Israele e la Nato, la strategia di Al Qaeda, la possibile gara atomica tra Riad e Teheran, i militari garanzia della democrazia turca
analisi e scenari
Testata:
Data: 21/12/2004
Pagina: 3
Autore: un giornalista - Carlo Panella - Emanuele Ottolenghi
Titolo: Israele si avvicina alla Nato, e viceversa. Blair in missione - Dai messaggi di al Qaida alle stragi di sciiti in Iraq, l'ombra della crisi saudita - Risiko nucleare - Così il "quarto potere" militare ha sconfitto il terrore e creato l'islam moderato
A pagina 3 IL FOGLIO di martedì 21-12-04 pubblica un articolo intitolato "Israele sia avvicina alla Nato, e viceversa. Blair in missione":
Bruxelles. Il premier inglese, Tony Blair,
atterra oggi – primo leader occidentale a recarsi
in visita in medio oriente dopo la morte
di Yasser Arafat – in un Israele già diverso
rispetto a qualche settimana fa. Una serie
di segnali fa infatti credere che, dopo
anni di conflitto "freddo" e intermittente,
ma senza tangibili prospettive d’inversione
di tendenza, la situazione stia girando. C’è
appena stato il rilascio unilaterale, da parte
delle autorità israeliane, di 170 progionieri
palestinesi, scelti fra quelli che non si
sono "sporcati le mani di sangue". Il gesto è
stato presentato come una manifestazione
di buona volontà e come una risposta indiretta
al rilascio anticipato, da parte dell’Egitto,
di un agente israeliano da tempo detenuto
nelle carceri del Cairo.
Sul piano più strettamente politico, c’è il
passo in avanti fatto nelle trattative fra il
Likud del premier Ariel Sharon e il Labor
Party di Shimon Peres, che dovrebbero formare
una "grande coalizione". Non tutti gli aspetti dell’accordo sono definiti: Peres
non può ancora diventare vicepremier perché
ce n’è già uno (Ehud Olmert, del Likud)
e la Costituzione non ne prevede due, anche
se si può sempre cambiare. Anche la
spartizione dei portafogli non è ancora stata
finalizzata. Ma gli osservatori sono convinti
che l’alternativa a un eventuale fallimento,
le elezioni anticipate per il rinnovo
della Knesset, sia sgradita tanto al Likud
quanto ai laburisti. Il punto centrale dell’intesa
è rappresentato dall’esecuzione del
piano di ritiro da Gaza già entro l’estate del
2005, e domenica Sharon ha parlato dell’anno
che verrà come di "una chance storica
per un salto" in avanti in tutta la regione,
un’espressione echeggiata dal presidente
americano George W. Bush in una
conversazione con i giornalisti. Anche la visita
di Blair potrebbe portare qualche speranza:
Londra è già attiva in entrambi i
campi (specialisti britannici stanno addestrando
le forze di sicurezza palestinesi) e vorrebbe veder realizzato il progetto di una
mini conferenza di pace da tenere a Londra
all’inizio del 2005, una volta eletto il
nuovo presidente dell’Autorità palestinese.
Si parla anche di speciali stanziamenti dell’Unione
europea e della Banca mondiale
(anche James Wolfensohn sarà nella regione
a giorni) per sostenerlo.
E’ in questo contesto che si fa strada – per
ora solo nel dibattito fra addetti ai lavori –
l’ipotesi di un avvicinamento progressivo
fra Israele e la Nato. Tsahal, l’esercito, parteciperà
presto come osservatore a una serie
di esercitazioni dell’Alleanza e la prospettiva
che aderisca al programma Nato di
Partnership per la Pace – cui sono associati
anche paesi come la Georgia o l’Azerbaigian
– non appare così remota. Aderire al
programma non significa aderire all’Alleanza,
anche se la Partnership offre accesso
allo scambio di informazioni e a una certa
integrazione politico-militare. Andare oltre
questo livello di cooperazione solleverebbe
problemi tanto in alcuni degli attuali
paesi alleati (soprattutto in assenza di pace
in medio oriente) quanto in Israele, dove
si tende a privilegiare l’alleanza con gli Stati
Uniti, a diffidare dei quadri multilaterali
e a perseguire intese bilaterali ad hoc, come
quella con la Turchia. Ma secondo alcuni,
anche a Gerusalemme, servirebbe a rompere
un tabù e ad aprire una discussione
sul futuro strategico del paese in una prospettiva
di pace con i palestinesi, ma anche
di ingresso dell’Iran nel "club" nucleare,
di collasso saudita. Da questo punto di vista,
le garanzie di sicurezza e protezione offerte
dalla Nato potrebbero diventare interessanti.
