Ettore Mo vedovo di Arafat. Un reportage sulla barriera difensiva: un altro passo nella disinformazione
la critica di Federico Steinhaus
Testata: Corriere della Sera
Data: 03/01/2005
Pagina: 36
Autore: Ettore Mo
Titolo: Le mille voci del muro
Ettore Mo è un inviato speciale, che nei lunghi anni della sua carriera ha descritto con stile coinvolgente e piacevole molte vicende, alle quali ha saputo spesso dare anche uno spessore culturale che una semplice cronaca non avrebbe potuto offrire al lettore.
Ma a tutti capita di sbagliare, di fare un tonfo nella disinformazione; e più è in alto chi cade, più forte è il danno che fa.
A Mo è capitato, e questa sua full immersion nella banalità dei luoghi comuni e della parziale o addirittura assente informazione non fornisce un buon viatico alla nuova direzione del Corriere, nuovamente affidata da pochi giorni a Paolo Mieli.
La soglia della disinformazione viene varcata immediatamente, fin dal titolo e dall’ occhiello esplicativo che lo sovrasta: le "mille voci" sono poche, e provengono da un solo lato del "Muro", che muro non è. "Tra le persone che vivono lungo la cortina di cemento che a fine anno sarà lunga oltre seicento chilometri" è un rafforzamento della menzogna: Mo non ci riferisce stando "tra le persone" ma stando "tra i palestinesi", e la "cortina di cemento" è il solito camuffamento della verità al quale ci siamo purtroppo dovuti abituare: la separazione è solamente in minima parte un muro di cemento, ed in minima parte lo sarà dopo il completamento, altro che 600 chilometri di cemento!
Seguono, a questi inganni espliciti consistenti nel rappresentare le cose diversamente da come sono, altri inganni, che rimangono impliciti e nascosti, e si tratta di inganni del non dire, o del dire solo in parte (quella parte che fa comodo) come stiano le cose in realtà.
Segnaliamo solamente un paio di questi trucchi da prestigiatore di terz’ordine, indegni di un giornalista che voglia mantenere la propria credibilità ed autorevolezza acquisite nel corso di decenni.
Mo menziona più volte che il "Muro" ha realmente fatto diminuire il numero degli attentati commessi dai palestinesi contro i civili israeliani, ma neppure una volta ne fornisce le cifre che più di qualunque argomentazione bastano da sole a giustificare l’ esistenza di questa barriera difensiva: numero di attentati dimezzato, qualità e tipologia degli attentati cambiate da stragi di massa a singole uccisioni con armi da fuoco o coltelli, grande quantità di attentati sventati, numero di vittime diminuito ad un terzo rispetto agli anni precedenti la costruzione della barriera.E, se proprio vogliamo rincarare la dose, diciamo anche che l’ esercito israeliano non ha più avuto necessità di occupare città e villaggi per stroncare nel loro nido le attività del terrorismo, e non sono più state necessarie le battaglie urbane che sono costate molte vittime anche alla popolazione palestinese.
Mo cita poi l’ aumento drammatico del livello della povertà fra la popolazione palestinese, dal 22% del 2000 all’88% di oggi, ma ne attribuisce la responsabilità al "Muro" che rinchiuderebbe i palestinesi in una "prigione". Mo tace sul fatto che nel 2000 l’ intifada non era cominciata, non vi erano ancora attentati e stragi come strategia elaborata a livello politico, e che questo terribile impoverimento ha colpito "anche" gli israeliani. Mo, in altri termini, attribuisce a chi non ne ha colpe la povertà che attanaglia la popolazione palestinese (ed israeliana), e di conseguenza ne assolve i veri colpevoli.E, ugualmente, Mo tenta di sfuggire alla contraddizione che dimostrerebbe la sua mala fede: quando afferma che il "Muro" è stato costruito solo per un terzo, e che la povertà è aumentata in tutti i territori palestinesi, egli in realtà smentisce sé stesso.
