultati immediati e smetterà con gli attacchi continui, i morti, i feriti, i prigionieri...».
Sharon dice che è pronto a concessioni dolorose, che vuole aprire tutte le porte al futuro ma che sulla sicurezza non transige. Finche continua il terrore, risponderà.
«E qui viene il secondo punto: Israele non deve credere di avere il monopolio della sicurezza. Non ce l’ha. La sicurezza si ottiene in altro modo. Il dialogo al nostro interno viene molto danneggiato dalle continue azioni israeliane, dalla sofferenza. Se Israele ferma le eliminazioni e apre i check point, possiamo trovare un accordo con le fazioni sia sui fini che sugli strumenti del dialogo: discutiamo su questo sia con Hamas sia con le altre fazioni. Non dimentichi che Abu Mazen è già riuscito una volta a ottenere una tregua da Hamas».
Il vostro obiettivo?
«Vincere bene, con il 70 per cento, così da avere dietro il popolo, da potersi sedere a un tavolo negoziale godendo della credibilità di tutto il mondo».
Intanto continuano gli attentati.
«Non ci sono miracoli in vista, continuano anche le aggressioni dell’esercito israeliano. Ma io da economista so che raccogli ciò che pianti: onestà, credibilità, creatività, per trovare la soluzione politica che vogliamo. Ecco il nostro progetto».
Ma dov’è la differenza con Arafat? Di nuovo Gerusalemme, i confini del ‘67, il diritto al ritorno, il rifiuto di colpire il terrorismo...
«Sui nostri diritti non si transige. La differenza è nella volontà e nella necessità di vivere che pervade il popolo, e che induce flessibilità. Solo però se gli israeliani, anche loro, si piegheranno alla storia».

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