Una difesa di Pio XII che nega la possibilità del giudizio morale su qualsiasi fatto storico
di Ernesto Galli Della Loggia
Testata: Corriere della Sera
Data: 07/01/2005
Pagina: 33
Autore: Ernesto Galli Della Loggia
Titolo: Antisemitismo. Non giudichiamo il passato con il metro del presente
A pagina 33 il CORRIERE DELLA SERA di venerdì 7 gennaio 2005 pubblica un articolo di Ernesto Galli Della Loggia intitolato "Antisemitismo. Non giudichiamo il passato con il metro del presente", una difesa di Pio XII incentrato su un curioso argomento: all'epoca di Pacelli non si aveva la stessa sensibilità di oggi verso l'antisemitismo, dunque comportamenti che oggi sarebbero ritenuti antisemiti (come per esempio sottrarre bambin ebrei battezzati all'"influenza" dei loro genitori) non lo erano in quell'epoca.
Inoltre, poiché all'Olocausto non era ancora stato "concettualizzato", prima degli anni 70 non era possibile mostrarsi insensibili verso le sue vittime.
Un testo improntato a uno storicismo assoluto che, se adottato in modo coerente, renderebbe in realtà impossibile il giudizio morale su qualsiasi fatto storico.
Ecco il testo:

Scrive nei suoi ricordi Raul Hilberg, il massimo storico della Shoah, autore della monumentale La distruzione degli ebrei d'Europa ( pubblicato in Italia da Einaudi), che quando cominciò le sue ricerche alla fine degli anni 40 , inizio dei 50 , negli Usa « la discriminazione contro gli ebrei infieriva dappertutto » ; era l'epoca, aggiunge, « in cui si intimava a coloro che erano torturati dai propri ricordi, come appunto i sopravvissuti allo sterminio, di dimenticare quel passato; l'epoca in cui si procedeva sì ai vari processi di Norimberga, ma più che per capire la storia della Germania, per chiudere un capitolo, al fine di permettere a quel Paese di ripartire su nuove basi nella comunità delle nazioni occidentali » . Hilberg racconta poi le mille difficoltà che incontrò verso il 1960 per la pubblicazione della prima edizione del suo libro. Una casa editrice newyorchese gli scrisse, ad esempio, rifiutando il manoscritto, che molte sue osservazioni assomigliavano più a quelle « di un pubblico ministero durante un'arringa che a quelle di uno storico » ; la Princeton University Press gli fece presente dal canto suo che ormai, a proposito dell'Olocausto, esistevano sul mercato opere « già sufficientemente analitiche in grado per altro di interessare solo pochi specialisti » . Conclude Hilberg che « negli Stati Uniti il fenomeno conosciuto con il nome di Olocausto trovò un terreno fertile solamente dopo i travagli della guerra del Vietnam, allorché una nuova generazione di americani si pose alla ricerca di certezze morali e l'Olocausto divenne la misura del male assoluto sulla quale misurare e giudicare tutte le altre trasgressioni nel comportamento delle nazioni » .
Le considerazioni di Hilberg inducono a riflettere su quel fondamentale criterio che dovrebbe presiedere al giudizio storico, ma di cui mi sembra che per l'ennesima volta quasi tutti abbiano tenuto scarsissimo conto nel dibattito a v v i a t o d a l « Corriere » sul documento della Chiesa circa la sorte dei bambini ebrei affidati a istituzioni o famiglie cattoliche durante la guerra. È il criterio per cui non si può giudicare moralmente e storicamente il passato, anche il più prossimo, con il metro che adottiamo per giudicare il presente. Non solo per l'ovvia ragione che il metro di giudizio cambia moltissimo con il tempo, sicché a noi, per esempio, il fenomeno della schiavitù non può che suscitare oggi sentimenti ben diversi da quelli che suscitava in un abitante dell'antica Roma, ma anche perché il passato stesso e la sua immagine sono a loro volta una costruzione storica, qualcosa che non si costituisce immediatamente una volta per tutte ma si forma e si trasforma con il tempo.
Come ci ricorda Hilberg ciò è valso anche per l'Olocausto il quale, se così può dirsi, ha cominciato a esistere solo dagli anni 60 in avanti, avendo l'effetto ovvio di modificare a partire da quegli anni anche il nostro criterio per stabilire ciò che è antisemitismo e insieme di rendere assolutamente obbligatoria la sua condanna.
