Gli Stati Uniti devono spingere israeliani e palestinesi all'accordo
il punto di vista di Bernard Lewis sul dopo-Arafat e sulla ripresa dei negoziati tra israeliani e palestinesi
Testata: Corriere della Sera
Data: 30/12/2004
Pagina: 18
Autore: Bernard Lewis
Titolo: La morte di Arafat e i negoziatoi risorti
Il CORRIERE DELLA SERA di giovedì 30 dicembre 2004 pubblica un articolo di Bernard Lewis sulle possibilità di soluzione del conflitto israelo-palestinese. Sebbene caratterizzato da uno scetticismo a nostro avviso ingiustificato riguardo alla disponibilità al dialogo del governo Sharon, si tratta di un testo equlibrato e di grande rilievo, che indica in un forte coinvolgimento degli Stati Uniti e in una ripresa del processo diplomatico interrotto a Camp David da Arafat la via per la soluzione del conflitto.
Ecco l'articolo:

Da vivo, Yasser Arafat è stato al centro delle speranze e delle paure di due popoli. Per i palestinesi era il padre della nazione, l'uomo che aveva preso un popolo semidimenticato e l'aveva portato alla coscienza del mondo. Per gli israeliani era il padre del terrore, il negoziatore che parlava di pace ma non rinunciava mai all'obiettivo di distruggere Israele.
Da morto, Arafat ha fatto rinascere i colloqui di pace fra Israele e Palestina. Il governo di destra israeliano, che negli ultimi anni di Arafat si rifiutava di incontrare i funzionari palestinesi, sta dando segnali nei confronti dell'Autorità Palestinese. I palestinesi, che si preparano a votare il successore di Arafat alla presidenza, parlano della possibilità di un processo politico in direzione della pace. Può la morte di un leader dare spazio a una svolta in questa strada insanguinata? Sì, credo che possa. Il motivo è che gli israeliani di tutto lo spettro politico erano arrivati a considerare Arafat un ostacolo al negoziato. Fra gli israeliani favorevoli alla pace il leader palestinese era un motivo di frustrazione. Fra coloro che si opponevano a qualsiasi soluzione con i palestinesi era un pretesto per rifiutarsi di negoziare.
Ma questa nuova sensazione di possibilità non è sinonimo di ottimismo. Data la realtà, soltanto uno sciocco potrebbe pensare che si arrivi alla pace in tempi brevi.
Per molti anni sono stato ottimista sul conflitto. La formula per la sua soluzione era ovvia e, pensavo, inevitabile: Israele si sarebbe ritirata dalla Cisgiordania e da Gaza, territori occupati nella guerra del 1967, e i palestinesi avrebbero avuto lì il loro Stato, con capitale Gerusalemme Est, prevalentemente araba.
Gli ultimi quattro anni hanno lasciato un'eredità di paura e di ostilità reciproche che soltanto la più eroica delle leadership potrà riuscire a far superare. Dov'è una leadership del genere? Israele ha un primo ministro, Ariel Sharon, la cui vita politica è stata spesa ad abbattere il sogno dei palestinesi. E' stato il più forte fautore della costruzione di insediamenti ebraici nei territori palestinesi.
Ha enfatizzato l'uso della forza militare, invece del negoziato politico, come via per la sicurezza di Israele.
Oggi Sharon propone il ritiro di poche migliaia di coloni dalla Striscia di Gaza. E' il segnale di un cambiamento? Gli scettici dubitano. Henry Siegman, del Council on Foreign Relations, ha osservato che il piano di Sharon lascerebbe a Israele il controllo dei confini di Gaza e che quindi il territorio esisterebbe sostanzialmente come « una grande prigione isolata dal resto mondo » .
Sul versante palestinese c'è Mahmoud Abbas, probabile prossimo presidente dell'Autorità. E' un moderato, contrario alla violenza. Ma come può controllare i tanti che credono alla violenza? Il controllo è la sola cosa che l'israeliano medio voglia vedere da parte palestinese più di qualsiasi altra: controllo degli estremisti violenti e, all'interno, fine della corruzione e della piccola tirannia.