Mo seleziona accuratamente le persone che vuole far parlare in questo suo racconto, e sembra quasi che selezioni a priori anche quanto diranno. La contrapposizione natalizia fra i presidi di pace affidati alla Chiesa cattolica, il molte volte ripetuto concetto di "prigione" in cui Israele avrebbe relegato i palestinesi (una prigione con un solo muro e tre lati liberi), il raffronto col Muro di Berlino che Mo riesuma dai magazzini dei robivecchi, non sono che alcune delle citazioni che si possono fare.
Ma due sono i raffronti che più offendono, in queste due pagine fitte di veleno, e sono entrambi richiami religiosi: il primo,quello iniziale, che definisce la barriera di separazione il "muro del pianto" dei palestinesi con la sola differenza che gli ebrei secondo Mo si inginocchierebbero dinanzi al "loro" muro per pregare e baciarlo (ma quando mai gli ebrei si inginocchiano? E’ questa l’ accuratezza e la profondità culturale di questo venditore di parole?) mentre i palestinesi "stanno diritti in segno di protesta" e l’ altro, che poco dopo afferma con imperturbabile faccia di bronzo che neppure Gesù ed i Re Magi sarebbero riusciti a superare questa barriera senza essere arrestati per sospetta attività terroristica.
Ci auguriamo che questo passo falso commesso da Paolo Mieli sia solamente un episodio nel quale gli è capitato di incorrere, e non stia ad indicarci una virata partitocratica del più serio ed affidabile degli organi di stampa quotidiana che da decenni dimostra agli italiani che la serietà dell’ informazione è, come ha affermato lo stesso Mieli, un bene prezioso e fragile da custodire con molta cura.

Ecco l'articolo:

Da quasi tre anni anche i palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme Est hanno di fronte, come gli ebrei di Israele, il loro « muro del pianto » : ma a differenza di quest'ultimi che s'inginocchiano e pregano e baciano le antiche pietre invocando la misericordia celeste, i primi stanno dritti in segno di protesta davanti al baluardo di cemento che alla fine dell'anno in corso, quando verrà eretto l'ultimo tratto, li terrà per sempre rinchiusi nei territori della West Bank. Condanna imposta dal governo di Tel Aviv nel momento in cui decise la costruzione di una « Barriera di sicurezza » tra i due popoli lunga oltre 600 chilometri. Prigione senza sbarre.
Sicurezza? Questo era certamente l'obiettivo ufficiale proclamato a gran voce dalle autorità israeliane, anche se inizialmente il progetto era avversato sia dalla Destra ( Sharon) che da Simon Peres e da Washington, preoccupati dalle reazioni internazionali: ma alla fine prevalsero le pressioni interne e l'opinione pubblica che vedeva nel muro la sola possibilità di contenere e limitare le incursioni suicide dei terroristi palestinesi. Ed è un fatto, riconosciuto anche dagli oppositori della Barriera, che negli ultimi due anni gli attentati dei kamikaze sono diminuiti.
Risultato niente affatto trascurabile se si pensa alla catena di massacri perpetrati a Gerusalemme e in altri centri urbani con centinaia d'innocenti morti per strada, sugli autobus, nei ristoranti durante una festicciola o un banchetto nuziale: ma sul versante opposto, c'è la denuncia pesante dei palestinesi, secondo cui la costruzione del Muro è servita agli israeliani per derubarli ulteriormente di nuove terre in Cisgiordania. Insomma, una rapina. Col risultato di aver frazionato l'intera popolazione della West Bank ( 250/ 300 persone) in piccole comunità, impossibilitate a comunicare l'una con l'altra, ognuna d'esse condannata all'isolamento, costretta a vivere — così si esprimono — in una prigione senza sbarre.
