L'ambigua campagna elettorale di Abu Mazen
un reportage di Fiamma Nirenstein e un'analisi , a una settimana dal voto
Testata:
Data: 04/01/2005
Pagina: 12
Autore: Fiamma Nirenstein - un giornalista
Titolo: Proclami e sorrisi. Gli ambigui comizi del nuovo Arafat - Israele apre Gerusalemme est ad Abu mazen, con dubbi
LA STAMPA di martedì 4 gennaio 2005 pubblica un reportage di Fiamma Nirenstein sulle imminenti elezioni palestinesi e sulla campagna elettorale del candidato favoritodai pronostici: Abu Mazen.
Ecco l'articolo, "Proclami e sorrisi. Gli ambigui comizi del nuovo Arafat":

Mussa Shaer è terribilmente occupato in questi giorni. Con lui arriviamo di corsa da Ramallah a Betlemme, sua città natale, nell’ufficio che gli serve da base per la campagna elettorale di Abu Mazen. E’ lui il capo della propaganda in tutta la zona di Betlemme. E’ molto seccato quando entriamo nel suo studio perchè il suo elegante vestito si è inzuppato di petrolio quando in visita alla piazza della Mangiatoia,è scivolato sul pavimento appena lavato dopo Natale. Risponde annusandosi e chiedendosi ora dove farà una doccia, è sulla quarantina, giornalista, ci comunica lo slogan centrale chiedendo professionalmente «che gliene pare?»: mandato in onda per radio con la voce del protagonista e pubblicato sui giornali dice così: «Eguaglianza, giustizia, riforma». Mussa ha uno stile un po’ moroteo, ripete concetti come «rinnovamento nella continuità», «pace nella rivoluzione», «trattative nella difesa di qualsiasi gruppo appartenga alla comunità palestinese». Anche terrorista? Terrorista? Chi era costui? Anche per Shaer la parola non esiste ed è qui il nodo, il dilemma, l’elemento veramente dominante nel futuro dei palestinesi una volta che sarà passato il 9 di gennaio, e Abu Mazen sarà eletto.
Ma sarà certamente eletto? «Non c’è nessun dubbio su questo. Abbiamo oggi il 65 per cento, il candidato più vicino è al 22. Con alle spalle Fatah, fino alle Brigate di Al Aqsa, non c’è antagonista che tenga». E non aggiunge quello che invece nel suo studio di Ramallah spiega uno dei migliori intellettuali palestinesi, il sociologo Khalil Shikaki: «Fatah vuol dire tutti i servizi di sicurezza, tutti i posti pubblici, tutti i mezzi di informazione, tutti gli uffici locali e nazionali, tutto il sistema sanitario e scolastico... eccetera».
Anche per lui la vittoria di Abu Mazen è certa, ma il suo significato contiene un’incertezza: «Se avesse avuto contro un Marwan Barghouti con lo slogan della lotta armata come scelta principale, allora non avrebbe dovuto sdoppiarsi, come invece fa adesso. Avrebbe potuto rimanere fedele al suo slogan originale, quello che causò la cacciata dalla carica di primo ministro, e che invece gli ha assicurato il consenso internazionale. Abu Mazen - dice Shikaki - ha detto e ripetuto che la lotta armata (e con questro voleva dire di fatto il terrorismo), la ‘’militarizzazione dell’Intifada’’, per usare le sue parole esatte, è stata di grande danno per la causa palestinese. Sottinteso coraggiosissimo: bisogna finirla. Ed ecco che in questi giorni in mancanza di qualcuno che sostenga posizioni guerrafondaie, si mostra in campagna elettorale con Zakarja Zubeidi, capo delle Brigate armato fino ai denti. Insomma: un leader non ancora consolidato, bisognoso di consenso e di non inimicarsi i gruppi armati sciolti che si aggirano per l’Autonomia, vuole i voti anche di quelli che avrebbero votato per Barghouti, vuole i voti anche di un Hamas molto in ritirata che cerca rifugio all’ombra del Fatah. E così ecco che il leader che tutti si aspettavano desse segnali di accomodamento, invece ritorna alla protezione dei gruppi armati, proprio come Arafat».
