Le elezioni palestinesi e quelle irachene, e il manifesto della sinistra antiterrorista e antitotalitaria americana
due analisi e un saggio fondamentale
Testata:
Data: 31/12/2004
Pagina: 6
Autore: Anna Barducci - un giornalista - Peter Beinart
Titolo: Il 9 gennaio dell'Anp - Su che cosa e perché l'Iraq voterà - Manifesto neoliberal per sconfiggere il terrore
A pagina 3 dell'inserto IL FOGLIO di venerdì 31 dicembre 2004 pubblica un articolo di Anna Barducci, "Il 9 gennaio dell'Anp" sulle elezioni palestinesi del 9 gennaio e sulle controversie circa la correttezza democratica della campagna elettorale.
Ecco il pezzo:

Ramallah. Il nuovo leader dell’Olp e candidato alla successione di Yasser Arafat alla guida dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, vincerà le elezioni presidenziali ed è proprio questa certezza che non piace agli altri candidati. Abd al Sattar Qassem, professore alla facoltà di Scienze politiche all’Università di al Najjah e legato al movimento Hamas, ha infatti rinunciato a continuare la sua campagna elettorale. "Ci stiamo prendendo in giro? – dice al Qassem al Foglio – Nessuno di noi ha qualche chance di vincere contro Abu Mazen. La stampa palestinese e quella araba parla soltanto di lui, gli altri candidati è come se non esistessero. Queste non sono assolutamente elezioni democratiche". Il giornale palestinese al Ayyam, accanto al suo logo, ha sostituito la fotografia dell’ex rais, Yasser Arafat, con quella del leader dell’Olp e tutti i giorni Abu Mazen riceve così la prima pagina del quotidiano. La stessa cosa avviene con al Hayat al Jadida, il giornale più letto nei territori, dove quotidianamente si elogia l’attività del leader dell’Olp con una sua immancabile fotografia a colori. "Gli Stati Uniti, Israele, lo stesso Hosni Mubarak (presidente egiziano, ndr) parteggiano per Abu Mazen, vogliono la sua vittoria – continua al Qassem – i giochi quindi sono già stati fatti. Al Jazeera, LBC, al Arabyia parlano solo e soltanto di lui, addirittura al Manar, il canale degli Hezbollah, che dovrebbe essere ideologicamente contro al Fatah, fa campagna elettorale per Abu Mazen". Secondo Al Qassem, è quindi del tutto inutile per gli altri candidati continuare quella che lui definisce "una farsa". Il professore accusa inoltre i mass media arabi, che, a suo avviso, prendono soldi sotto banco da al Fatah per "lavare il cervello" ai palestinesi e regalare la vittoria all’attuale leader dell’Olp. "Prima della morte di Arafat, Abu Mazen era visto come un traditore, aveva soltanto il due per cento del consenso tra la popolazione, oggi invece è il loro eroe – dice al Qassem – Israele ha già detto che dopo la vittoria di Abu Mazen, sarà pronto a fare qualche concessione, i palestinesi quindi pensano di poter ottenere una vita migliore. Io però ho già affermato che non riconoscerò il risultato di queste elezioni". Un altro ex candidato alle presidenziali, l’avvocato Ghassan Burhum, in una lettera aperta ad al Hayat al Madida richiedeva ai giornalisti arabi di non "avvelenare le menti dei cittadini", orientando apertamente il voto verso Abu Mazen, come se fosse l’unico a partecipare alle elezioni del 9 gennaio. Il direttore di al Hayat al Jadida, Hafez Al Bargouti, vuole invece difendere i mass media arabi da queste accuse. "Queste sono storie assurde – dice al Foglio al Bargouti – gli altri candidati non hanno nessuna causa, sono in lizza, ma non hanno nessun programma. Secondo loro, su che cosa dovremmo scrivere?". Al Bargouti spiega che nessun candidato può pretendere che un giornale scriva su di lui, se la sua attività politica è inesistente. Molti dei candidati chiamano quotidianamente il direttore di al Hayat al Jadida per avere un pezzo su di loro, ma la maggior parte delle volte, spiega al Bargouti, si tratta soltanto di ripicche verso gli avversari, cose che, fra l’altro, non sempre i quotidiani hanno la libertà di pubblicare. "Vorrei fare l’esempio del mio parente, il candidato Mustafa Bargouti. Noi due non siamo in buoni rapporti, ma nonostante tutto io ho pubblicato qualche articolo sulla sua campagna elettorale – dice il direttore del quotidiano – Bargouti invece per danneggiare il mio giornale, ha scritto su internet che noi facciamo propaganda soltanto per Abu Mazen e non lasciamo spazio agli altri candidati. Lui stesso però in una telefonata, mi aveva detto di smettere di scrivere articoli su di lui, perché non gli piace la nostra linea. Vorrei ricordare, che noi lavoriamo per dare notizie, non per creare un loro spazio pubblicitario personale". In un recente editoriale, al Bargouti, sulle pagine del suo giornale, ha spiegato che un ruolo decisivo sullo spazio assegnato a ciascun candidato lo sta giocando la commissione centrale per le elezioni, che ancora non ha spiegato che cosa sia veramente permesso e che cosa sia vietato. Infatti i giornali non hanno ricevuto alcun avviso che obblighi a una qualche forma di par condicio. Recentemente al Ayyam ha pubblicato una lettera aperta di Muhsen Abu Ramadan, ex coordinatore per lo sviluppo umano nella striscia di Gaza, che si appella ai mass media e alle Organizzazioni non governative attive nell’ambito dei diritti umani per imbastire dibattiti politici almeno tra i principali candidati. La sua idea, infatti, è di cercare di creare una dimensione democratica e culturale tanto ambita all’interno della società palestinese.
A pagina 4 l'editoriale "Su che cosa e perché l'Iraq voterà":
Il martellante ritmo delle stragi irachene, come previsto, cresce con l’avvicinarsi del 30 gennaio. Un bilancio di sangue impressionante, dietro il quale, però, non si vede strategia politica che non sia quella sintetizzata ad Atocha da al Qaida: "Noi amiamo la morte, voi la vita". E’ la prima volta nella storia che un’iniziativa terroristica, capace di bruciare la vita di centinaia di attentatori suicidi, s’immola sull’altare di una pura scelta di apocalisse, senza tattica. Non c’è Hanoi, dietro questi "nuovi vietcong" dell’immaginario malato di certa sinistra; non c’è Mosca, non c’è Pechino, non c’è l’Avana, neanche Ramallah. Non c’è, insomma, una "via". C’è soltanto Jihad, guerra per il paradiso, o per l’inferno. Per questo oggi è prezioso il successo che la Coalizione sta conseguendo in Iraq: il consenso di molte forze politiche irachene al confronto elettorale. Persino Moqtada al Sadr, sconfitto sul piano militare, rispetta questa scadenza. Ma deve essere ben chiaro che la posta delle elezioni del 30 gennaio, come spiega Iyyad Allawi, non è "chi" governerà l’Iraq, ma "come" l’Iraq sarà governato.