Proprio per ciò trasporre nel passato tale criterio e scandalizzarsi per la mancata ripulsa settanta o ottanta anni fa da parte di uomini e organizzazioni di ciò che oggi definiamo antisemitismo costituisce una grave, indebita forzatura.
Ciò non significa rifiutarsi di dare un giudizio: bensì darlo a ragion veduta, tenuto conto cioè delle circostanze e dei tempi. Non c'è dubbio, per esempio, che alla sensibilità odierna il documento di cui sopra appaia orribile allorché stabilisce la politica di non restituzione immediata al loro ambiente, da parte delle famiglie e della Chiesa cattolica, di bambini di origine ebraica, sia pur battezzati, in loro custodia.
Di fronte al nostro sentimento morale odierno ( insisto: odierno) appare assurdo in una tale circostanza disquisire di diritto canonico, di forza sacramentale del battesimo o di tradizione della Chiesa: che cosa conta tutto ciò paragonato alla disumanità della persecuzione che è all'origine della questione? Tanto più ci rafforza in tale sentire una certa qual cattiva coscienza che ci sembra scorgere negli stessi estensori del documento quando scrivono al primo punto della disposizione: « Evitare nella misura del possibile di rispondere per iscritto alle autorità giudaiche ma farlo oralmente » . Perché non bisognava rispondere per iscritto? Forse per poter sempre dire di essere stati fraintesi? Per non lasciare prove e poter magari negare domani ciò che si era affermato oggi? Da qui però a considerare rei di antisemitismo Pio XII e la sua Chiesa, come molti sono tentati di fare, ce ne corre a mio parere moltissimo: e precisamente ci corre il debito conto in cui bisogna tenere le circostanze e i tempi dei fatti. Altrimenti può diventare antisemita anche una Natalia Ginzburg che per conto di Einaudi rifiuta la pubblicazione di Se questo è un uomo di Primo Levi giudicandola opera di scarso valore e interesse; diventa antisemita anche Benedetto Croce che nell'immediato dopoguerra invitava gli ebrei ad abbandonare quella loro separatezza che a suo dire aveva attirato su di loro tanti guai; diventa antisemita, e dunque complice oggettivo di Hitler, perfino, chi aveva affrontato la guerra per sconfiggere l'Asse. Mi riferisco per esempio alla Bbc, sì la mitica Radio Londra, la quale, né più né meno come il Foreign Office che non dava alcun credito alle fonti ebraiche, di Olocausto durante la guerra non parlò mai e una circolare del cui direttore generale, Robert Foot, recitava testualmente così nel 1943: « Antisemitismo — la nostra politica. Non promuoveremo né accetteremo alcuna forma di propaganda ( dibattiti, interviste, servizi) con l'obiettivo di correggere l'indubbio antisemitismo largamente diffuso nel nostro Paese. Ci limiteremo a segnalare, quando si verificano, notizie di persecuzioni. Siamo convinti che questo sia nell'interesse degli ebrei. Ogni altra politica alimenterebbe i sentimenti antiebraici » ( vedi la « Stampa » , 23 agosto del 1993: si noti la somiglianza di un tale punto di vista con quello prevalente in Vaticano).
Il punto decisivo è che quando le case editrici americane opponevano i rifiuti che opponevano, quando Natalia Ginzburg o Benedetto Croce prendevano le posizioni che prendevano, quando la Bbc ammantava di presunta neutralità il suo silenzio, quando il medesimo silenzio era adottato dall'amministrazione Roosevelt e da tutta la stampa americana così come quando Pio XII e la Chiesa si muovevano circa la persecuzione antiebraica con il freddo distacco che sappiamo, attenendosi rigidamente solo alle proprie regole, quando tutto ciò accadeva, l'Olocausto, sebbene in corso o da poco trascorso, in realtà non esisteva ancora affatto e per esistere avrebbe dovuto aspettare ancora svariati anni. Dunque non solo non ha senso ravvisare oggi in tutti i protagonisti suddetti una qualche « complicità » nello sterminio, ma è ugualmente infondato definire con il termine per noi oggi obbrobrioso di antisemitismo atteggiamenti che invece sono stati solo di indifferenza, antipatia, repulsa storico- religiosa, diffidenza sociale. Tutte cose che anche allora avranno potuto essere, anzi sicuramente erano, riprovevoli quanto si vuole ma che comunque appartengono a un ordine che non ha nulla, ma proprio nulla, a che fare con le camere a gas. E che perciò vanno tenute storicamente distinte.