«Abu Mazen - dice il giornalista palestinese Khaled Abu Toameh - ripete su profughi, Gerusalemme, terrorismo, gli stessi slogan di Arafat. L’ombra di Arafat è ancora potente». Altro che potente: è così importante che anche ieri a Gaza per la fine del suo giro di campagna elettorale nella zona ha gridato nel microfono che «non accadrà mai che i palestinesi prendano le armi gli uni contro gli altri.. che i nostri militanti sono combattenti per la libertà e devono vivere una vita dignitosa e sicura» (cioè una promessa a Hamas e alle Brigate di Al Aqsa che Israele dovrà smettere di cercarli, e che lui, certo non li cercherà mai). Il giorno prima, a Rafah, sempre a Gaza, fra un continuo tuonare di fucili, dozzine di uomini armati e mascherati delle Brigate di Al Aqsa avevano portato Abu Mazen sulle spalle. E il futuro Raiss, di fronte a una folla che appariva a tratti minacciosa e a tratti entusiasta, (è interessante ricordare che proprio qui Abu Mazen e il suo sodale Mohammed Dahlan erano stati presi a fucilate il giorno dopo la morte di Arafat) ha gettato sul campo la sua scelta di continuità:cContinueremmo la battaglia, ha detto con una formula tipica di Arafat, finchè un ragazzo e una ragazza palestinesi pianteranno la bandiera sulle mura e minareti di Gerusalemme. E anche, al cimitero. «Non dimenticheremo i martiri di Izzadym Kassam (l’organizzazione armata del Hamas ndr)»: gli armati di Fatah gli hanno risposto sparando in aria.
Dunque, come seguitare a sperare che la prossima eventuale elezione di Abu Mazen porti uno spicchio di pace in Medio Oriente? E’ fiducioso il maggiore commentatori israeliano di cose arabe, Ehud Ya’ari: «In realtà Abu Mazen non ha accettato l’imperativo derivante da una diretta richiesta di Arafat - ci dice a Gerusalemme - quello di essere celebrato come l’apoteosi stessa della figura dello shahid. Arafat è ricordato da Abu Mazen e dal suo popolo come grande leader, ma non santificato come martire, come chiedeva lui stesso. Non si è ubbidito agli ordini. La catena si è rotta, e Abu Mazen, resta comunque il più promettente personaggio per la ripresa di una trattativa. E’ l’uomo della fine dell’Intifada, colui che raccoglie il desiderio di normalità del suo popolo, è un politico navigato e robusto che ha dato due slogan potenti: ‘’sovranità della legge, Stato di istituzioni’’. Ha tagliato con la logica della jihad, e quello che dice in questi giorni non è molto importante. E’ importante se può conquistare ciò che Sadat aveva per realizzare la pace: l’esercito e la burocrazia. Questo sì, è tutto da vedere».
Dice un brillante intellettuale palestinese nativo del campo profughi di Deheishe, Nasser Lahham, seduto nella sede della «Bethlehem TV» in mezzo a un gruppo di amici: «Voglio testimoniarle la mia totale mancanza di comprensione degli eventi. E il mio pessimismo. E al contempo la mia speranza. Siamo al bivio fra diventare Bin Laden e Madre Teresa... fra accettare soluzioni che di certo non ci piacciono, o gettare tutti noi stessi nella mischia. No, non mi parli di una via di mezzo. Non mi fido degli israeliani, e del resto non ho influenza su di loro. L’ho solo sul mio destino. Vorrei insegnare a mio figlio la pace, ma non mi fido, non ci credo, non ci sto, non voglio...Però voglio. Se voterò Abu Mazen? Se lo voterò per cercare la pace? Certo, e che altro?».