Il "chi" si risolverà infatti con un altro governo di unità nazionale, in cui il voto cambierà soltanto il numero dei ministeri assegnati ai diversi partiti. Il "come" riguarderà invece essenzialmente il ruolo che la sharia avrà o no nella Costituzione irachena. Nella Carta provvisoria essa è stata espunta; ma è probabile che il voto darà ai partiti della coalizione sciita, ispirata dal grande ayatollah Ali al Sistani, la forza per farne il baricentro dell’intera costruzione costituzionale. Il premier Allawi non vuole questo esito, e infatti, pur essendo sciita, non partecipa alla coalizione, ma ha ben chiaro che il punto dirimente vero è che la Costituzione irachena sia discussa e promulgata da costituenti eletti. Allawi sa che l’Iraq è paese musulmano e che il bandolo della matassa che porta i popoli dell’Islam al rispetto dei diritti umani è intricato. Una Costituente democraticamente eletta è una bomba nell’Islam, non si è mai vista. La si vedrà a Baghdad.
A pagina 6 e 7 dell'inserto IL FOGLIO pubblica un saggio di Peter Beinart, direttore di "The New Republic", "Manifesto neoliberal per sconfiggere il terrore", che di seguito riportiamo:
Il 4 gennaio 1947, centotrenta uomini e donne si radunarono presso il Willard Hotel di Washington per salvare il liberalismo americano. Alcuni mesi prima, tramite articoli pubblicati su The New Republic e altrove, gli editorialisti Joseph e Stewart Alsop avevano lanciato un avvertimento: "Il movimento liberale di sinistra sta gettando i semi della propria distruzione". Secondo i due giornalisti, i liberal "eludevano costantemente la grande realtà politica del momento: la sfida sovietica all’Occidente". Se le cose non fossero cambiate "nello spasmo di terrore che s’impadronirà di questo paese… sarà la destra – la destra più estrema – che avrà le maggiori probabilità di vittoria". Durante la Seconda guerra mondiale, solo un’importante organizzazione liberal, la Union for Democratic Action (Uda, Unione per l’azione democratica), aveva espulso i comunisti dai propri ranghi. Al Willard Hotel, membri dell’Uda si incontrarono per ampliare l’organizzazione e darle un nuovo nome. I presenti, che comprendevano Reinhold Niebuhr, Arthur Schlesinger Jr., John Kenneth Galbraith, Walter Reuther ed Eleanor Roosevelt, pubblicarono un comunicato stampa che elencava i principi del nuovo gruppo. Annunciando la creazione di Americans for Democratic Action (Ada, Americani per l’azione democratica), il documento dichiarava che l’America doveva appoggiare "i popoli democratici e amanti della libertà di tutto il mondo", "perché gli interessi degli Stati Uniti sono gli interessi degli uomini liberi, di qualunque nazionalità essi siano". Ciò implicava un’opposizione continuativa nei confronti del comunismo, un’ideologia "ostile ai principi di libertà e democrazia in base ai quali la repubblica ha raggiunto la maturità". A quel tempo, la concezione dell’Ada era ancora poco diffusa tra i liberali americani. Due tra le più influenti riviste di opinione liberale di sinistra, The New Republic e The Nation, rifiutavano entrambi l’anticomunismo militante. L’ex vicepresidente Henry Wallace, che molti liberal consideravano un eroe, vedeva i comunisti come alleati nella lotta per il progresso a livello nazionale e internazionale. Come fa notare Steven M. Gillon in "Politics and Vision" (Politica e visione, ndt), eccellente resoconto storico dell’Ada, quest’ultima era praticamente l’unica organizzazione liberale a sostenere la decisione presa nel marzo 1947 dal presidente Harry S. Truman di assistere Grecia e Turchia nella loro battaglia contro l’ingerenza sovietica. Tuttavia, nei due anni successivi, l’anticomunismo riacquistò le forze in un aspro conflitto politico tra le istituzioni del liberalismo americano. Con l’appoggio dell’Ada, Truman sconfisse il partito di Wallace sulla strada verso la rielezione. Il Congresso delle organizzazioni sindacali industriali (Cio, Congress of Industrial Organizations), che in precedenza era di sinistra, espulse gli affiliati comunisti e The New Republic ruppe i rapporti con l’ex direttore Wallace. L’American Civil Liberties Union (Aclu, Unione delle libertà civili americane) condannò il comunismo, così come la National Association for the Advancement of Colored People (Naacp, Associazione nazionale per l’avanzamento della gente di colore). Nel 1949, tre anni dopo che Winston Churchill aveva avvertito che sull’Europa era calata una "cortina di ferro", Schlesinger poteva scrivere in The Vital Center (Il centro vitale, ndt): "A mio parere, il liberalismo della metà del XX secolo è stato sostanzialmente rimodellato… dalla nuova trasparenza dell’Unione Sovietica e da una nostra maggiore conoscenza dell’uomo. La conseguenza di tale rieducazione storica è stato un rifiuto incondizionato del totalitarismo". Oggi, a tre anni dall’11 settembre e dagli eventi che hanno costretto gli Stati Uniti a confrontarsi con una nuova minaccia totalitaria, il liberalismo non è stato ancora "sostanzialmente rimodellato" dall’esperienza. In realtà, la destra è passata attraverso una "rieducazione storica" che ha sostituito l’isolazionismo dei tempi di Newt Gingrich con la fede quasi teologica di George W. Bush e Dick Cheney nella capacità trasformatrice della potenza militare americana. Tuttavia, il liberalismo americano, nella definizione
delle sue organizzazioni attiviste, rimane ampiamente quello che era negli anni ’90: un insieme di preoccupazioni e interessi nazionali. Su assistenza sanitaria, diritti degli omosessuali e ambiente predomina una visione concreta, articolata con vigore. Ma la passione liberal profusa per vincere la lotta contro Al Qaeda è scarsa, nonostante l’Islam totalitario abbia causato la morte di migliaia di americani e abbia intenzione di sterminarne milioni e malgrado il fatto che, se conquistasse il potere, ogni aspetto della vita verrebbe costretto in una prospettiva conforme a un’interpretazione barbara dell’Islam, con la conseguente imposizione del terrore su donne, minoranze religiose e chiunque nel mondo musulmano aspiri a modernità o libertà. I discorsi dei liberal in merito alla nuova era americana sono ampiamente caratterizzati da giudizi negativi: contro la guerra in Iraq, le restrizioni imposte sulle libertà civili, il declino della reputazione degli Stati Uniti nel mondo. In netto contrasto rispetto ai primi anni della Guerra Fredda, il liberalismo successivo all’11 settembre ha prodotto leader e istituzioni – primi fra tutti Michael Moore e MoveOn – che non pongono al centro delle proprie speranze di un mondo migliore la lotta contro il nuovo nemico totalitario dell’America. Di conseguenza, il Partito democratico vanta un establishment di politica estera piuttosto militarista e una schiera di politici e strateghi ansiosi di apparire duri. Tuttavia, dietro questa ristretta élite c’è una base di seguaci di Wallace che considera la nuova battaglia americana come un elemento di distrazione, se non addirittura