Che sia, la loro, un'esistenza da carcerati ( proprio mentre nella grande arena politica internazionale si discute ariosamente del Grande Avvento o del Grande Sogno dei due Stati) è arduo negarlo. A Gerusalemme come a Betlemme, a Ramallah come a Nablus o a Gerico, lo scenario non cambia e quanto vedi non lascia spazio all'illusione, mentre un senso di sgomento e quasi d'angoscia si sovrappone gradualmente all'emozione iniziale, che era di mistica serenità per l'impatto coi luoghi e le colline pietrose della Terra Santa. Undici « enclaves » .
Il Muro — o, meglio, le parti di muro già in piedi, meno di un terzo — è senza dubbio l'elemento visivo che meglio definisce la sostanziale condizione di prigionìa della Cisgiordania. Ma proprio come avviene in un carcere, per prevenire ed evitare ogni evasione dalle undici « enclaves » ( ghetti, mi sembra la traduzione appropriata) sorte fra la Barriera e la Green Line ( la Linea Verde che dal ' 48al ' 67è stata la frontiera internazionalmente riconosciuta tra Israele e Palestina) è stata tesa tutt'intorno una fitta rete di sbarramento, siepi di filo spinato, fossati, barricate con torrette, impianti elettrici, telecamere, come in tempi di guerra. Era sotto Natale e ho pensato che né i pastori né i Re Magi in cammino verso Betlemme sarebbero sgusciati indenni attraverso i reticolati e solo la stella cometa, volando alto, sarebbe giunta a destinazione beffando la difesa elettronica sistemata sulla sommità del muro, a dieci metri d'altezza.
Per Israele, le « enclaves » a ridosso del confine provvisorio devono costituire una minaccia permanente, come se i loro abitanti ( 70/ 80 mila persone) fossero tutti potenziali terroristi. Ma in una situazione così tesa e difficile, dove da anni predominano la paura, il sospetto, la diffidenza e forse anche il rancore e l'odio, non sorprende che i controlli ai « check- points » siano così meticolosi, così lenti ed estenuanti: sorprende, invece, la pazienza della gente che sta in fila per ore, rassegnata, e considera normale quel martirio quotidiano. Controlli quotidiani.
Rabbiosa la reazione dei palestinesi al progetto della Barriera divisoria. « Cominciarono a costruire il Muro nell'estatedel 2002 — racconta Terry Boulata, maestra elementare ad Abu Dis, quartiere periferico di Gerusalemme Est, un chiassoso e decrepito alveare umano — e così una mattina ho trovato un blocco di cemento alto un metro e mezzo davanti all'uscio di casa. L'ho dovuto scavalcare per andare a scuola, poco più di cinque minuti di strada a piedi. Poi quel pezzo di cemento è cresciuto fino a nove/ dieci metri, una parete per scalatori, e allora per andare al lavoro dovevo fare un giro in macchina di oltre mezz'ora, superando « check- points » , controlli, imbuti d'ogni genere. È ancora così. Mio padre, che ha 85 anni e abita a un chilometro di distanza, non fa più la sua visita quotidiana ai nipotini.
Storie come questa ne sentirai a migliaia. Credimi, la Barriera ci ha complicato la vita » .
C'è chi la protesta l'ha scritta sul Muro stesso, come gli studenti della al- Quids University che ne hanno imbrattato una parete con proclami rivoluzionari, avvertendo che « né le pallottole né il muro fermeranno la lotta armata » ; gli stessi drastici ammonimenti sono stati stracciati con lo spray a Betlemme e altrove ( « Stop the racist wall » ) con contorno di svastiche e affettuosi saluti ( « fuck you! » ) all'indirizzo delle autorità israeliane.
