Il doppio standard di chi reputa che Israele, e solo Israele, sia obbligata a ritirarsi da territori conquistati in una guerra difensiva
reportage tra i coloni di Gaza che non vogliono andarsene
Testata:
Data: 28/12/2004
Pagina: 2
Autore: Francesco Grandi - Jacopo Tondelli
Titolo: Sharon ci deporti con i treni, se ci riesce
Anche IL RIFORMISTA di mercoledì 28 dicembre 2004 pubblica un reportage dagli insediamenti a Gaza (si vedano in proposito i tre articoli di Fiamma Nirenstein pubblicati da LA STAMPA e ripresi da Informazione Corretta). Senza entrare nel merito delle ragioni del piano di ritiro da Gaza e di quelle dei suoi oppositori osserviamo che, in un articolo altrimenti corretto, alcune domande rivolte ai rappresentanti dei coloni appaiono tendenziose.
Chiedere se non sia il diritto internazionale ad obbligare i coloni ad andarsene significa presentare come oggettiva un'interpretazione sicuramente dubbia delle risoluzioni dell'Onu in materia e trascurare che a nessuno Stato che abbia vinto una guerra che non aveva iniziato la comunità internazionale ha mai chiesto ciò che chiede a Israele.
Bisogna ammettere che le argomentazioni dei coloni colpiscono nel segno quando segnalano questo doppio standard.

Ecco l'articolo:

Gaza. Ad Ashqelon finisce l’Israele "normale". Lontana da Gerusalemme e dalla sua metafisica ostentata, e distante dall’orientalismo caotico e affascinante di Tel Aviv, Ashqelon mostra una faccia residenziale, di palmizi e vie per il mare, e una popolare e grigia, dove vivono immigrati russi, religiosi sefarditi e falascià. Anche al frequentatore abituale di questa terra, Ashqelon suona come un nome già sentito, e niente più. Ma da qui parte l’autobus numero 36, coi vetri doppi e opachi, che punta dritto verso le abitazioni dei circa settemila israeliani, che ancora vivono nella Striscia di Gaza. Il capolinea è Moraq, il più meridionale e isolato tra gli insediamenti dei coloni ebraici. Per arrivarci, il tragitto dell’autobus tocca tutti gli insediamenti, lasciando per la strada - perlopiù - giovani militari e qualche residente. Nella più popolosa delle colonie, Newe Deqalim, duemila abitanti in un pezzo di terra semplicemente magnifico, ci attende Michael, trentottenne vice-responsabile della sicurezza per tutte le colonie di Gaza. Un uomo importante, dunque, in un luogo che alla sicurezza affida molte delle proprie risorse, e al senso di assedio, forse, buona parte della propria odierna identità pubblica. Sulla porta aperta della sua villetta, a due passi dal mare, sta un adesivo del partito di estrema destra fondato da Ghandi Zevi, ministro del Turismo che - in polemica col "moderatismo" di Sharon - si dimise nel 2001, poco prima di essere assassinato dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Nella sua casa ci accoglie con la voglia di raccontarsi e di raccontare. La sua storia, anzitutto, una delle tante possibili solo in questa terra. Michael nasce in Germania, vicino ad Obersdorf, da famiglia cristiana. Più di dieci anni fa, inizia il percorso che lo porterà alla conversione all’ebraismo, completato nel 1996, quando già viveva in Israele da due anni. Nello stesso anno - «quasi per caso», racconta - scopre Gush Qatif, l’area dove sorgono alcune delle colonie nella Striscia, e decide che sarà casa sua.