un miraggio. Nonostante due elezioni e due sconfitte, nell’era che ha avuto inizio con l’11 settembre, il liberalismo americano non si è ancora radunato al Willard Hotel. E si sta facendo tardi. La stampa ama le sorprese. Pertanto, nei giorni immediatamente successivi alle elezioni del 2 novembre, i giornalisti hanno svelato che i "valori morali" erano stati la causa della sconfitta di John Kerry alle elezioni. Tuttavia, dopo un’indagine più approfondita, i motivi del fallimento non sembrano affatto sorprendenti. In realtà, si tratta in larga parte delle stesse ragioni per cui i Democratici avevano perso alle elezioni
2002 per il Congresso. Gli esperti si sono basati sugli exit poll, secondo cui la preoccupazione primaria
dell’elettorato era costituita dai valori morali, citati dal 22 per cento dei votanti. Eppure, come ha sottolineato il mio collega Andrew Sullivan ["Uncivil Union" (Unione incivile, ndt), 22 novembre], una percentuale analoga dell’elettorato aveva citato i valori morali anche negli anni ’90. Il vero cambiamento di quest’anno ha riguardato la politica estera. Nel 2000, solo il 12 per cento dei votanti aveva addotto le "questioni mondiali" come ansia principale. Quest’anno, il 34 per cento ha menzionato l’Iraq o il terrorismo. (Se combinate, le due categorie di politica estera rendono insignificanti i valori morali). Gli elettori che hanno citato il terrorismo appoggiavano Bush con ancora
maggior forza di quelli che hanno menzionato i valori morali. Ed è in larga parte questa nuova schiera – la stessa che nel 2002 aveva assegnato al partito repubblicano la maggioranza al Senato – che spiega il miglioramento di Bush rispetto al 2000. In tema di sicurezza nazionale, la candidatura di John Kerry è stata un compromesso tra un’élite di partito con il disperato bisogno di neutralizzare l’argomento terrorismo e una base liberal restia ad adeguarsi al mondo venutosi a creare dopo l’11 settembre. Nei primi giorni di candidatura, Kerry sembrava destinato a presentarsi come un falco. Nel giugno 2002 aveva attaccato Bush, con un tipico atteggiamento di destra, per non avere impegnato le truppe di terra americane nelle montagne di Tora Bora. Come gli altri principali candidati in lizza, aveva votato per autorizzare l’uso della forza in Iraq. Questo non solo era stato apprezzato dai consulenti di Kerry, che speravano di vaccinarlo contro le accuse di debolezza nei confronti del terrorismo, ma aveva anche soddisfatto i suoi consiglieri in materia di politica estera. L’establishment democratico di politica estera che ha consigliato i più importanti candidati presidenziali durante le primarie – e che si è coalizzato a supporto di Kerry dopo che questi aveva ottenuto la candidatura – era il prodotto di un’evoluzione decennale. Bill Clinton aveva assunto la carica mostrando poca passione per la politica estera, tranne nei casi in cui l’economia statunitense ne subiva i contraccolpi. Tuttavia, nel tempo, la sua Amministrazione si è interessata in misura sempre maggiore alle questioni internazionali, sviluppando un atteggiamento più militarista. Nell’agosto 1995, Clinton finì per inviare aeroplani militari della Nato in Bosnia. Quattro anni dopo, gli Stati Uniti – agendo di nuovo tramite la Nato – scatenarono una guerra umanitaria in Kosovo, impedendo l’ennesima pulizia etnica e creando le basi per una rivoluzione democratica a Belgrado. Certo, si trattò di una guerra aerea che mise pochi americani in pericolo di vita. Ma fu comunque un conflitto, avviato da un presidente democratico senza il sostegno
dell’Onu, in risposta a eventi interni in un paese sovrano. I principali consiglieri di Kerry per la politica
estera, come Richard Holbrooke e Joseph Biden, consideravano Bosnia e Kosovo come modelli per un nuovo liberalismo dell’era post-Vietnam che tenesse in considerazione la potenza americana. E l’11 settembre avvalorava una trasformazione in tal senso. Gli spocchiosi della politica estera democratica non solo erano a favore della guerra in Afghanistan, ma in generale ritenevano che non si stesse facendo abbastanza, esortando l’impiego di una forza Nato di più ampia portata, in grado di garantire la sicurezza nell’intero paese. E, sebbene disturbati dalle modalità di gestione della questione irachena da parte dell’Amministrazione Bush, erano concordi sul fatto che Saddam Hussein rappresentasse una minaccia e, più in generale, hanno appoggiato i tentativi aggressivi di democratizzare il mondo musulmano. Come ha sottolineato Paul Starobin del National Journal in un profilo pubblicato nel settembre 2004: "Kerry e i suoi consiglieri di politica estera non sono colombe. Sono falchi liberal che non disdegnerebbero di sfruttare la potenza americana per promuovere i propri valori". Alla convention democratica, Biden ha dichiarato che "l’obbligo assoluto del prossimo presidente è evidente": esercitare "in pieno la nostra potenza" per sconfiggere il totalitarismo islamico. Se la storia avesse seguito un corso diverso, questo nuovo genere di liberalismo avrebbe potuto espandersi oltre i limiti di una ristretta élite di esperti di politica estera. La guerra in Afghanistan – pur essendo a differenza del Kosovo una guerra di autodifesa – ha nuovamente indotto le democrazie occidentali ad allearsi contro un nemico profondamente illiberale. Se quella guerra, e non il conflitto in Iraq, fosse diventata l’evento simbolo dell’era successiva all’11 settembre, la "rieducazione" relativa alla potenza statunitense, e alla nuova minaccia totalitaria proveniente dal mondo musulmano che aveva trasformato i consiglieri di
