La comunità internazionale spera che Abu Mazen sia l'uomo della svolta
l'analisi di Fiamma Nirenstein
Testata: La Stampa
Data: 22/12/2004
Pagina: 10
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: L'intelligente scommessa sul futuro di Abu Mazen
LA STAMPA di mercoledì 22-12-04 pubblica a pagina 10 un articolo di Fiamma Nirenstein, "L'intelligente scommessa sul futuro di Abu Mazen", che riportiamo:
Gerusalemme e Ramallah sono in questi giorni il crocevia della diplomazie, delle speranze e anche delle scommesse di tutto il mondo. Chissà, pensano gli uomini di stato che cercano di dare una mano al nuovo corso post Arafat, che non sia la volta buona. E c’è un certo senso di baldanza nel buio di Ramallah in cui il ministro degli Esteri italiano Gianfranco Fini si avventura in un nuovo ciclo di rapporti con i palestinesi, quelli dell’epoca Abu Mazen. Le luci non sono ancora brillanti, i neon non tutti accesi, ma, notevolissimo evento, ha riaperto l’albergo City Inn che stava all’incrocio di tutti gli scontri dell’Intifada all’entrata nord di Ramallah. La città in cui da Gaza giungevano autobus carichi di ragazzi in cerca di divertimenti moderni, di qualche ristorante, di qualche posto dove si potesse ascoltare musica, e che si è trasformata nella città testimone dell’avventura finale di Arafat, sembra stropicciarsi gli occhi; qualcosa si muove; si capisce che ha voglia di svegliarsi dall’incubo dei quattro anni di sangue, funerali, tanzim, terrorismo, martiri, che le pesano addosso. Le case di Ramallah, tutte in pietra di Gerusalemme, molte moderne e ricche, osano, dopo l’avvento dell’incerta era Abu Mazen, mostrarsi non più come una retrovia della guerra della Mukhata, ma come una vera città anche con edifici di lusso a fronte del breve spazio quadrato dirupato e santificato dove si trovavano le stanze del rais.
Fini è venuto a prendere contatto con una realtà fragile ma carica di vitalità, quella del dopo Arafat, cui non a caso giungono nelle stesse ore anche Tony Blair e ministri egiziani e giordani. Vale la pena di scommettere, tenendo le dita incrociate. Il nome della scommessa è: Abu Mazen. La posta: una pace che aiuti una svolta democratica del Medio Oriente nel quadro della guerra contro il terrorismo.
E’ il disegno di Bush, è la ricchezza sia dell’Italia che dell’Inghilterra starci dentro, sia pure in modo variegato: l’Italia ha buone carte, con se ha l’amicizia dell’America che la rende uno dei tre Paesi europei credibili per Israele; e la storica simpatia verso i palestinesi, l’Europa alle spalle.
La scommessa si gioca soprattutto sulla capacità di mantenere l’ordine tramite una collaborazione diversa dei servizi di sicurezza al potere e con una gestiome dell’ideologia che serva a placare e non a eccitare gli animi. L’Italia non gioca affatto male le sue carte cercando di dare una mano nell’addestramento degli uomini della sicurezza: il problema di Abu Mazen è appunto contare sugli apparati armati. Qualcuno dice che se nel giro di un mese dall’elezione di Abu Mazen non si verrà a sapere che i capi sono cambiati, bisognerà cominciare a preoccuparsi. Per Abu Mazen si tratta di difendere a forza, fermando il terrore, un periodo di tempo che gli consenta, senza sgomitare troppo perchè è debole, di stabilire un regime dearafattizzato e di rimettere in moto la locomotiva della Road Map. Sembra che il consenso gli stia crescendo intorno anche a Gaza.
Abu Mazen ha portato a casa per i suoi grossissimi aiuti economici americani, europei e della World Bank, ha ristabilito il rapporto con il Kuwait, rotto dal 1991 dall’atteggiamento di Arafat nella guerra del Golfo, (e per i palestinesi è un paese di emigrazione e di guadagni fondamentali da cui i lavoratori sono stati espulsi); ha quasi sicuramente ottenuto la liberazione di almeno 150 prigionieri nel prossimo futuro, ha ricondotto la strategia di Sharon dall’unilateralismo alla trattativa. In cambio, oggi, alla cerimonia nel 40esimo giorno dalla morte di Arafat, invece di usare la solita formula "diritto al ritorno" per i profughi, ha detto "soluzione del problema dei profughi". E come togliere una pietra dal cammino della Road Map.
Ma il vero grave nodo è sempre il terrorismo. Abu Mazen vuole fermarlo, per questo cerca disperatamente un accordo fra tutte le fazioni. Può farcela? Qui la risposta è sospesa, finchè non fa un gesto concreto. E’ stato interessante notare come Nabil Sha’at con gesto innovativo, quando a Ramallah davanti alle telecamere anche palestinesi Fini gli ha detto che il terrorismo deve finire, chiamandolo per nome, non ha risposto come di prammatica «è tutta colpa dell’occupazione». Del resto Hamas è debole, la strategia di Arafat è fallita, lo si vede anche dal fatto che non si sta costruendo un monumento alla sua memoria: il mondo sta là a bocca aperta a guardare il nuovo spettacolo. Forse, è la volta che qualcosa si muove.
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