Il ruolo di Hamas dopo le elezioni palestinesi
un' analisi
Testata:
Data: 03/01/2005
Pagina: 1
Autore: Fabio Nicolucci
Titolo: In Palestina sarà l'affluenza alle urne a stabilire se Abu Mazen può davvero controllare Hamas
In prima pagina IL RIFORMISTA di lunedì 3 gennaio 2004 pubblica un' analisi di Fabio Nicolucci sulle elezioni palestinesi e sul ruolo che Hamas e Jihad islamica avranno nel nuovo scenario politico da esse aperto.
Nonostante l'uso di una terminologia non corretta ("lotta armata" per terrorismo, "rappresaglia" per la risposta militare israeliana) si tratta di un articolo interessante e informato, che riportiamo:

Il 26 dicembre è cominciata la campagna elettorale per le elezioni del Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese di domenica prossima Si tratta di elezioni assai importanti per tutto lo scenario regionale del Levante, perché la centralità della questione palestinese è tale - per la sua stretta connessione con la sicurezza di Israele, per il gran numero di profughi palestinesi nella regione, per la debolezza degli stati arabi confinanti con Israele - che il loro andamento può avere conseguenze sistemiche in tutta l'area, a cominciare dalla politica israeliana - che oramai vive legata a doppio filo con quella palestinese - e dalla Siria, il paese al momento più fragile se non riesce a riformare se stesso stando al passo con i tumultuosi cambiamenti messi in moto dall'intervento Usa in Iraq e dalla morte di Arafat.
Subito dopo la morte del rais, la situazione in Palestina è stata per qualche tempo «rivoluzionaria», cioè potenzialmente tendente all'anarchia e talmente esposta a nuove dinamiche di potere da rendere impossibile qualsiasi previsione sui futuri assetti. Oggi possiamo dire che - grazie alla tempestiva unione d'intenti tra Usa, Sharon e dirigenza palestinese, prodotta dal pericolo di un pericoloso vuoto di potere e di una conseguente guerra civile tra i palestinesi, affacciatasi durante i convulsi giorni dell'agonia di Arafat - la situazione è diventata piuttosto di «evoluzione». La dirigenza palestinese si è comportata in maniera responsabile, sforzandosi di andare a vere elezioni democratiche e di farlo cercando di strappare una tregua alle fazioni radicali; l'Egitto ha fatto lo stesso a livello interarabo; gli Usa lo hanno fatto a livello globale; Sharon, da parte sua, ha addirittura evitato di sbilanciarsi in favore di un candidato per tema di danneggiarlo presso i suoi elettori e ha approntato un'efficace modalità di intervento per l'esercito israeliano, che dal 26 dicembre sta riducendo le attività in territorio palestinese, da dove si ritirerà del tutto entro l'8 gennaio, concedendo nel contempo agli abitanti palestinesi di Gerusalemme est di partecipare alle elezioni con le stesse modalità del 1996, cioè per posta. Le elezioni saranno infine monitorate da 250 osservatori internazionali, mentre l'ex presidente Usa Carter sarà a capo di un comitato di supervisori di 90 membri.
Di fronte a questi protagonisti, stanno ora tre questioni rilevanti per determinare sia quale sarà il tipo di elezioni che si svolgeranno, sia quali saranno - se ci saranno - gli effetti potenzialmente benefici sullo scenario coinvolto.
La prima questione è la candidatura di Maruan Barghuti. Essa è sempre stata una variabile dipendente dalla sua liberazione e dal mantenimento dell'accordo che lo stesso Barghuti forgiò un anno fa con Abu Mazen. L'accordo pare reggere, e la sua candidatura - ora «ritirata» - sembra dunque essere piuttosto un modo per alzare il prezzo con gli israeliani in vista di un suo possibile rilascio nel caso le elezioni palestinesi vadano talmente bene da creare delle condizioni «costituenti» per uno Stato palestinese. In questo caso potrebbe intervenire Bush, offrendo a Sharon la liberazione dalle carceri Usa della spia israeliana Jonathan Pollard in cambio di quella di Barghuti. La seconda questione è il possibile divampare di violenza da parte dei palestinesi radicali e della conseguente rappresaglia dell'esercito israeliano nelle aree palestinesi, fatti che oltre una certa misura avrebbero un effetto negativo sulle elezioni. Ma questa seconda questione è direttamente effetto della terza: il ruolo che le fazioni radicali - ed in particolare Hamas - decideranno di giocare nel processo elettorale. Nel 1996 boicottarono anche le contemporanee elezioni legislative per il Parlamento. Fu un errore che pagarono caro con l'irrilevanza politica fino al 2000 - quando saltò del tutto il processo di Oslo - ed è probabile che non lo rifaranno nelle elezioni legislative che si terranno sei mesi dopo quelle presidenziali, a metà del 2005. Anche perché Hamas oggi è profondamente spaccata in due. I leader della Cisgiordania spingono per uno storico compromesso con la leadership dell'Olp e per concedere loro l'hudna («tregua», in arabo) che chiedono, mentre i più militanti dirigenti di Gaza sono del parere contrario. I primi, per bocca dello sceicco Hassan Yussef, hanno dichiarato che l'organizzazione potrebbe considerare l'ipotesi di un'hudna indefinita - che equivarrebbe, se non rotta da Israele, ad un riconoscimento de facto dei confini del 1967 -, per i secondi, Mahmud Zahar ha rifiutato tale possibilità. Ma la fazione di Gaza potrebbe essere sul lato sbagliato del processo storico: la Siria sta forse per far cessare il suo appoggio alle fazioni radicali, e inoltre la società palestinese è stanca della guerra portata dall'intifada armata. Anche perché il 63% delle famiglie ne ha avuto dimezzato il proprio reddito, e il 58% di esse vive oggi in povertà. Prova di ciò non sono solo le impegnative dichiarazioni che «usare le armi è stato uno sbaglio e deve cessare» fatte da Abu Mazen in arabo ad un giornale arabo come Asharq al-Ausat, ma anche i sondaggi: per la prima volta dal 2000 la maggioranza dei palestinesi rigetta le operazioni militari ed esprime ottimismo sul futuro.
La partecipazione dell'81% alle elezioni locali in Cisgiordania del 24 dicembre - le prime dal 1976 - ne è tangibile segno. Ciononostante la leadership di Hamas potrebbe scegliere di non scegliere: cessare di fatto le operazioni militari e boicottare il voto del 9 gennaio senza vere e proprie dichiarazioni politiche. Al momento sembra l'ipotesi più probabile, ed essendo oramai senza rivali - un candidato si è ritirato a metà dicembre, così ne rimangono sette in tutto, di cui solo due di qualche rilievo, Mustafa Barghuti e Bassam Al-Salhi (candidato del Partito del Popolo, ex comunisti), che pescherebbero nello stesso bacino di sinistra - Abu Mazen ha un solo grande problema: portare la gente al voto e non sfigurare rispetto al 1996, visto che allora si votava contemporaneamente anche per il Parlamento. Sarà dunque l'affluenza - a meno di fatti di prima grandezza in senso positivo o negativo - il vero termometro politico del futuro destino della nazione palestinese, e di tutta l'area circostante.
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