Se l'obiettivo principale fosse stato davvero la sicurezza il Muro avrebbe dovuto essere costruito dentro il territorio stesso d'Israele e proprio lungo la Linea Verde, tracciata nel ' 48. Pattugliato dai soldati da ambedue i lati, sarebbe stato impermeabile e non avrebbe offerto alcun varco neanche al più temerario dei kamikaze. Questo il parere, condiviso da molti, di Hassan Duani, funzionario dell'Onu a Gerusalemme: « Edificandolo, invece, dove ora lo troviamo — spiega — ha fatto il gioco degli israeliani che hanno sottratto ai palestinesi strisce di terra di 150/ 200 metri, fertilissime, irrigate di continuo. Si calcola che abbiano rubato l' 11 per cento dell'area coltivabile della West Bank. Dove il livello di povertà è salito, dal 22 per cento del 2000, all' 88 per cento di oggi » .
I disagi sociali provocati dal Muro stanno rendendo intollerabile un'esistenza che già prima era grama. Gerusalemme Est, consueta meta quotidiana dei palestinesi della Cisgiordania, è ora difficilmente accessibile. Occorre l'autorizzazionedell'autoritàmilitare israeliana che raramente la concede. Per ottenerla — confida qualcuno — bisogna fornire qualche informazione ai « servizi » , rischiando di finire nella lista dei collaborazionisti o delle spie. Un do ut des ripugnante. Ma non è facile neanche andare da un check- point all'altro. Insomma, sbotta un simpatico avventore al bar sorseggiando un bicchierino d'acqua ad alta gradazione, « faccio prima ad andare a Roma che da qui a Betlemme » . Custodi della Terra Santa.
Non è una realtà facile da decifrare, questa della West Bank. La complessità della sua storia passata e i conflitti attuali di ogni genere — politici, religiosi, sociali — sono tali e tanti da lasciarti sgomento. Ritengo perciò provvidenziale l'incontrocon padre Pizzavalla, un francescano trentanovenne che da 6 anni svolge la funzione di « custode » della Terra Santa ma che è sbarcato a Gerusalemme 15 anni or sono, non appena ordinato sacerdote. Conosce bene questi luoghi e però tiene subito a precisare che la sua « qualifica » non deve trarre in inganno: « Non vorrei si pensasse — esordisce — che noi siamo qui a " custodire" semplicemente dei monumenti archeologici, la Basilica della Natività, il Santo Sepolcro, ecc. Noi abbiamo a che fare con le " pietre vive", cioè con la realtà contemporanea, nello spirito di San Francesco, che è stato pioniere nella Holy Land. I francescani sono l'istituzione cristiano- cattolica più antica del Medio Oriente, primato che ci rende particolarmente responsabili » .
E del Muro, che ha visto sorgere ed allungarsi giorno dopo giorno, mese dopo mese, cosa pensa padre Pizzavalla? « Ahimé — sospira — , mi fa venire i brividi, è semplicemente una cosa brutale. Per gli israeliani, dopo le Intifada e le stragi urbane, non c'era alternativa: ed io, che sono stato in mezzo a tanti attentati, li capisco. In effetti la divisione fra le due comunità era già netta e profonda da anni e la muraglia che adesso vediamo altro non è che la sua conclusione fisica. Però il solco è diventato una voragine e l'intera comunità ne è uscita traumatizzata » .
I rapporti della gente col clero ( di ogni confessione) sono sostanzialmente buoni, anche se talvolta « avvertiamo un pizzico di ostilità nei nostri confronti, perché ci considerano i rappresentanti in clergy delle Potenze occidentali » . I contrasti tra le diverse comunità religiose ( cattoliche, copte, ortodosse, armene) che cogestiscono i luoghi sacri sono irrilevanti e riguardano questioni banali di ordinaria amministrazione. « Non potrebbe essere altrimenti — ammette padre Pizzavalla, oriundo bergamasco — , dal momento che a Gerusalemme la vita è inflessibilmente regolata dalla religione. Per ogni cosa si deve ricorrere alle istituzioni religiose: per sposarsi ( non esiste matrimonio civile), per accasarsi nel quartiere giusto dove trovi la chiesa o la sinagoga o la moschea, per la sepoltura » . Non oso chiedergli come debba regolarsi un laico da queste parti. Come Berlino.
Anche a Nablus il Muro ha provocato disagi e sconforto, che il sindaco della città, il dr.
