Intervista acritica e faziosa al presidente ad interim dell'Autorità nazionale palestinese
di u.d.g.
Testata:
Data: 27/12/2004
Pagina: 6
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: "Dalle urne emergerà la voglia di pace dei palestinesi"
Lunedì 27 dicembre 2004 L'UNITA' pubblica un'intervista di Umberto De Giovannangeli a Rawhi Fattuh, presidente ad interim dell'Autorità nazionale palestinese.
L'introduzione di u.d.g. manifesta subito la faziosità del pezzo: "il dopo Arafat", scrive il giornalista, "è segnato anche dalla sofferenza di un popolo, quello palestinese, prostrato da quattro anni di intifada e che oggi vive ingabbiato in città e villaggi che la barriera di sicurezza israeliana - il muro dell'apartheid per i palestinesi - ha trasformato in tante prigioni a cielo aperto".
L'apparente equidistanza tra la versione israeliana (la barriera di separazione è una "barriera di sicurezza") e quella palestinese (la barriera è in realtà un "muro dell'apartheid") è appunto solo apparente: in realtà affermando che i palestinesi sono "ingabbiati" in "prigioni a cielo aperto" u.d.g. adotta la versione della propaganda anti-israeliana.
La quale si basa, ricordiamolo, su falsità e omissioni: falsità, perché la barriera è quasi interamente un reticolato con sensori eletronici, non un muro, non circonda nessuna città palestinese da quattro lati e include numerosi passaggi per permettere ai palestinesi di raggiungere campi e luoghi di lavoro; omissioni, perché la barriera ha ridotto del 90% gli attentati suicidi riusciti, che avvengono ormai solo dove ancora non è stata completata, fatti che rendono impossiblie negare che la sua funzione sia quella di garantire la sicurezza.
Nel corso dell'intervista u.d.g. accoglie acriticamente le affermazioni propagandistiche di Fattuh, il quale accusa Israele di volere una pace che rispecchi i rapporti di forza e non la giustizia. Sono semmai i palestinesi che hanno tentato di influenzare i negoziati ricorrendo al terrore, in realtà, ad aver ragionato in questi termini.
Fattuh propone poi i consueti luoghi comuni sul terrorismo causato dalla "mancanza di prospettive", da imputarsi ovviamente a Israele, per dire, senza contraddittorio, che l'Anp non reprimerà, almeno per il momento, le organizzazioni terroristiche.
Importante è il passo sui profughi: Fattuh parla esplicitamente di "risarcimento" e di integrazione nel futuro Stato palestinese, dunque non in Israele. Il "risarcimento" però non dovrà essere, a suo dire, "solo economico".
Sarebbe stato opportuno chiedergli, a questo punto, a quale forma di "risarcimento" non "economico" pensi.

Ecco l'articolo:

Il dopo Arafat è anche una città aperta. Almeno per una notte, almeno fino al 9 gennaio. Il dopo Arafat si rispecchia nella speranza di Betlemme che ha rivisto le sue strade popolarsi di nuovo di pellegrini provenienti da tutto il mondo. Ma il dopo Arafat è segnato anche dalla sofferenza di un popolo, quello palestinese, prostrato da quattro anni di intifada e che oggi vive ingabbiato in città e villaggi che la barriera di sicurezza israeliana - il muro dell'apartheid per i palestinesi - ha trasformato in tante prigioni a cielo aperto. Il dopo Arafat è nella sfida di pace lanciata dalla nuova leadership palestinese. Una doppia sfida: a Israele e ai gruppi radicali dell'Intifada. «Il 2005 può essere l'anno della pace se tutti le parti coinvolte saranno animate dalla stessa volontà politica. I presupposti per raggiungere la pace esistono: sono quelli indicati dai negoziati di Taba e dalla stessa Road Map. È questa la strada su cui intendiamo muoverci». Ad affermarlo è Rawhi Fattuh, presidente ad interim dell'Autorità nazionale palestinese, già presidente del Consiglio legislativo palestinese (il Parlamento dei Territori). Assieme al capo dell'Olp, Mahmud Abbas (Abu Mazen), Fattuh ha presenziato alla messa di mezzanotte nella Basilica della Natività a Betlemme. In questa occasione l'Unità è riuscito ad avvicinarlo.
Betlemme città aperta. Cosa rappresenta per i palestinesi?