Kerry, avrebbe potuto penetrare fino alla base liberale del partito, provocandone il cambiamento. Invece, la guerra di Bush contro il terrorismo è diventata una questione di parte, che i liberal di sinistra non vedono simboleggiata da immagini di soldati americani che accompagnano giovani afghane a scuola, ma dagli arresti su grande scala di John Ashcroft e dalle false affermazioni di Cheney in relazione alle armi di distruzione di massa in possesso degli iracheni. L’entusiasmo manifestato dalla sinistra in favore di una campagna aggressiva contro Al Qaeda dopo l’11 settembre – concretizzatosi negli arruolamenti volontari nella Cia da parte degli studenti dei campus liberal – è stato sopraffatto dall’orrore della caotica guerra in Iraq. Così, quando nel 2003 i candidati presidenziali democratici hanno cominciato a corteggiare gli attivisti del partito in Iowa e New Hampshire, si sono trovati dinanzi una base liberal che considerava la guerra al terrorismo in termini negativi e giudicava i candidati in base alla ferma intenzione di sconfiggere Bush piuttosto che per l’entusiasmo di sgominare Al Qaeda. I tre candidati che avevano incentrato la propria campagna sulla vittoria nella guerra contro il terrorismo – Joseph Lieberman, Bob Graham e Wesley Clark – non sono riusciti a conquistare l’immaginazione degli attivisti liberal, che invece chiedevano un programma concreto limitato alla sfera della politica interna. Tre fra i primi candidati favoriti – Kerry, John Edwards e Dick Gephardt – hanno perso consensi quando Howard Dean li ha messi alla berlina per avere sostenuto il Patriot Act, la legge antiterrorismo di Ashcroft e la guerra in Iraq. Tre mesi prima dei caucuses dell’Iowa, le riunioni informali alternative alle elezioni primarie che hanno registrato defezioni di massa dei liberal nei confronti di Dean, Kerry aveva votato contro la richiesta avanzata da Bush di investire altri 87 miliardi di dollari nella questione irachena. L’origine del compromesso di Kerry può essere fatta risalire a quel voto. Agli occhi dei consiglieri democratici di politica estera, alcuni dei quali erano a favore dell’ulteriore finanziamento in Iraq, Kerry restava un tramite per una guerra aggressiva contro il terrorismo. E questa può anche essere stata l’intenzione di Kerry. Ma per gli elettori liberal
che avrebbero scelto il candidato del partito, si è trasformato in un Dean più eleggibile. L’opposizione di Kerry allo stanziamento di 87 miliardi di dollari non ha cambiato solo la sua immagine in relazione alla guerra in Iraq, ma anche il modo in cui si poneva nei confronti della stessa guerra al terrorismo. La sua giustificazione per essersi dichiarato contrario allo stanziamento di fondi era di natura essenzialmente isolazionista: "Non dovremmo aprire caserme dei pompieri a Baghdad per chiuderle nelle nostre comunità". E sfruttando l’avversione pubblica per gli aiuti all’estero e la ricostruzione di uno Stato straniero – i due ovvi fondamenti di qualunque intervento liberal antitotalitario nel mondo musulmano – Kerry sosteneva che le energie morali del liberalismo dovevano essere impiegate in
primo luogo in patria. Il voto di Kerry contro lo stanziamento di 87 miliardi di dollari ha contribuito a riconquistargli i militanti liberal di cui aveva bisogno per vincere in Iowa, e l’Iowa lo ha catapultato verso la candidatura presidenziale. Tuttavia, il no agli 87 miliardi gli ha portato due conseguenze svantaggiose. Quella più ovvia è che Bush ne ha potuto approfittare in campagna elettorale per presentare l’avversario come un uomo senza principi morali. Ma, più subdolamente, per Kerry è diventato più difficile chiedere agli americani di sacrificarsi in una campagna globale per la libertà. Biden poteva suggerire "un nuovo programma di servizio nazionale" e altre misure volte a "ripartire il
costo e le difficoltà della guerra contro il terrorismo non solo tra i nostri soldati e le loro famiglie". Tuttavia, ogni volta che Kerry si apprestava a chiedere agli americani un maggiore impegno per far fronte alla nuova minaccia all’America, si scopriva limitato dall’enfasi precedentemente posta su un minore coinvolgimento. A volte sosteneva che il suo obiettivo principale in Iraq era il rientro delle truppe. Chiedeva un potenziamento delle forze armate, ma prometteva che i nuovi soldati non sarebbero stati inviati in Iraq, il nuovo centro della guerra al terrorismo, dove – come lui stesso aveva dichiarato – le forze americane erano numericamente scarse. La critica avanzata da Kerry nei confronti
della politica di Bush in Iraq era tagliente, ma l’unico principio alternativo che articolava con chiarezza era il multilateralismo, che spesso appariva come un modo velato per chiedere agli americani un minore impegno. E non avendo mai sollecitato una mobilitazione nazionale per la sicurezza e la libertà, le sue parole sul terrorismo non avevano la grandiosità di quelle di Bush. Non è stato un caso: se Kerry avesse sostenuto in modo aggressivo una mobilitazione nazionale per vincere la guerra al terrorismo, non sarebbe stato il candidato democratico. I "deboli" Kerry aveva dei difetti come candidato, ma non era questo il problema fondamentale: la questione principale era rappresentata dalla base liberal di sinistra del partito, che avrebbe rifiutato di candidare chiunque avesse proposto di ridefinire il Partito democratico come aveva fatto l’Ada nel 1947. L’odierna sfida per i democratici non consiste nell’individuare un diverso tipo di candidato presidenziale, ma nel trasformare il partito alla base, affinché un simile candidato possa emergere. Ciò significa abbandonare l’etica dell’unità a tutti i costi, che ha retto il liberalismo americano nel 2004, e imporre una prolungata battaglia per strappare il Partito democratico dalle mani degli eredi di Henry Wallace. Attualmente sono due i nomi che spiccano in modo particolare: Michael Moore e MoveOn. Nel 1950, The New Leader divideva i liberal
americani in "hard" e "soft", ossia "forti" e "deboli". I "forti", rappresentati dall’Ada, credevano che l’anticomunismo fosse la cartina al tornasole essenziale per una sinistra rispettabile. Non bastava non essere comunisti: l’opposizione alla minaccia totalitaristica era il prerequisito per l’appartenenza