Parla delle sue scelte da uomo realizzato e convinto, e anche sul progetto governativo di ritiro integrale dalla Striscia di Gaza ha una parola definitiva: «Sarà l’inizio di una guerra civile». Ce la spiega così: in Israele, secondo lui, ci sono più di un milione di persone pronte a sostenere la "resistenza" dei coloni. Duecentocinquantamila sono i "colleghi" del West Bank - «quello che voi chiamate West Bank», dice, e che per lui è semplicemente Israele. Altri duecentocinquantamila sono gli israeliani che vivono sulle alture del Golan, accomunate da Michael ai territori su cui dovrebbe sorgere lo Stato palestinese. L’equiparazione, invero, è forse impropria, dato che un accordo di pace con la Siria non è certo all’ordine del giorno. Poi - dice Michael - c’è un altro mezzo milione di israeliani non coloni, ma favorevoli alla loro permanenza. Un consistente appoggio popolare ai coloni di Gush Qatif, prosegue, si dimostrò alla festa dell’Indipendenza di due anni fa. «Sharon aveva da poco annunciato il proposito di disimpegno da Gaza. Per la festa dell’Indipendenza, in aprile, invitammo la cittadinanza israeliana a una manifestazione di solidarietà con le nostre ragioni. Polizia ed esercito prevedevano al massimo ventimila presenze, ridicolizzando le nostre previsioni. E invece si mobilitarono quasi duecentomila persone da tutto Israele, e molti non riuscirono nemmeno ad arrivare a Gush Qatif, perché la strada era bloccata fino ad Ashqelon». E’ comunque una minoranza - e Michael lo sa - ma capace di rigirare dolorosamente il coltello nella piaga dell’innegabile frattura che divide la società israeliana: da un lato una maggioranza che crede a una pace possibile nella normalizzazione dei confini, dall’altro una minoranza che invece, pur con diverse sfumature, si affida ancora al mito della frontiera. Michael spiega con parole chiare le convinzioni di chi sta sul suo lato della barricata: «E’ l’inizio della fine dello Stato d’Israele» dice, ma aggiunge: «Quando proveranno a procedere, credetemi, scoppierà un tale caos che se anche, dopo tutto, riusciranno a cacciare noi, a nessun governo passerà per la testa di evacuare le colonie in Cisgiordania».
Colpisce il senso di isolamento, di assedio permanente e multilaterale dai media israeliani, che Michael, e con lui tutti i coloni di Gaza, esprimono. «La stampa è quasi tutta di sinistra, e quindi sta con Sharon. Per non parlare di voi europei, che avete riverito il terrorista Arafat finché è morto. Ma su questo - dice - possiamo biasimare solo noi stessi: dovevamo chiarire la questione molto tempo fa, espellendo le rappresentanze diplomatiche di paesi che sostengono il terrorismo». E cita la Francia. Ci invita a un tour per le colonie, in luoghi cui solitamente non è dato facile accesso. Ci ripete che vedremo posti bellissimi: «Perché dovremmo andarcene?» Obiettiamo che forse il diritto internazionale dovrebbe prevalere sul senso estetico. «E che importa il diritto internazionale? Nulla. Non credo che il diritto internazionale ammetta il terrorismo suicida, né i massacri commessi dalla Russia, eppure nessuno si preoccupa. Perché vi preoccupate sempre e solo di ciò che facciamo noi?». Mentre usciamo gli chiediamo - a lui, tedesco, ed "ex-cristiano" - cosa pensi delle feroci polemiche suscitate dall’iniziativa di alcuni suoi concittadini di protestare con una stella di Davide arancione - colore della bandiera degli insediamenti di Gush Qatif - cucita sui vestiti, in provocatorio paragone con il tragico passato della Shoah. «Credo sia stata una grande idea, l’unico modo per far parlare di noi e delle nostre ragioni». E quando gli facciamo notare che sarà pur vero che si è parlato di loro, ma in termini non certo favorevoli, lui risponde: «Tanto non si parla mai, in nessun caso, a nostro favore. E, comunque, a Gush Qatif vivono alcuni sopravvissuti. Non tutti loro, ma alcuni sono favorevoli all’iniziativa. La questione-Olocausto, comunque, in Israele, è ormai marginale. Credetemi: queste polemiche interessano di più a voi europei e alla Diaspora». Però poi, facendo sua quella stessa polemica, provoca dicendo: «Perché non usano dei treni per portarci via? Se bisogna "trasferire" gli ebrei, tanto vale farlo bene…». Corregge parzialmente il tiro manifestando una perplessità di colore: invece di questo arancione, troppo simile a quel drammatico giallo, avrebbe preferito una stella bianca e blu, come la bandiera di Israele.