Se ci dev'essere una possibilità di pace negoziata, l'opinione pubblica israeliana è cruciale. Un Nelson Mandela palestinese avrebbe disarmato le paure israeliane. Ma Yasser Arafat non ha mai saputo passare da leader guerrigliero a statista. Negli anni dell'esilio ho intervistato Arafat più di una volta, a Beirut e a Tunisi. L'ho sempre trovato sfuggente, intento ad accumulare punti in retorica invece che a dire chiaramente che accettava Israele e si impegnava a vivere in pace a fianco di Israele. Fra i palestinesi c'è una percentuale di professionisti di classe media ( medici, avvocati, giornalisti) più ampia che in qualsiasi altro Paese arabo. Ne conosco molti assolutamente convinti della soluzione dei due Stati, così come molti degli israeliani che conosco. Ma non è chiaro che il genere di leadership necessaria possa emergere dalla sofferenza e dal caos della vita palestinese nei territori occupati.
Esistono inoltre forze che, da entrambe le parti, rendono scoraggiante la prospettiva di pace.
I palestinesi insistono sul « diritto al ritorno » : il diritto di milioni di rifugiati ( le famiglie di coloro che furono mandati via o lasciarono Israele alla sua nascita nel 1948) a tornare nelle loro case. Il loro ritorno porrebbe fine all'idea di Israele come Stato ebraico. Ai negoziati del 2000 a Camp David, Barak aveva proposto un diritto al ritorno simbolico: in piccole quantità, controllate da Israele.
Che la richiesta persista nell'immaginario palestinese è dimostrato dal fatto che Mahmoud Abbas l'ha fatta sua nella campagna per le presidenziali.
Da parte israeliana, la realtà scoraggiante è rappresentata dai coloni. Una manciata di coloni della Striscia di Gaza ha creato a Sharon un problema politico complicato rifiutandosi di andar via.
I 240 mila coloni della Cisgiordania hanno un peso politico molto superiore, e alcuni di loro hanno minacciato di resistere con la forza a qualsiasi piano di smantellamento.
Questi sono alcuni dei motivi che impediscono l'ottimismo. Se vanno superati, la leadership dovrà venire dall'esterno. In termini pratici, dagli Stati Uniti. George W. Bush, durante il suo primo mandato, ha ridotto l'interesse americano nei confronti del conflitto israeliano- palestinese. Si è unito al boicottaggio israeliano verso Arafat e ha accolto Sharon come un uomo di pace. L'amministrazione Bush ha obiettato, nel luglio scorso, alla promessa non mantenuta del governo Sharon di smantellare gli insediamenti non autorizzati.
Alla morte di Arafat sono seguite rinnovate espressioni di interesse da parte di Washington. Ma per dare un contributo decisivo occorrerà molto di più che un'intensificazione dell'attività diplomatica. Credo che alla fin fine occorrerà una decisione da parte degli Stati Uniti e dei suoi partner impegnati nell'impresa che culmini nell'offerta di un loro piano di pace.
Sarà necessariamente qualcosa che si avvicini a quanto proposto dal presidente Bill Clinton dopo Camp David, una versione dell'offerta di Barak emendata per garantire ai palestinesi uno Stato contiguo e praticabile. Bush potrà anche essere riluttante a scontrarsi con gli elementi della comunità ebraica americana che si oppongono a concessioni ai palestinesi. Condoleezza Rice, la sua nuova segretario di Stato, non ha esperienza nel conflitto israeliano- palestinese. Ma se Bush deve lasciare un segno costruttivo in Medio Oriente dopo le sofferenze dell'Iraq, sono questi il posto e il modo per farlo.
E, dopo tutto, c'è un motivo per sperare fino all'ultimo. Palestinesi e israeliani, sfiniti da generazioni di conflitto, aspirano entrambi alla pace. Guidati dall'esterno, possono essere pronti a cedere le loro idee massimaliste in cambio della sicurezza del riposo.
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