Gli inesistenti inganni di Sharon e la nostalgia per Arafat di un politologo libanese
sul quotidiano della Margherita
Testata: Europa
Data: 07/01/2005
Pagina: 3
Autore: Imma Vitelli - Filippo Cicognani
Titolo: Alla Palestina non basta un nuovo leader
Imma Vitelli, in un articolo pubblicato a pagina 3 da EUROPA del 7 gennaio 2005, "Alla Palestina non basta un nuovo leader" raccoglie in Libano voci scettiche sulla possibilità che la probabile elezione di Abu Mazen rappresenti una svolta verso la soluzione del conflitto israelo-palestinese.
Se le considerazioni del giornalista Rami Khouri, che indica la necessità di una maggiore chiarezza di Abu Mazen circa la sua disponibilità al compromesso con Israele, appaiono ragionevoli, quelle del politologo Michael Young, secondo il quale "la retorica del "si volta pagina" imperante sui giornali occidentali è semplice da spiegare" perché questi "dopo averci detto che era Arafat a rendere la pace impossibile, tolto di mezzo lui devono dimostrarci che era effettivamente così" appaiono infondate (quali giornali occidentali hanno spiegato che Arafat era un ostacolo alla pace? Ben pochi) e pervase da un mal riposto "rimpianto" per il raìs.
Aver accomunato considerazioni di così diverso tenore, senza distinguerle chiaramente, come fossero parti di un unico ragionamento, rende l'articolo una fonte di confusione.
Ecco il testo:

Tanto ottimismo per niente. Mahmoud Abbas, il leader dell’Olp che alle elezioni di domenica in Palestina erediterà il ruolo che fu di Yasser Arafat, non ha la visione, né il coraggio di saltare il fosso e affrontare a viso aperto le spinose questioni che affardellano da decenni il conflitto israelo-palestinese. Viste da Beirut, le presidenziali nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania non saranno "la svolta" auspicata a Gerusalemme e a Washington, l’evento chiave capace di far ripartire un credibile processo di pace. Ramallah, nel 2005, continuerà ad essere oscurata da altri, più caldi, fronti mediorientali, come Bagdad e Teheran.
Per diversi motivi. Il più importante lo enuncia Rami Khouri, il direttore del quotidiano Daily Star: «Mahmoud Abbas sta ripetendo gli stessi errori che hanno piagato la leadership del suo popolo negli ultimi decenni. Non è capace di defi- nire un programma chiaro e onesto, un compromesso che riconcili le diverse forze attive nella società palestinese. Se fosse eletto, come è probabile, a giudicare dalle cose che ha detto e fatto in campagna elettorale, ci aspettano ancora anni e anni di conflitto e sofferenze».
Ad Abbas, alias Abu Mazen, Khouri rimprovera le stesse debolezze politiche e intellettuali comuni alla sua generazione di nazionalisti palestinesi cresciuta in esilio e tornata nei territori con il processo di pace firmato a Oslo. Gli rimprovera, soprattutto, di dire cose contraddittorie sulle questioni più importanti, in un momento storico in cui sarebbero necessari lacrime e sangue. Nell’ultima settimana, tra un comizio e l’altro, ha promesso ai profughi il diritto al ritorno nelle terre che fanno parte di Israele, pur sapendo che esso è il macigno su cui si incagliano da anni i negoziati; ha anche concesso ai militanti il diritto a tenersi le armi pur sapendo che ciò è inconciliabile con la sua condanna dell’intifada e con la convinzione, da egli espressa in più occasioni, che la strada per la liberazione e l’indipendenza passa per una lotta non violenta.
«Abu Mazen sta replicando lo stesso ambiguo paesaggio diplomatico occupato da Arafat per così tanto tempo, fatto di promesse di negoziati agli israeliani da una parte, e di giuramenti di resistenza eterna al nemico sionista e di un ritorno a casa alla sua gente dall’altra. È crudele che ciò avvenga nel momento di rinascita democratica dei palestinesi, in un momento in cui si meriterebbero una vera leadership, che dica la verità e chieda sacrifici per ottenere risultati tangibili ».
A detta del direttore del Daily Star, il nuovo inquilino della Muqata dovrebbe rispondere alle seguenti domande, da troppo tempo inevase: «Lo stato ebraico è il nemico sionista con cui fare la guerra, o un vicino con cui fare la pace? Gli Stati Uniti sono un partner diplomatico o un nemico? I governi e i popoli arabi sono delle risorse da mobilitare nella battaglia per uno stato palestinese, o sono ostacoli da evitare? I profughi dovranno continuare a vivere miserabilmente in campi sparsi per la regione a tempo indefinito o è giunta l’ora di mettere sulla carta un compresso, duro, che sfidi anche gli israeliani, ma che alla fine sia accettabile per tutti?».