La risolutezza dei coloni che credono al Grande Israele e considerano la Striscia roba loro ha forme visibili, e disegni chiari. Mentre con un fuoristrada della sicurezza ci accompagna in questo singolare percorso, Michael ci mostra, tra un buco di granata e una casa sventrata, i nuovi progetti di espansione. In quasi tutti gli insediamenti che visitiamo - Newe Dekalim, Moraq, Qatif e Netzarim - ci sono case che crescono, e altre, nuove di zecca, che attendono di essere riempite. «Ogni comunità ha una commissione che valuta le richieste di nuovi ingressi, secondo criteri propri. Non tutti i villaggi, ad esempio, sono rigidamente religiosi, anzi, ce n’è uno che è laico, e un altro ammette sia religiosi che non. Ma di questi tempi la selezione è compito particolarmente delicato, visto che dobbiamo guardarci dagli infiltrati». In via di completamento, è anche una grossa strada che dovrebbe cingere e collegare tutte le colonie, e insieme segnare la linea di una lunga protezione ad avanzata tecnologia, visto che, poco distanti, sorgono numerosi villaggi arabi. E se qualcuno abbozza sorrisi ironici a ogni nuova costruzione o progetto che la nostra guida ci mostra, lui replica: «Ride bene chi ride ultimo, credetemi, il piano di evacuazione non riuscirà». Davanti a molte case stanno cartelli con scritte in ebraico: «Vivremo a Gush Qatif per sempre», o «La Famiglia di Yitzak non si muove di qua». Michael non vede alcuna ragione per la dismissione di Gaza, e neppure crede che questa scelta possa in alcun modo migliorare la vita dei palestinesi. Ce lo dice mentre, costeggiando il mare su una strada sterrata, incontriamo gli abitanti di alcuni villaggi arabi che, completamente cinti dalle colonie, non hanno alcun contatto con il resto della Striscia di Gaza. Sono vecchi con carrettini trainati da muli, bambine velate che tornano da scuola, qualche giovane che vende enormi sacchi di patate per pochi sheqel, e fatiscenti barche di pescatori. «Con questi - spiega - non abbiamo problemi, loro non attaccano noi, e noi li lasciamo stare. Anche loro, in fondo, temono il giorno dell’evacuazione delle colonie. Questo paradiso incontaminato sarà spazzato via da catene alberghiere e ville per ricchi».
Ci troviamo, di colpo, davanti a un’enorme montagna di terra solcata da ruspe e da caterpillar, impervia anche per il fuoristrada. Non è - ci spiega Michael - un cantiere per l’espansione stradale, ma una base militare per un’operazione di sicurezza che, con quelle ruspe e caterpillar, si svolgerà nei prossimi giorni. Alla base ci mostrano, come pezzi da collezione, i resti di un razzo Cassam che giorni fa ha raggiunto la base senza fare danni. Su una lunga carraia che costeggia la zona ebraica, in lontananza l’orizzonte è segnato dai palazzi di Gaza City, l’area urbana più popolosa del mondo. «Se anche ce ne andiamo - dice Michael - libereremo solo l’otto per cento della Striscia, che può in ogni caso essere abitata in modo sostenibile da ventimila persone al massimo. Che guadagno ne avrebbero i palestinesi?» In lontananza le ininterrotte raffiche di kalashnikov non sembrano consentire queste filosofie urbanistiche, ma neppure preoccupare il nostro interlocutore, che anzi spegne i motori perché possiamo ascoltarle meglio. Di colpo, dopo una brusca accelerazione per uscire in fretta da un tratto di strada particolarmente esposto al fuoco da Rafiah, sta un muro enorme, altissimo, invalicabile. «E’ il muro di sicurezza più alto di Israele, misura dodici metri», che sembrano tuttavia molti di più, perché è costruito in cima a una asperità artificiale di una ventina di metri. «Non ha nulla a che vedere con la difesa costruita in Cisgiordania, non risponde a ragioni strategiche o politiche, ma solo a istanze di sicurezza». Poco lontano, la prima linea delle case di Moraq portano profondi i segni delle raffiche, molti tetti sono stati rifatti di recente e - da queste parti - le morti si contano numerose, indicando le case colpite da razzi Cassam e colpi di mortaio "riusciti". «Gaza è la vera capitale decisionale dell’Anp, oggi. E’ piena di nemici di Israele, e di terroristi: l’esistenza delle colonie, qui, garantisce la possibilità di avvicinare e controllare i punti strategici, muovendosi in territorio amico. Si liberi delle colonie, Sharon, e vedrà quante decine di soldati dovrà sacrificare ogni volta che avrà bisogno di realizzare un’operazione nella Striscia».