al liberalismo americano, perché il comunismo era la sfida morale simbolica dell’era. I "deboli", dal canto loro, non erano necessariamente dei comunisti. Tuttavia, si rifiutavano di fare dell’anticomunismo la loro bandiera. A loro parere, la minaccia ai valori liberal proveniva interamente dalla destra: dai militaristi, da chi lanciava accuse di comunismo e dalle forze della reazione economica. Dare addosso ai comunisti, alleati affidabili nella lotta per i diritti civili e la giustizia economica, significava allontanarsi dalla battaglia per il progresso. Moore è il più eminente esponente "debole" negli Stati Uniti oggi. Gran parte dei Democratici concorda con lui in merito alla guerra in Iraq, alla questione Ashcroft e a Bush. Ciò che queste persone non riconoscono, o non ammettono, è che Moore non si oppone alle politiche di Bush perché le ritenga inefficienti contro la minaccia terroristica. Egli non crede che esista una minaccia terroristica. Secondo Moore, il terrorismo è un narcotico propinato dai dirigenti delle grandi corporation aziendali. In "Ma come hai ridotto questo paese?" lo dice apertamente: "Non esiste una minaccia terroristica". E si chiede: "Perché il nostro governo è arrivato a un’assurdità tale da convincerci che la nostra vita è in pericolo?". Moore considera l’Islam totalitario allo stesso modo in cui Wallace reputava il comunismo: un fantasma, un espediente sfruttato dagli unici veri nemici, quelli di destra. Gli estremisti sauditi possono aver causato il crollo delle Torri Gemelle, ma la vera minaccia è il Carlyle Group. Oggi gran parte dei liberali ritiene ingenuamente che Moore sia un utile alleato, uno che lancia strali contro una destra che merita di essere bruciata. Ciò che non viene compreso è che le vere vittime di Moore sono i membri della sinistra rispettabile. Quando Moore si oppone alla guerra contro i talebani, mette in dubbio la sincerità di quei liberal che affermano di essere stati contrari alla guerra in Iraq perché prima volevano vincere in Afghanistan. Quando Moore sostiene che il terrorismo non dovrebbe preoccupare la nazione più
degli incidenti automobilistici o della polmonite, rende più difficile per i liberal affermare che la loro fede nelle libertà civili non implica un abbassamento della guardia nei confronti di Al Qaeda. Moore non è un totalitario ma, come Wallace, non è antitotalitario. E quando Terry McAuliffe, presidente del Comitato nazionale del Partito democratico, e Tom Daschle, si sono recati alla prima di "Fahrenheit 9/11" a Washington o quando Moore ha preso posto accanto a Jimmy Carter alla convention democratica, molti americani si sono chiesti se non sia l’intero Partito democratico a non essere
antitotalitario. Se Moore è il principale esponente della corrente "debole" del liberalismo di sinistra, la più importante organizzazione è MoveOn. MoveOn è stata fondata per contrastare l’impeachment di Clinton, ma dopo l’11 settembre è passata a fare opposizione contro la guerra in Afghanistan. Una petizione sponsorizzata dall’organizzazione avvertiva: "Se risponderemo bombardando Kabul e uccidendo la popolazione oppressa dai talebani, diventeremo come i terroristi contro cui ci
contrapponiamo". Nel gennaio 2002, MoveOn collaborava con 9-11peace.org, un sito web fondato da Eli Pariser, che in seguito sarebbe diventato il portavoce più eminente dell’organizzazione. Un primo comunicato di 9-11peace.org invitava i sostenitori a "chiamare i leader mondiali e chiedere loro di sospendere i bombardamenti" e a "sventolare la bandiera dell’Onu come simbolo di unità globale e sostegno alla legge internazionale". Altri bollettini mettevano in discussione la sensatezza di aumentare le sovvenzioni alla Cia e l’impiego di truppe americane per fornire assistenza in interventi antiterroristici nelle Filippine. Nell’ottobre 2002, facendo seguito all’incorporazione di 9-11peace.org in MoveOn, un comunicato dell’organizzazione suggeriva che, contro Bin Laden, gli Stati Uniti avrebbero dovuto "applicare la legge internazionale e le procedure giudiziarie, compreso il giusto processo" e che "un tribunale avrebbe anche potuto ottenere la collaborazione dei talebani".
Come ha dichiarato Michelle Goldberg di Salon, negli ultimi anni MoveOn è emerso come "il più importante gruppo di patrocinio politico negli ambienti democratici". Questa associazione vanta più di un milione e mezzo di membri e, in occasione delle elezioni 2004, ha raccolto ben 40 milioni di
dollari. Probabilmente molti sostenitori di MoveOn non condividono l’opposizione dell’organizzazione
alla guerra afghana – sempre che se ne rendano conto – e considerano il gruppo semplicemente come un mezzo efficace per combattere Bush. Tuttavia, una delle lezioni apprese agli inizi della Guerra fredda è la meticolosità con cui i liberal scelgono il proprio portavoce. E, sebbene i frequenti comunicati di MoveOn siano molto più ponderati delle invettive di Moore, trasmettono comunque la medesima ostilità di base nei confronti della potenza statunitense. Nei primi giorni successivi all’11 settembre, MoveOn aveva dichiarato che gli aiuti internazionali avrebbero potuto rivelarsi un espediente migliore dell’azione militare per sconfiggere il terrorismo. Tuttavia, negli ultimi anni, questo tipo di assistenza sembra non interessare più. Il dibattito di MoveOn ora è dominato da due idee completamente negative. Innanzitutto, la guerra al terrorismo distrugge le libertà civili. Il 18 luglio 2002, in un comunicato dal titolo "La democrazia può sopravvivere a una ‘guerra’ infinita?", MoveOn sosteneva la tesi secondo cui il Patriot Act aveva "annullato ampie parti del Bill of Rights". Il comunicato proseguiva poi mettendo a confronto l’effetto grossolanamente enfatizzato della legge con il pericolo – implicitamente molto più circoscritto – proveniente da Al Qaeda, chiedendosi: "La minaccia all’esistenza degli Stati Uniti è sufficientemente grave da giustificare lo sventramento dei nostri principi più preziosi?". In secondo luogo, la guerra al terrorismo distoglie l’attenzione dal programma concreto del liberalismo, che è prevalentemente incentrato su questioni interne. Il bollettino
di MoveOn consiste in larga parte di link, collegamenti, ad articoli su altre pubblicazioni e, sebbene l’organizzazione sostenga di "non sottoscrivere necessariamente le opinioni esposte nelle pagine cui i link si riferiscono", generalmente gli articoli concordano con la linea del partito. Il 2 ottobre 2002, MoveOn pubblicò un link a quello che veniva definito un "articolo eccellente", il cui autore lamentava il fatto che "sembra che a Washington tutti pensino o parlino solo ed esclusivamente di terrorismo, di ricostruzione dell’Afghanistan e della distruzione dell’Iraq". Un altro articolo nello stesso comunicato faceva notare che "un’ampia quota del denaro [federale] viene stanziata per questioni di sicurezza relative alla ‘guerra al terrorismo’, lasciando minori fondi a disposizione per i servizi pubblici di base".