Fino a quando non ci sarà un leader capace di rispondere e argomentare e convincere il suo popolo e agire di conseguenza, a detta di Khouri la pace sarà solo una meteora.
Non è più ottimista Michael Young, un altro politologo libanese sentito da Europa, secondo il quale la retorica del "si volta pagina" imperante sui giornali occidentali è semplice da spiegare: «Dopo averci detto che era Arafat a rendere la pace impossibile, tolto di mezzo lui devono dimostrarci che era effettivamente così».
Il punto, spiega Young, è che nonostante ai palestinesi abbia «giovato» la dipartita del vecchio raìs, la sua morte non ha alterato la realtà sul campo.
Un esempio? «Tony Blair, l’unico che sembra aver davvero preso a cuore la situazione, sta preparando una conferenza a Londra, forse a marzo.
E gli israeliani che fanno? La boicottano».
Anche gli americani hanno mostrato poco entusiasmo. «Senta, non conosco una singola amministrazione, né un segretario di stato che voglia cominciare il proprio lavoro impelagandosi in una crisi che ha meno del 50 per cento di chance di successo». Il ritiro da Gaza potrebbe essere un successo. «Adesso le disegno il migliore degli scenari possibili. Il nuovo governo israeliano si ritirerà unilateralmente da Gaza e da altri piccoli insediamenti in Cisgiordania. Abbas impiegherà mesi a consolidare la sua autorità, potrebbe fallire, e in ogni caso non avrà mai il margine di manovra che aveva Arafat.
Ariel Sharon (il premier israeliano, ndr) non gli darà veramente una mano fino a quando non sarà sicuro che può controllare le fazioni armate, evento che potrebbe non accadere mai. Gli unici che potrebbero cambiare questa dinamica sono gli americani. Ma Washington in questo momento ha altre priorità: l’Iraq e l’Iran».
Filippo Cicognani, nella colonna "Nuove speranze per la Road Map post-elettorale", scrive invece che si può sperare in una svolta positiva in Medio Oriente "purché Sharon, quando dice che il 2005 sarà l’anno della svolta, non trami qualche nuovo inganno".
Quali sarebbero stati, secondo Cicognani, i precedenti "inganni" di Sharon, che giustificherebbero ora questa diffidenza?
In realtà tali "inganni" non hanno mai avuto luogo, per cui la frase di Cicognani è una grave scorrettezza.
Ecco l'articolo:

Da una parte come dall’altra la gente logorata dal sangue e dalla violenza guarda al futuro con cauta speranza, anche se negli ultimi trent’anni del conflitto israelo-palestinese le illusioni non sono mancate.
In Israele si allontana lo spettro di elezioni anticipate: il governo di unità nazionale non dovrebbe aver più problemi alla Knesset. Il partito ultraortodosso Unità e Giudaismo Unito della Torà, dopo vari tentennamenti, ha deciso di entrare nell’esecutivo Likud-Laburisti, anche se per un periodo di prova di tre mesi. L’aggiunta dei cinque deputati del Gut alla coalizione, consentirà a Sharon – che aveva minacciato il voto anticipato – un più ampio margine di manovra in parlamento.
Sul fronte palestinese Abu Mazen, sicuro vincitore delle elezioni di dopodomani, rappresenta l’ultima concreta possibilità di una svolta, anche se resta da vedere in quanti andranno a votare – visto che Hamas sollecita il boicottaggio delle urne – e quale sarà il margine di consensi che lo porterà sulla poltrona di Arafat. Solo tre giorni fa, in un comizio a Kan Yunis nella Striscia di Gaza, poco dopo che una cannonata partita da un carro armato israeliano aveva ucciso sette palestinesi, aveva parlato di Israele come del «nemico sionista», innervosendo non poco gli avversari. Ma ieri, avviandosi a chiudere la campagna elettorale, Abu Mazen ha promesso che in caso di vittoria si batterà per far ripartire il processo di pace con Israele :«Dopo le elezioni e la formazione del nuovo governo – ha detto – negozieremo con gli israeliani» ed ha aggiunto: «Noi siamo per l’intifada, ma siamo contro l’uso delle armi nell’intifada».
Speranza, dunque, purché Sharon, quando dice che il 2005 sarà l’anno della svolta, non trami qualche nuovo inganno, e purché Abu Mazen, il mediatore, riesca davvero a far tutto il contrario di quel che Arafat ha fatto in questi ultimi anni, mescolando passioni e realpolitik. La ripresa del dialogo, dopo quattro anni di sangue, è possibile: almeno una tregua può essere a portata di mano, anche se una pace vera è ancora lontana.
Questo chiede la gente stremata e disillusa, troppo spesso in balia dei veleni fondamentalisti che inquinano i due fronti.
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