In prima pagina IL FOGLIO pubblica un'analisi sulla -"vera natura del capo dell'Olp",intitolata "Israele apre Gerusalemme est ad Abu mazen, con dubbi" che riportiamo:
Gerusalemme. Israele ha deciso di dare la possibilità ad Abu Mazen di fare campagna elettorale a Gerusalemme est in vista delle elezioni del 9 gennaio. L’ufficio dell’attuale leader dell’Olp fa presente al Foglio che questo non è un diritto concesso in modo specifico ad Abu Mazen: altri due candidati alle elezioni hanno ricevuto il permesso di entrare nel quartiere orientale della capitale. I militanti di Fatah stanno preparando la visita per la prossima settimana, ma non è chiaro se nell’itinerario sarà inclusa anche la Spianata delle Moschee: se ciò avvenisse, non si sa che tipo di reazione potrebbe avere il governo di Ariel Sharon. Intanto Abu Ala, primo ministro palestinese, ha duramente criticato Abu Mazen, che ha accettato l’invito di Tony Blair a partecipare alla conferenza di Londra, nella quale il governo israeliano non sarà presente: "Non abbiamo bisogno di andare a Cambridge o a Oxford per prendere lezioni di pace", ha detto Abu Ala al giornale egiziano al Sharq al Awsat. L’opinione pubblica israeliana si sta dividendo sull’appoggio ad Abu Mazen nelle prossime elezioni. Appena dopo la morte di Arafat, si era diffuso un certo ottimismo sul futuro delle relazioni con i palestinesi: sembrava il momento giusto da cogliere per poter parlare nuovamente di pace. Abu Mazen è un uomo fine ed elegante – un "gentleman" rispetto al rais, noto per le sue maniere poco raffinate – le sue guardie del corpo e i suoi consiglieri non ricordano minimamente gli uomini armati che circondavano Arafat. Il leader dell’Olp ha più volte definito "un grave errore" i quattro anni di Intifada e questa affermazione aveva persuaso lo Stato ebraico che Abu Mazen fosse il suo futuro partner politico, l’uomo che avrebbe dato ai palestinesi uno Stato disposto a vivere in pace di fianco a Israele. Ma la recente visita di Abu Mazen al leader delle Brigate di al Aqsa a Jenin e la registrazione, trasmessa dal canale israeliano Arutz 10, in cui sosteneva che il gruppo armato legato ad al Fatah non è né una banda di killer né una banda di criminali, ma un’organizzazione di combattenti che lottano per la libertà della nazione, creano dubbi in Israele sulla vera natura di Abu Mazen. Gli israeliani hanno paura di illudersi, di commettere l’errore fatto ai tempi degli accordi di Oslo, di lasciarsi trasportare dall’euforia, senza rendersi conto che, dall’altra parte, potrebbe non esserci la stessa intenzione a migliorare la situazione. In queste settimane la stampa di Gerusalemme continua a porsi un interrogativo: quante speranze ha Israele di vincere la
scommessa della pace? Un recente editoriale, pubblicato sul quotidiano Haaretz, si chiedeva quale fosse il "vero" Abu Mazen: quello che chiede la fine della lotta armata contro Israele o quello che, a gran voce, dichiara di non rinunciare al diritto del ritorno dei profughi nello Stato ebraico? Più volte, invece di usare la tradizionale formula "haqq al awda" (diritto del ritorno), Abu Mazen ha parlato di "haqq al lajeen" (diritto dei profughi), senza menzionare la parola "ritorno". Molti in Israele hanno pensato che questo cambiamento dialettico significasse anche una nuova impostazione politica della leadership palestinese. Adesso, però, gli israeliani iniziano a essere meno ottimisti e temono che Abu Mazen continui sulla stessa linea adottata da Arafat. I più scettici evidenziano che il leader dell’Olp ha
fatto riferimento al ritorno "di tutti i cinque milioni e 400 mila profughi"; altri, per lo più legati alla sinistra israeliana, credono che siano soltanto slogan elettorali. I sermoni nelle moschee, che all’inizio di dicembre parlavano di buon vicinato, sono ora ricaduti nella vecchia retorica antisionista. Abu Mazen è considerato dalla comunità internazionale l’uomo della svolta, ma Israele si chiede se riuscirà a fermare il terrorismo e se vuole veramente farlo. Per riconquistare i cuori degli israeliani, Abu Mazen
dev’essere disposto a smantellare la rete terroristica all’interno di al Fatah e a cancellare l’ideologia di un solo Stato, quello palestinese, per un solo popolo. La domanda, a pochi giorni dal voto, è se Abu Mazen, dopo aver vinto le elezioni, sarà un partner o una nuova, vecchia copia di Arafat. Israele oggi non sa ancora dare una risposta.
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa e Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.
lettere@lastampa.it ; lettere@ilfoglio.it