Come i "deboli" degli inizi della Guerra Fredda, MoveOn ritiene che le minacce al liberalismo provengano solo dalla destra. Di conseguenza, fa causa comune con le componenti più profondamente illiberali della sinistra internazionale. Nella campagna condotta contro la guerra in Iraq, MoveOn sollecitava i sostenitori a prendere parte a proteste co-sponsorizzate da International Answer (Risposta internazionale), un fronte per il World Workers Party, il Partito mondiale dei lavoratori, che ha difeso Saddam, Slobodan Milosevic e Kim Jong II. Quando George Packer, sul New York Times, chiese a Pariser un commento sull’opportunità di comparire a fianco di apologeti di dittatori, la risposta fu: "Personalmente, sono contrario a difendere Slobodan Milosevic e a definire la Corea del nord un paradiso socialista, ma in questo momento ciò non ha rilevanza". Le parole di Pariser potrebbero fungere da slogan per i "deboli" di oggi, che non considerano la lotta contro la dittatura e il jihad rilevanti nell’ambito del modello di liberalismo di cui sono fautori. Quando, l’estate scorsa, il New York Times ha chiesto ai delegati delle convention democratica e repubblicana quali fossero le questioni prioritarie, solo il 2 per cento dei Democratici ha citato il terrorismo, rispetto al 15 percento dei repubblicani. L’1 per cento dei Democratici ha nominato la difesa, a differenza del 15 per cento dei repubblicani, e l’1 per cento dei Democratici ha indicato la sicurezza interna, rispetto all’8 per cento dei repubblicani. L’ironia sta nel fatto che Kerry – influenzato dai consiglieri relativamente belligeranti – ha in realtà appoggiato l’aumento dei fondi a favore della sicurezza interna e l’incremento dell’effettivo militare. Tuttavia tali proposte gli hanno valso uno scarso credito pubblico, forse perché gli americani continuano in gran parte a considerare quello repubblicano come il partito più interessato alla sicurezza, sia interna sia estera. E, a giudicare dai delegati presenti alle due convention, si tratta di una percezione del tutto esatta.
Arthur Schlesinger Jr. non avrebbe condiviso il timore manifestato da MoveOn per una "guerra infinita" al terrorismo. In The Vital Center scriveva: "Oggi, società libera e totalitarismo lottano per conquistare la mente e il cuore dell’uomo… Se crediamo nella società libera con forza sufficiente per continuare a lottare per essa, siamo destinati a una crisi permanente che metterà alla prova la resistenza morale, politica e, molto probabilmente, militare di ogni parte. Una crisi ‘permanente’? Quantomeno per una generazione o due: permanente nell’arco della propria vita". Schlesinger, in altri termini, non considerava la lotta contro il totalitarismo del suo tempo come una distrazione dagli interessi concreti del liberalismo, né la riteneva aliena dai valori fondamentali del partito, ma la vedeva come l’arena in cui tali valori trovavano la loro espressione più profonda. Ciò aveva diverse conseguenze. Innanzitutto, se il liberalismo doveva opporsi al totalitarismo con credibilità, non poteva per riflesso condizionato essere ostile alla forza militare. Schlesinger criticava coloro che lui stesso definiva "facilmente plagiabili", quei liberal con "un debole per l’impotenza… cioè la paura di prendere decisioni concrete e di dover rispondere delle conseguenze". Esattamente l’atteggiamento di Moore, il quale ha deplorato i talebani per le orribili violazioni dei diritti umani, ma si è opposto all’azione militare nei loro confronti, preferendo prospettive illusorie di un cambiamento non violento del regime. Secondo Schlesinger (che, ironicamente, negli ultimi anni di vita si è adeguato a un liberalismo più soft), in realtà erano i conservatori, con la loro ossessiva ostilità nei confronti degli aumenti delle tasse, a non poter essere considerati affidabili per sovvenzionare la lotta americana nella Guerra fredda. "Un segmento importante del settore economico – scriveva – esita tuttora a impegnarsi in una politica estera di una portata tale da proteggere un mondo libero dal totalitarismo, per il timore che ciò comporti una limitata
maggiorazione del tasso d’imposta". Dopo che Dwight Eisenhower divenne presidente, l’Ada assunse questa linea, sostenendo, nell’ottobre 1953, che la "questione principale dinanzi al popolo americano oggi è se la difesa nazionale debba dipendere dalle esigenze della situazione mondiale o vada sacrificata al culto delle riduzioni delle tasse e di un bilancio in pareggio". Simili critiche costituirono le basi per la campagna di John F. Kennedy nel 1960, che, come fa notare Richard Walton in "Cold War and Counterrevolution" (Guerra Fredda e controrivoluzione, ndt), fu "dominata da un attacco duro e deciso al comunismo". Una volta in carica, Kennedy aumentò drasticamente la spesa militare. Una simile critica potrebbe apparire inutile per i liberal di oggi, dato che Bush, abbandonata la tradizionale preoccupazione del Partito repubblicano di voler mantenere il bilancio in pareggio, sembra soddisfatto di apportare tagli alle tasse e, allo stesso tempo, aumentare la spesa militare statunitense. Eppure, subdolamente, i duplici imperativi del Partito repubblicano hanno già cominciato a entrare in collisione, con il rafforzamento della difesa in costante perdita. Bush non incrementa l’effettivo militare statunitense dall’11 settembre – nonostante i ripetuti inviti dei falchi del suo stesso partito – in parte perché, considerati i massicci tagli alle tasse, non può permetterselo. Un liberalismo antitotalitario attaccherebbe simili tagli alle tasse non solo perché ingiusti e fiscalmente avventati, ma soprattutto perché costituiscono minacce a lungo termine per la capacità americana di intraprendere una guerra contro un Islam fanatico. Oggi, tuttavia, non esistono patrocinatori liberal a sostegno di un tale argomento, in un Partito democratico nel quale il "terrorismo" è stato definito la preoccupazione principale solo dal 2 per cento dei delegati, mentre la "difesa" è stata citata solo da un altro 1 per cento.