Hussein Alya, sunteggia ed espone in poche, accorate parole: « Noi viviamo essenzialmente d'agricoltura — dice — e la costruzione della Barriera ci ha derubato dei nostri campi più fertili, ha messo k. o. centinaia di villaggi che campavano sulla produzione agricola, ha cambiato di colpo, dall'oggi al domani, il nostro modo di vivere. Siamo alla fame. Ci hanno confiscato il 30 per cento dei territori e il livello della disoccupazione ha toccato il 60 per cento: i nostri lavoratori non hanno più accesso ad Israele dove c'era necessità di braccia e manovalanza in genere. Come è avvenuto a Berlino, solo lo smantellamento del Muro contribuirà al riavvicinamento delle due comunità » .
Quando gli ricordo un suo predecessore, Bassam Shaka, uno dei tre sindaci palestinesi gambizzati nell' 80, il suo commento è breve ma per niente evasivo: « Non è che la situazione sia tanto migliore, oggi » .
Hanna Nasser, sindaco di Betlemme, sembra avere altri motivi di sconforto, oltre il Muro. La sua città — la città di Gesù — registra un allarmante calo di turisti in occasione delle festività natalizie, in gran parte determinato — si suppone — dalla paura di clamorosi attentati da parte degli integralisti islamici. « Quando Giovanni Paolo II venne qui nel 2000 — ricorda — c'era una marea di gente e comunque prima potevamo contare su due milioni e mezzo di visitatori l'anno: ora, quelle folle si sono via via diradate.
Questo è un Natale senza gioia, senza amore, spento... » .
Ma anche la Barriera ha le sue responsabilità: « Prima di tutto — aggiunge — , la confisca di centinaia di ettari che hanno limitato lo sviluppo di Betlemme.
Ora si sono annessi la tomba di Rachele e hanno intenzione di erigere un muro attorno alla chiesa, anche se il terreno appartiene ai cristiani nella misura del 97 per cento. Dicono che si tratta di una soluzione temporanea, ma qui tutto ciò che è temporaneo diventa permanente. Sì, le città della Palestina sono diventate grandi prigioni » .
Al primo piano del municipio, su una delle pareti del ballatoio, è esposto un grande ritratto di Yasser Arafat, per cui il sindaco di Betlemme ha sempre avuto una grande ammirazione: « È stato un grave errore — commenta — confinarlo alla Mukata. Arafat aveva firmato gli accordi di Oslo, non è mai stato un ostacolo alla pace » . Sorvola o, meglio, non si pronuncia direttamente sull'eventualità che il 9 gennaio Abu Mazen, ampiamente favorito nei sondaggi, venga incoronato nuovo leader della Palestina. Storie di confine.
Ma se cominci ad oscillare sul trapezio nel circo equestre della politica internazionale corri il rischio di non scendere più a terra e perdi di vista la realtà: che è di un'eloquenza spietata se frequenti i check- points della West Bank, come quello, battutissimo, di Qalandiya. « La cosa più dura della nostra vita — Tsilli Goldberg, che fa parte di un'organizzazione politica e insieme ad altre donne va a controllare ogni giorno il funzionamento dei posti di blocco — sono queste attese di due tre quattro e anche cinque ore, a disposizione dei gendarmi che ti perquisiscono e non trovano mai niente » . I soldati mostrano di non gradire la nostra presenza, perché denunciano il loro comportamento quando non è corretto » .
