Il gran muftì di Gerusalemme Haji Amin Ali al Husayni, zio di Yasser Arafat, negli anni trenta sognava lo sterminio degli ebrei
un retroscena storico in un articolo di Dimitri Buffa
Testata: L'Opinione
Data: 05/01/2005
Pagina: 5
Autore: Dimitri Buffa
Titolo: Sterminare gli ebrei? Una vocazione per gli Arafat
Un interessante articolo di Dimitri Buffa tratto da L'OPINIONE di mercoledì 5 gennaio 2005
Lo stato d’Israele era ben
al di là da venire ma i
despoti palestinesi già
possedevano una rodata fede
anti-semita che li metteva in
sintonia con i nazisti e
anche con i fascisti
nostrani. Dopo la
nascita di Israele i
medesimi estimatori
del nazi-fascismo
sarebbero passati in
massa sotto la protezione
sovietica andandosi
anche a fare la
scuola di partito a
Mosca. Un totalitarismo
aveva sostituito
l’altro. Caduto anche
quello nell’epoca del
post Muro di Berlino,
infine, ci si sarebbe
inventato l’slam naziestremista
e anti semita
di Osama dei giorni
nostri. Arafat nei propri
improvvisati sermoni
politici in arabo, sempre
più allucinanti man
mano che la malattia se
lo stava portando via,
evocava la marcia del
milione di martiri su Gerusalemme.
Una marcia di sterminio
contro gli israeliani.
Anche suo zio, che era il gran
muftì di Gerusalemme negli
anni ‘30 del secolo passato,
Haji Amin Ali al Husayni
sognava lo sterminio degli
ebrei. Contando sull’aiuto
interessato di nazisti e fascisti.
Gli ebrei erano solo un "focolaio"
autorizzato a esistere
nella ex provincia ottomana
della Palestina, ma lo zio di
Arafat voleva fare avvelenare
le falde acquifere di Tel Aviv.
E chiedeva aiuto a Mussolini
promettendo di fomentare la
rivolta contro gli inglesi in un
periodo che va dal 1933 al
1936, cioè immediatamente
precedente a una seconda guerra
mondiale che era nell’aria e
che tutti potevano percepire.
Esattamente come gli animali
avvertono fenomeni catastrofici
della natura come il famigerato
tsunami.
Dei tentativi del gran Muftì di
farsi finanziare il terrorismo
dell’epoca da fascisti e nazisti,
delle trattative intercorse e del
loro fallimento dopo anni di
tira e molla parla un saggio di
Stefano Fabei su "Studi piacentini".
Il muftì aspirante
genocida era zio per parte di
padre del defunto Yassir Arafat,
nato al Cairo ma mandato
a vivere proprio a Gerusalemme
all’età di sei anni. Al
Husayni voleva convincere
Mussolini. E per quasi tutta la
seconda metà degli anni Trenta
il progetto su cui puntava in
segreto era terribile e già denotava
quella volontà anti ebraica
di tanti settori della vita politica
araba che non a caso andavano
d’accordo con nazisti e
fascisti: si trattava di avvelenare
l’acquedotto di Tel Aviv.
Mussolini sebbene avesse interessi
nazionali a fomentare la
rivolta arabo palestinese in
Medio Oriente, nei fatti si
guardò bene dal fornire ad al
Husayni i soldi e le armi che
sarebbero servite allo scopo. E che lui gli chiedeva insistentemente,
fino a "mettere
in dubbio che gli italiani
fossero così amici degli
arabi come proclamavano".
Soldi sottobanco, circa 140
mila sterline dell’epoca e
armi però vennero fatti pervenire.
Ma da soli quei
mezzi non erano sufficienti
né a fomentare una rivolta
contro la guarnigione inglese
né a mettere su un’organizzazione
terrorista capace
di portare a termine quelle
intenzioni genocide.
Ieri come oggi i palestinesi
contavano troppo sulla solidarietà
della umma arabo
islamica: a "tradire" lo zio
di Arafat fu proprio il vecchio
re dei sauditi, Ibn al
Saud. Che si guardò bene
dal mettere a disposizione i
propri soldi e le
proprie istituzioni
per le
n e c e s s a r i e
triangolazioni
per le armi e il
denaro. Mussolini
infatti, con il
machiavellismo
che lo ha
sempre distinto,
pretendeva di
salvare la faccia.
E di non comparire
apertamente,
almeno a
livello ufficiale, nell’appoggio a quella
ribellione che nei quaderni
piacentini viene chiamata
"la prima intifada palestinese".