«Un segnale di speranza che dimostra la possibilità di raggiungere la pace. Ma ciò potrà accadere solo se altri muri, non solo fisici, cadranno…».
A quali «muri» si riferisce?
«Al muro del pregiudizio e a quello della presunzione di chi pensa che un accordo di pace debba essere la mera registrazione dei rapporti di forza imposti sul terreno. Questa pace non potrà mai reggere, perché è completamente sganciata dalla giustizia e dal diritto».
E qual è per Lei una pace giusta?
«Quella indicata dalle risoluzioni Onu, la pace fondata sul principio di due Stati che vivano uno a fianco dell'altro. È la pace che riconosca al popolo palestinese il diritto a vivere in uno Stato realmente indipendente, con una piena sovranità su tutto il proprio territorio nazionale, senza insediamenti ebraici al suo interno. Un diritto che si coniughi con quello alla sicurezza di Israele. È la pace istruita da Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, la pace dei coraggiosi».
Non tutti in campo palestinese sono però d'accordo con questa idea di pace.
«La grande maggioranza dei palestinesi lo è, e sono certo che questo orientamento emergerà con nettezza nelle elezioni presidenziali del 9 gennaio così come è emerso nelle elezioni municipali del 23 dicembre (26 i comuni coinvolti, Al Fatah ha conquistato 206 dei 306 da attribuire, Hamas 86, ndr.). I palestinesi lottano, e votano, per costruire il proprio Stato e non per distruggerne un altro (Israele)».
Il candidato di Al Fatah, Abu Mazen, il quasi certo successore di Yasser Arafat, ha affermato che subito dopo il gennaio sarà possibile riavviare i negoziati con Israele.
«La nostra intenzione è chiara: occorre riprendere da subito la trattativa sgomberando il campo da ogni pregiudiziale. Ciò significa che nessuna questione aperta potrà essere accantonata in nome di una inaccettabile pretesa di non negoziabilità».
Si riferisce al diritto al ritorno dei rifugiati?
«Anche. Ma lo stesso discorso vale per lo status di Gerusalemme e per la liberazione dei detenuti palestinesi, tra i quali Marwan Barghuti Non intendiamo usare la questione dei rifugiati per far saltare gli equilibri demografici di Israele. Voglio essere ancora più esplicito: quando parliamo di diritto all'esistenza di Israele, intendiamo Israele come Stato ebraico. Ma con la stessa nettezza diciamo che una pace giusta non può escludere il riconoscimento del diritto dei rifugiati a ottenere soddisfazione, ad essere parte dello Stato palestinese in formazione. Siamo pronti a discutere tempi e forme del risarcimento, non solo economico, ma non a sacrificare i nostri fratelli della diaspora trattandoli come "merce di scambio"».
Il premier israeliano Ariel Sharon si è detto disposto a concordare con l'Anp la gestione del ritiro da Gaza. Qual è la risposta palestinese?
«Quella che abbiamo nei giorni scorsi ribadito al premier britannico Tony Blair e al ministro degli Esteri italiano Gianfranco Fini: siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità ma quel ritiro dovrà inserirsi pienamente nell'attuazione di tutti i punti della Road Map; il ritiro da Gaza deve essere l'inizio di un percorso negoziale e non certo il suo terminale. Perché non si può chiudere gli occhi di fronte al fatto che mentre Israele è impegnato a pianificare il ritiro di 8mila coloni a Gaza, in Cisgiordania aumenta il numero degli insediamenti, sotto forma di "avamposti" e di nuovi quartieri, e cresce il numero dei coloni, già oggi oltre 230 mila. Non si può "liberare" Gaza e al tempo stesso rafforzare la colonizzazione della Cisgiordania e usare il muro per ghettizzare milioni di persone».
La Road Map prevede anche la fine della violenza e del terrorismo.
«Stiamo agendo per ricostruire su basi nuove i nostri servizi di sicurezza e abbiamo ribadito che nei Territori occorre ristabilire l'ordine e la legalità. D'altro canto, Abu Mazen ha più volte sottolineato la necessità di ripensare profondamente i caratteri della resistenza all'occupazione israeliana e di porre fine alla pratica terroristica, parlando esplicitamente di una Intifada popolare non violenta. Ma l'"arma" più efficace per combattere la violenza, spesso generata da rabbia, frustrazione, disperazione, da mancanza di prospettive, è quella della politica. Il 2005 può essere l'anno della svolta».
Ha collaborato Osama Hamlan
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