Ma è una bella giornata di sole e di calma, anche se la notte prima oltre venti colpi di mortaio hanno raggiunto Gush Qatif, e si prepara l’ennesima manifestazione di coloni. Le palme sono cariche di datteri, i bambini vociano nei numerosi asili, la gente si ferma, parla, saluta. «E’ la mia Miami», dice Michael, esprimendo l’unico concetto paradossalmente inequivoco: la bellezza del posto, in cui questi settemila israeliani abbarbicati al passato vivono, e che loro hanno costruito sulle spiagge e i deserti, ripercorrendo e riscrivendo la mitologia fondativa del primo sionismo. Un enorme e modernissimo centro sportivo sovrasta Newe Deqalim, una grande Yeshiva sta poco lontano, e poco sotto, c’è anche un piccolo centro commerciale, con negozi e locali. Per le strade si incontrano anche volti orientali. Sono thailandesi, che nel villaggio lavorano a centinaia e che talora cadono vittime di una guerra non loro, come è successo poche settimane fa a una giovane donna. Ci sono anche alcune famiglie di ebrei indiani, figli di uno degli ultimi ceppi ebraici, scoperto anni fa, e riconosciuti come ebrei, perché rispettavano usi e tradizioni riconducibili alla Torah. Una storia tortuosa li ha condotti quaggiù, insieme, dall’estremo oriente. Nel pomeriggio, un bel parco giochi in sabbia si popola di bambini. La sua costruzione e tutti gli attrezzi sono stati donati da un gruppo di cristiani norvegesi. «Ci amano - spiega Michael - come anche molte chiese cristiane americane, le cui rappresentanze ci vengono a trovare, portando aiuti, facendo donazioni e mostrando in ogni occasione la loro solidarietà». Secondo voi perché vi amano? «Perché sanno che abbiamo ragione noi», risponde sardonico. Colpisce la voglia di normalità, di regolare quotidianità da middle-class di un qualsiasi villaggio sorto sul mare, un mare qualsiasi dell’Occidente evoluto. Parte integrante di questa impossibile normalità è proprio la guerra permanente di cui i settler sono protagonisti, e per questo a pochi metri dal parco giochi voluto dagli evangelici norvegesi, sorge un poligono di tiro. «E’ aperto e utile a tutti i membri del villaggio. Ogni tanto anche chi non fa il mio lavoro viene a esercitarsi». Si narra di anni in cui - la prima intifada non c’era ancora stata - i rapporti con gli autoctoni arabi erano distesi, e addirittura cordiali. Ma il tempo corre, e mentre la dead line estiva posta da Sharon sembra incalzare, nessuno più pensa a quel passato che sembra appartenere ad altre ere geologiche, né a una qualsiasi pace possibile. «I palestinesi non si accontenteranno certo dell’evacuazione di Gaza, e neppure del West Bank. Non si accontentano mai, non si sono mai accontentati. Anche per questo rimarremo qua. La pace è probabilmente impossibile, comunque. E allora? Ne vedrete delle belle: al momento dell’evacuazione basterà un incidente a fare precipitare la situazione. Chessò, uno dei nostri figli schiacciati per sbaglio da una macchina della polizia o dell’esercito nella confusione di quei giorni».
Ritorniamo da dove siamo partiti: alle prospettive di una guerra civile tra una maggioranza favorevole o quantomeno disposta ai compromessi di cui si nutre la democrazia, e una minoranza che non concepisce la trattativa: il nemico era Arafat, ma oggi è Ariel Sharon. «Bella democrazia, quella di Sharon. Non aveva la maggioranza coi suoi e che ha fatto? Li ha fatti fuori, per coalizzarsi con la sinistra. Se questa è la democrazia». Democrazia parlamentare, tanto più in un paese che appoggia il piano di ritiro in larga maggioranza. Insomma, villaggi impossibilmente normali che vivono in un doppio assedio, e sentono l’isolamento come una dolorosa costrizione ma probabilmente, a questo punto della vicenda storica, anche come un indispensabile collettore identitario. Forse in questa luce si può comprendere l’apposizione di stelle di Davide ai vestiti, nella costruzione di un paragone che nessuno può pensare avere alcun fondamento storico, e che certo mirava a dare forza e identità a questa piccola comunità al suo interno, più che a ottenere un improbabile supporto nel paese e nel mondo.
Riderà bene chi riderà ultimo, c’ha detto Michael per tutto il giorno. E con lui i cartelli apposti alle case, le stelle arancioni, le nuove strade e le case che presto saranno abitate da nuovi coloni. Ma mettiamo che alla fine riderà Sharon con la maggioranza degli israeliani. Che sarà, allora, di Michael? «Non lo so. Rimarrò in Israele, immagino. Sono ebreo e sono sionista. Ma recentemente ho ricevuto una proposta interessante. Una compagnia che si occupa di sicurezza in Iraq mi ha offerto un contratto laggiù. Ci sto pensando».
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