Ma Schlesinger e l’Ada non si sono limitati ad attaccare la destra per la sua debolezza nella difesa nazionale: hanno anche sostenuto che i conservatori non si impegnavano per sconfiggere il comunismo nella battaglia per la conquista dei cuori e delle menti. Era stato Truman, alleato dell’Ada, a sviluppare il Piano Marshall a tutela delle democrazie europee tramite un massiccio aiuto internazionale statunitense. E quando Truman propose di estendere il principio al Terzo mondo, chiedendo – in occasione del discorso inaugurale del 1949 – "un nuovo, coraggioso programma per far sì che i benefici dei nostri avanzamenti scientifici e del progresso industriale vengano resi disponibili per il miglioramento e la crescita delle aree sottosviluppate", furono i repubblicani del Congresso a opporre resistenza. Il supporto a favore di una campagna condotta dagli Stati Uniti per sconfiggere il comunismo del Terzo mondo attraverso lo sviluppo economico e la giustizia sociale è rimasto un elemento centrale nel liberalismo antitotalitario per tutti gli anni 50. In occasione di un raduno dell’Ada nel 1952, il senatore democratico Brien McMahon, originario del Connecticut, sollecitò l’istituzione di un "esercito" di giovani americani che si recassero nel Terzo mondo come "missionari della democrazia". Nel 1955, l’Ada chiese un raddoppio degli aiuti americani al Terzo mondo, per arginare "la spinta primaria dell’espansione comunista" e "aiutare quei paesi a sperimentare la realtà della libertà e cominciare un cammino concreto verso il miglioramento economico". Quando Kennedy entrò in carica, propose l’Alleanza per il progresso, un Piano Marshall da 20 miliardi di dollari per l’America Latina. E, rispondendo all’appello di McMahon, introdusse i Corpi della pace, un’opportunità per i giovani americani di partecipare "al grande compito comune di portare all’uomo quel rispettabile stile di vita che è il fondamento della libertà e di una condizione di pace". La critica lanciata dall’Ada negli anni 50 potrebbe ancora essere fatta propria dai liberal di oggi. Nonostante le promesse dell’Amministrazione Bush di promuovere la libertà nel mondo musulmano, i tentativi in questo senso sono stati vanificati dall’inveterata contrarietà del Partito repubblicano alle sovvenzioni internazionali e al nation building, che in Iraq ha avuto il suo esempio più disastroso. Le risorse irrilevanti investite dagli Stati Uniti nella democratizzazione e nello sviluppo del Medio Oriente hanno indotto Najem Sherbiny, del centro riformatore egiziano Ibn Khaldun Center, a dichiarare al Washington Post, verso la fine dello scorso anno, che l’Amministrazione Bush "agiva ai margini, con cautela e con un impegno minimo". Molti pensatori della politica estera in ambito Democratico sono favorevoli a un intervento americano molto più ambizioso. Biden, per esempio, ha chiesto che gli Stati Uniti "aumentino drasticamente gli investimenti nell’istruzione globale". Tuttavia, sebbene un nuovo Piano Marshall e un ampliamento dei Corpi della pace per il mondo musulmano siano più logicamente idee liberal che concetti conservatori, dopo l’11 settembre non hanno raccolto grandi consensi tra i militanti di sinistra. L’istituzione di nuovi Peace Corps richiede fiducia nella capacità americana di migliorare il mondo, una cosa che evidentemente Moore non nutre. Moore ha dichiarato che gli Stati Uniti "sono famosi per portare tristezza e miseria ovunque nel pianeta". Un nuovo Piano Marshall contraddice chiaramente l’opinione sugli aiuti internazionali che aveva indotto Kerry a votare contro lo stanziamento di 87 miliardi di dollari, ossia l’inaccettabilità che un investimento all’estero comporti tagli in ambito nazionale. Nel loro estraniarsi dalla questione irachena, molti militanti liberal sembrano considerare aliena la stessa idea di promozione della democrazia. Quando il New York Times ha chiesto ai delegati Democratici se gli Stati Uniti avessero dovuto "cercare di trasformare una dittatura in una democrazia, laddove possibile, o evitare di intromettersi nelle questioni di altri paesi", più del triplo degli intervistati
ha risposto "evitare di intromettersi", anche se la domanda non implicava l’impiego della forza militare. Quello che l’Ada aveva compreso, e che i "deboli" di oggi non capiscono, è che se in senso stretto la lotta contro il totalitarismo richiede di orientare altrove risorse che potrebbero trovare un utilizzo nazionale, essa costituisce comunque un influente fondamento per una società più equa in patria. Agli inizi della Guerra fredda, i liberal sostenevano ripetutamente che la negazione dei diritti civili degli afro-americani indeboliva l’impegno anticomunista dell’America nel Terzo mondo. Questo nesso tra libertà in patria e libertà all’estero era particolarmente importante nel dibattito sulle libertà
civili. Uno degli elementi caratteristici dei liberal dell’Ada era il loro rifiuto di riconoscere – come talvolta accade oggi a gruppi come MoveOn – che per i valori liberali le violazioni delle libertà civili rappresentassero una minaccia più pericolosa rispetto a quella rappresentata dai nemici totalitari dell’America. E, ogniqualvolta possibile, affermavano che il mancato rispetto della libertà individuale era un errore, almeno in parte, perché ostacolava l’impegno nella lotta contro il comunismo. Oggi, purtroppo, sono poche le accuse liberal – per esempio, in relazione agli arresti di Ashcroft – che vengono espresse in termini analoghi. Perché i liberal possano avanzare tali argomenti con efficacia, è innanzitutto necessario che tolgano il movimento dalle mani dei "deboli". Sapremo che un simile tentativo è stato intrapreso quando si manifesterà una divergenza di opinioni all’interno delle principali istituzioni liberal americane. Nei tardi anni 40, il conflitto si esplicò nel Democratic Farmer-Labor Party del Minnesota, il Partito laburista democratico dei coltivatori, di tendenza sinistroide, che Hubert Humphrey e Eugene McCarthy strapparono ai sostenitori di Wallace. Si crearono frizioni all’interno del Naacp e divisioni nell’Aclu, che si spaccò nel 1951, con gli anticomunisti al comando dell’organizzazione e i non comunisti che abbandonarono il gruppo per formare l’Emergency Civil
Liberties Committee, un comitato di emergenza per le libertà civili. Tuttavia, il fatto più rilevante fu il manifestarsi del conflitto all’interno del movimento laburista. Nel 1946, il Cio, che da tempo aveva affiliati controllati dai comunisti, cominciò ad agire contro di essi. Superando la violenta opposizione dei comunisti, il Cio appoggiò il Piano Marshall, il tentativo di rielezione di Truman e la creazione della Nato. Infine, nel 1949 la direzione generale dell’organizzazione espulse undici sindacati. Come afferma Mary Sperling McAuliffe nel libro "Crisis on the Left: Cold War Politics and American Liberals, 1947- 1954" (Crisi della sinistra: la politica della Guerra Fredda e i liberali americani, 1947-