Assidua sui check- points e determinata a svolgere scrupolosamente il suo impegno, l'insegnante elementare Terry, già citata, ha una dovizia di aneddoti e informazioni su scorrettezze e abusi commessi dalle autorità militari o civili israeliane: come quando — racconta — spostarono la linea di confine, già tracciata, per far sì che un albergo di proprietà dei suoceri, fino ad allora dentro la frontiera della West Bank, fosse incapsulato in territorio israeliano. E i regolamenti militari creano profondi disagi anche nella sua vita famigliare: per raggiungerla a Gerusalemme Est, dove lei risiede, dalla Cisgiordania, il marito deve esibire un regolare permesso che non sempre viene concesso: ma anche in caso positivo, la regola impone che rientri ogni giorno in patria ( si fa per dire) non più tardi delle 19. Una convivenza trafelata. « Se Giuseppe e Maria si mettessero oggi in viaggio per Betlemme da Nazaret — suggerisce Terry in tono ironico ma non irriverente — , il bambin Gesù potrebbe nascere in qualsiasi posto di blocco invece che nella capanna. E correrebbe anche il rischio di essere registrato come un terrorista palestinese in erba » . Oltre i cancelli.
Fosse questa la conclusione, sarebbe una ben triste fiaba natalizia. Ma ecco che alla fine un episodio schiarisce il panorama finora tutto buio come un fascio di luce. Ed è la scoperta che esiste un passaggio non segreto ma unico che consente ai palestinesi di raggiungere Gerusalemme e di tornare a piacimento sui propri passi, senza condizioni o limiti di tempo. Nessun miracolo. Dietro questa storia c'èsemplicemente la buona volontà di una religiosa e di un frate passionista, che hanno in comune un giardino in quel di Betania: ed è appunto attraverso questo giardino, situato tra il convento delle Missionarie Comboniane ( di cui Suor Gerarda è la superiora) e il monastero di Padre Gianni, che la gente s'avvia con sporte e fagotti verso la città santa.
Ai cancelli, d'entrata e d'uscita, ci sono i soldati che solo raramente interferiscono. « Il transito — spiega Suor Gerarda, 69 anni, di Monza, arrivata qui cinque anni orsono dopo essere stata negli Stati Uniti, a Londra, in Eritrea, in Giordania, a Dubai — è riservato soprattutto alla persone anziane, alle donne e ai bambini. Io provo una grande pena per questa povera gente che si sente chiusa dentro, come in carcere. Come si può impedire ad una donna incinta di cercarsi una clinica decente? C'èpoi chi ha parenti o un lavoro a Gerusalemme. Solo una volta gli israeliani ci obbligarono a chiudere i cancelli: perché da qui, purtroppo, passava anche la droga... Siamo in nove, nel convento, tutte anziane, eccetto una, che è molto giovane. Insieme gestiamo un asilo infantile con trenta bambini palestinesi, e tre cristiani, dai due anni e mezzo ai cinque... Davvero, un gran da fare » .
« Noi siano per ora l'unica possibilità di accesso a Gerusalemme — dice padre Gianni, approdato a Betania solo tre mesi orsono — : oltre ai cancelli è stata aperta una breccia anche nel muro, per facilitare l'esodo. Questa era la casa di Marta e Maria e di Lazzaro ed è stata anche la terza casa di Gesù, dopo quella di Nazaret e di Cafarnao, dov'era ospite di Pietro. Qui Gesù ha trovato un letto, qui ha dormito, da qui è partito per andare a morire sulla croce... » .
Si accalora e si commuove don Gianni, sentendosi al centro di una luminosa vicenda biblica e si sente anche spiritualmente appagato per il contributo che crede di dare all'unanimità consentendo a tanti disperati di passare quotidianamente dal suo giardino per andare in cerca di un avvenire migliore. « Ogni giorno — dice — vado a raccattare i rifiuti, le lattine disseminate sull'erba. Sono felice di poter vivere, con due confratelli, nel contesto di questa sofferenza e di condividerla. Questa è la casa dell'accoglienza e non la interpreti come ipocrisia se sostengo che noi siamo con i palestinesi e al tempo stesso con gli israeliani. Ma li ha visti quei poveri ragazzi? Così giovani e così esposti a tutto, nel mezzo di questa tragedia? Il mio sogno è di averli qui tutti insieme, ebrei, musulmani, cristiani, arabi, palestinesi, israeliani: per fare un brindisi alla pace
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