Bisogna insomma capire, anche quando si parla di Pio XII e della politica della Chiesa, che l'Olocausto e la sua successiva concettualizzazione, risalente a non prima degli anni 60, hanno posto l'antisemitismo, almeno qui in Occidente, su basi interamente nuove. Ne hanno fatto cioè un dato storico totalmente diverso che in passato, rendendolo, innanzitutto sul piano emotivo, qualcosa di ripugnante e impraticabile in ogni sua sia pur minima, e anche remota e solo supposta, premessa. Partire però da queste nuove basi attuali per giudicare fatti e uomini del passato è — quando non interessata speculazione ideologica, come sono convinto sia il caso di Goldhagen, vittima di un forsennato anticattolicesimo di principio — un puro moralismo privo di ogni verità.
Proprio per effetto dell'Olocausto, per altro, hanno acquistato importanza centrale nella nostra cultura due elementi in particolare che ci fanno vedere oggi le cose in modo molto diverso da un tempo e tendono a essere proiettati inconsapevolmente anche all'indietro nel nostro giudizio sul passato. Due elementi che a mio giudizio sono implicati in modo massiccio e diretto nella recente polemica sul destino dei bambini ebrei affidati alla Chiesa.
Il primo è quello della identità. Il genocidio antisemita, rappresentando una sorta di ineguagliato culmine simbolico della catena che ha caratterizzato il XX secolo ( armeni, zingari, omosessuali e poi ancora ceceni, tibetani, abitanti dell'ex Jugoslavia e così via) ha prodotto per reazione nella nostra cultura una forte valorizzazione positiva della dimensione rappresentata dall'identità collettiva. Come è ovvio, ciò è accaduto innanzitutto per l'identità ebraica: mentre fino alla seconda guerra mondiale l'allentamento dei legami identitari e comunitari nonché l'integrazione nelle società « cristiane » erano per lo più percepiti dallo stesso ebraismo, tranne che dagli ambienti osservanti, come un fenomeno neutro o positivo, comunque in buona parte inevitabile, dopo il 1945 viceversa quei fenomeni hanno cominciato a essere considerati come profondamente negativi.
Questo atteggiamento oggi si è generalizzato ed è in buona parte divenuto comune a tutto il nostro modo di pensare, portato almeno idealmente a deprecare qualunque cosa attenti alle radici, alla cultura, agli usi, alle tradizioni di ogni tipo e all'autocoscienza di una collettività. Per noi che tra l'altro viviamo in pieno la crisi dell'idea universalistica di progresso, ciò che è particolare appare migliore e più degno di tutela di ciò che è generale e che si presenta sotto il grigio aspetto dell'omologazione. È più che spiegabile allora l'emozione immediata e scandalizzata che suscita l'idea che dei bambini possano essere sottratti al loro ambiente identitario, alle loro radici e immessi, addirittura forzatamente, in un altro.
Tanto più che nella vicenda in questione l'elemento dell'identità fa corpo con la seconda dimensione di cui dicevo sopra, portata anch'essa in una luce nuova e particolarmente intensa dalle vicende dell'Olocausto. Si tratta di quella centralità della figura della vittima in genere che ha preso per l'appunto le mosse dalla Shoah e che oggi tende ad affermarsi in ogni nostra riflessione non solo sui conflitti ma in generale su tutti quei fatti storico- sociali che hanno avuto o hanno per protagonisti dei gruppi sociali deboli. Il destino delle minoranze e dei marginalizzati in genere, dei perseguitati, per esempio delle popolazioni indigene nelle aree della colonizzazione, delle donne, ovvero l'attenzione per figure come quella del prigioniero, del portatore di handicap, del morente hanno conquistato uno spazio via via crescente nella nostra sensibilità e nella nostra cultura, alimentando e confluendo in quell'indirizzo genericamente umanitario che è tra i più tipici e potenti del nostro panorama attuale. Indirizzo che, come il precedente riguardante l'identità, tende a essere più o meno consapevolmente applicato anche al passato, con l'effetto di modificarne in modo significativo la nostra visione ( si pensi a come oggi ci colpisce la sorte, prima neppure considerata, delle popolazioni tedesche oggetto dei bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale) ma anche con il pericolo di applicare criteri di oggi a fatti di ieri, di decontestualizzare eventi e protagonisti, di trasformare il giudizio storico in un moralismo fuori dal tempo. Così come, mi pare, accada regolarmente ogni volta che viene riaperta la pagina complessa e drammatica del rapporto della Chiesa con i totalitarismi del secolo passato.

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