1954, ndt), sebbene alcuni tra gli affiliati espulsi fossero apertamente comunisti, altri vennero cacciati semplicemente per aver rifiutato di dichiararsi anticomunisti, in netto contrasto con la mentalità del Fronte popolare che ha determinato l’opposizione di MoveOn alla guerra in Iraq. I "deboli" tacciarono l’atto del Cio di maccartismo, ma la decisione fugò ogni dubbio sull’impegno del movimento laburista
americano nella causa anticomunista. E quell’impegno divenne una parte fondamentale della politica estera della Guerra Fredda. Già nel 1944, il rivale più conservatore del Cio, l’American Federation of Labor (Afl, Federazione americana del lavoro), aveva creato il Free Trade Union Committee (Ftuc, Comitato dei sindacati liberi), che lavorava alla costruzione di un movimento laburista antitotalitario nel mondo. Tra il 1947 e il 1948, il Ftuc contribuì a creare un’alternativa alla Confederazione generale del lavoro francese, controllata dai comunisti, aiutò i sindacalisti socialisti a distribuire opuscoli anticomunisti nella zona della Germania controllata dai sovietici, e aiutò gli anticomunisti ad assumere il controllo della Confederazione del lavoro in Grecia. Agli inizi degli anni 60, l’Afl-Cio, reduce da una recente fusione, assisteva gli anticomunisti anche nel Terzo mondo, mentre l’American Institute for Free Labor Development (Istituto americano per lo sviluppo del lavoro libero) addestrava 30 mila sindacalisti dell’America Latina tramite corsi che ponevano "un’enfasi particolare sul tema della democrazia in opposizione al totalitarismo". Nel 1969, nel libro "American Labor and United States Foreign Policy" (Laburismo americano e politica estera degli Stati Uniti, ndt), Ronald Radosh poteva rilevare il "totale assorbimento dei leader laburisti americani nell’ideologia del liberalismo della
Guerra fredda". Un tale assorbimento fu importante. Creò alla base del Partito democratico un gruppo
di sostenitori favorevoli al connubio tra giustizia sociale in patria e anticomunismo aggressivo all’estero. Oggi, tuttavia, il movimento laburista americano è in gran parte disgiunto dalla guerra contro l’Islam totalitario. Sebbene indipendenti, i sindacati di ispirazione liberal sono un elemento essenziale nella battaglia contro la dittatura e il fanatismo nel mondo musulmano. La lotta contro l’Unione Sovietica fu una questione più semplice, naturalmente, dal momento che i sindacati avevano visto il comunismo da vicino. E l’odierno Afl-Cio non intende epurare i sindacati membri che ignorano la sicurezza nazionale. Tuttavia, se elementi del laburismo americano si introducessero nel movimento per la riforma nel mondo musulmano, si creerebbe una base a supporto dei Democratici che pongono la vittoria nella guerra al terrorismo al centro delle proprie campagne. Lo stesso vale per i gruppi femministi, per i quali i diritti delle donne musulmane rappresentano un ovvio interesse. Se tali organizzazioni giudicassero i candidati in base all’impegno profuso nella promozione del liberalismo nel mondo musulmano, e non semplicemente in virtù degli interventi in favore della pianificazione familiare internazionale, anch’esse cambierebbero sottilmente l’immagine della sicurezza nazionale all’interno del partito democratico. Una sfida alle femministe "facilmente plagiabili" che si sono opposte alla guerra in Afghanistan e ai sindacalisti laburisti con un’innata diffidenza per la potenza americana potrebbe causare un aspro conflitto interno. Oggi, però, non esiste una Casa Bianca indulgente che metta in atto politiche liberal antitotalitarie. E non esisterà mai, se i liberal non smetteranno di dissimulare le differenze fondamentali per rincorrere l’unità. Ovviamente, Al Qaeda e l’Unione Sovietica non sono la stessa cosa. L’Urss era una superpotenza totalitaria. Al Qaeda si limita a
proclamare un’ideologia totalitaria, che fortunatamente ha avuto scarso accesso agli strumenti del potere di Stato. Il comunismo era meno estraneo, da un punto di vista culturale, e questo ha offerto maggiori opportunità di rivolta interna, ma ha anche fatto sì che gli Stati Uniti potessero approntare più
facilmente una risposta ideologica. Le popolazioni del mondo musulmano contemporaneo considerano le intenzioni degli Stati Uniti con un cinismo di gran lunga maggiore rispetto ai popoli dell’Europa orientale durante la Guerra fredda, pur continuando ad anelare a quelle libertà che gli Stati Uniti incarnano. Tuttavia, nonostante queste differenze, il totalitarismo islamico – come il totalitarismo sovietico prima di esso – minaccia gli Stati Uniti e le aspirazioni di milioni di uomini in tutto il mondo. E finché esisterà questa minaccia, l’obiettivo primario del liberalismo dovrà esserne la sconfitta. I metodi per abbattere l’Islam totalitario sono un argomento legittimo nel dibattito liberal interno. Ma la centralità dell’impegno non lo è. Riconoscere che i liberali affrontano un nemico esterno più pericoloso, e più illiberale, di George W. Bush dovrebbe essere il test al tornasole di una sinistra rispettabile. Oggi la guerra al terrorismo è parzialmente oscurata dalla guerra in Iraq, che ha reso i liberali cinici in merito agli obiettivi della potenza americana. Tuttavia, anche se l’Iraq è paragonabile al Vietnam, esso non rende vana la lotta al terrorismo più di quanto il Vietnam abbia reso vana la lotta contro il comunismo. Il jihad globale ci accompagnerà a lungo dopo che le truppe americane avranno cessato di morire a Falluja e a Mosul. E così, il trionfo o il fallimento del liberalismo dipenderà dalla sua possibilità di tornare a essere, come nella definizione di Schlesinger, "una fede combattiva". Di tutte le lezioni che i liberali contemporanei possono apprendere dai predecessori di cinquant’anni fa, forse la più importante è che la sicurezza nazionale può essere una chiamata. Non sono solo le battaglie per i matrimoni gay e per l’assistenza sanitaria universale a vantare un diritto legittimo sull’idealismo liberal, ma anche la lotta per proteggere gli Stati Uniti diffondendo la libertà nel mondo musulmano. Una simile battaglia può anche fornire l’obiettivo morale auspicato da una nuova generazione di liberal, così come è stato per gli uomini e le donne convenuti al Willard Hotel.
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