In realtà le potenze dell’asse
volevano fomentare una
rivolta anti britannica. In
quel momento però nessuno
voleva sporcarsi troppo
le mani, cosa che invece i
rais arabi dell’epoca ritenevano
indispensabile per
proseguire la lotta contro le
guarnigioni britanniche.
Le riunioni per le trattative
diplomatiche sono una storia
a sé e furono affidate a
un uomo di grande cultura,
islamica e non: lo psichiatra
Carlo Alberto Enderle,
nome islamico Ali Ibn Jafer,
un rumeno naturalizzato
italiano e di genitori musulmani.
Il ministro degli esteri
era Galeazzo Ciano. Cosa
si aspettavano gli uomini di
Al Husayni?
75 mila sterline dell’epoca
ogni anno e inoltre armi,
munizioni e agenti per l’addestramento
alla guerriglia.
Praticamente un vero e proprio
programma di armamento
che poteva farli
diventare una potenza locale.
Il regime fascista da
parte sua non intendeva
finanziare direttamente e
pretendeva che fosse il re
Saud ad acquistare armi in
Italia perché con il ricavato
si potesse pagare indirettamente
la rivolta e il terrorismo.
Le trattative erano andate
avanti dal 1933 al 1939 e un
bel giorno si interruppero
definitivamente
con un nulla
di fatto. Perché
il fallimento?
Probabilmente
né il Duce né
Hitler vedevano
di buon
occhio una
potenza araba
armata all’europea,
capace di
atti terroristici
micidiali. Un
giorno si sarebbe
potuta rivelare
la classica
serpe in seno. Il gran Muftì da parte sua alla
fine si accontentò di quelle 140
mila sterline di assaggio che il
Duce era riuscito a fargli avere
sottobanco. Come Arafat preferì
l’arricchimento
personale alla causa
palestinese che doveva
essere portata avanti
anche con la politica e
non solo seminando
morte. Il progetto di
avvelenare l’acquedotto
di Tel Aviv aveva
ricevuto l’approvazione
formale di Mussolini,
ma la condizione
per fare decollare economicamente
questi
progetti era che i feddayn
palestinesi del
gran Muftì ricevessero
ben altri finanziamenti
e soprattutto armi leggere
e pesanti. Il fascismo,
probabilmente
fece il gioco delle parti
con il regime saudita,
usando lo spauracchio
della rivolta araba
come arma di pressione
sugli inglesi, ma
senza spingere mai sull’acceleratore.
Il 30 marzo 1938
l’ambasciatore italiano comunicò
al vice di al Husayni,
Mahmud al Alami, l’intenzione
dell’Italia di interrompere
ogni ulteriore finanziamento.
Al Husayni dovette constatare
che tutto era abortito per il voltafaccia
del re saudita. Che un
anno prima, si era rifiutato di
fare passare da Ryad le armi e
le munizioni, nonchè i soldi
che gli italiani avevano accumulato.
Nella primavera del
1938 tutte quelle armi erano
ancora chiuse nelle casse di
alcune navi che stavano nel
porto di Taranto. Un dato storico
raccapricciante di tutta la
cosa è come lo zio di Arafat
avesse cercato di vendere bene
il proprio prodotto di sterminio
a Roma e a Berlino. Ad esempio
affermò letteralmente nei
colloqui diplomatici che la formazione
di un enclave ebraico,
"o peggio di uno stato", sotto
il mandato e la protezione britanniche,
sarebbero stati una
"jattura per tutta l’Europa". E
i toni anti-semiti sorpresero
non pochi interlocutori. Che in
ogni caso non amavano di
certo gli ebrei in quanto tali. Il
7 di luglio 1937 la Commissione
reale italiana aveva pubblicato
un documento in cui si
spiegavano i pericoli che potevano
giungere per l’Italia dell’epoca
dalla creazione di uno
stato ebraico come era nei progetti
inglesi fin dalla dichiarazione
di Balfour nel 1917.
Cosa insegna questo aneddoto
tratto dal saggio di Stefano
Fabei? La morale è duplice: da
una parte il progetto di tanti
arabi di sterminare gli ebrei
presenti nella zona del Medio
Oriente, che oggi contiene
anche lo stato d’Israele ma
all’epoca no, data a molto
tempo prima della dichiarazione
di nascita di suddetto stato;
dall’altra l’appoggio arabo alla
causa palestinese è sempre
stato, ieri come oggi, più teorico
che pratico.
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de L'Opinione. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.
diaconale@opinione.it