Ma l’Alleanza atlantica potrebbe assumere
un ruolo per la sicurezza di Israele
anche prima, come garante di un accordo di
pace con i palestinesi, con forze Nato (americane
e europee) schierate in Cisgiordania
e impiegate in funzioni di addestramento,
cioè quello che i britannici (e la Cia) stanno
già facendo.
A pagina 3 dell'inserto un articolo di Carlo Panella, "Dai messaggi di al Qaida alle stragi di sciiti in Iraq, l'ombra della crisi saudita":
Tra minacce e inviti alla ribellione dei
vari Osama bin Laden contro il principe
reggente Abdullah, proteste in piazza e
arresti, la crisi saudita si evolve. Non c’è
più soltanto lo stillicidio di iniziative terroristiche,
ma ci sono anche le manifestazioni
di protesta, con incidenti di piazza, a
Riad, Gedda, Tabuk e nella regione di Hael.
Intanto, con un tempismo che molti osservatori
arabi hanno giudicato per nulla casuale,
il leader di al Qaida, o chi per lui, si
è fatto vivo con un messaggio di oltre un’ora,
preso da Internet e trasmesso da al Arabiya,
e poi sono arrivati altri messaggi contro
la corte di Riad sempre via web, sempre
firmati al Qaida. Nelle stesse ore, i siti del
terrorismo di matrice islamica sono stati intasati
da messaggi di gioia per gli attentati
in Iraq, a Kerbala e a Najaf, seguiti all’attacco
della scorsa settimana che aveva l’obiettivo
di uccidere lo sheikh Abdel Mehdi
Kerbalai (sopravvissuto), rappresentante
dell’ayatollah Ali al Sistani.
Le manifestazioni nella capitale, a Gedda
e in città periferiche non erano spontanee,
ma preparate e annunciate da giorni
da Londra, via al Jazeera, da Sadh Faqih,
leader del movimento al Islah, che ha dichiarato:
"Il regime saudita ha dimostrato
di non essere in grado di fare le riforme.
L’unica soluzione è dunque la sua caduta e
l’instaurazione di una monarchia costituzionale,
affiancata da un Parlamento democraticamente
eletto".
Come preannunciato, giovedì scorso a
Riad gli oppositori sono usciti dalla moschea
adiacente a via al Tahlya e a via Re
Fahad e hanno iniziato a manifestare. Le
forze antisommossa sono intervenute così
velocemente che l’inviato di al Jazeera ha fatto in tempo a dire, in diretta, che sentiva
degli spari: poi il collegamento si è interrotto.
A Gedda si è ripetuta la stessa scena
presso la moschea al Jafali. Al Islah afferma
che i fermati non sono meno di mille, i
testimoni oculari dicono che i feriti dai colpi
di fuoco sparati dalla polizia a Gedda, sono
molti, il portavoce del ministero dell’Interno,
Mansour al Turki, ammette soltanto
l’arresto di due persone "che avevano sparato
da una vettura" a Gedda.
Dal punto di vista politico, ha avuto successo
la sfida lanciata dai manifestanti, che
hanno preannunciato tempi e modi delle
proteste e che hanno dimostrato di riuscire
ad avere un qualche seguito. E’ questo un
altro sintomo dell’aggravarsi della crisi politica
saudita, su cui si inseriscono i molti
appelli della rete di al Qaida e di bin Laden,
che rilancia il suo jihad contro la corte
saudita: "Nella penisola arabica non possono
coesistere due religioni. E’ quindi necessario
espellere crociati ed ebrei. I dirigenti
sauditi devono affrettarsi a restituire
alla umma i suoi diritti, ogni ritardo spingerà
i giovani a impugnare le armi per un
jihad che è soltanto agli inizi. Il popolo si
sta svegliando e nessun organo di sicurezza
potrà mai fermarlo".
La rete di Osama bin Laden prende dunque
di mira anche gli ulema sauditi che nel
giugno scorso avevano chiesto di risparmiare
la vita dell’ostaggio americano Paul
Johnson (rapito a Riad e decapitato da Abdelaziz
al Muqrin) definiti "ulema pagati di
giorno e di notte". Larga parte dell’intervento
di bin Laden è stato dedicato all’Iraq,
definito "un’occasione d’oro per logorare
gli Stati Uniti dal punto di vista militare,
politico ed economico". La recente drammatica
serie di attacchi contro gli sciiti iracheni,
con 66 morti e più di 200 feriti, ultima
di una lunga offensiva iniziata nell’agosto
2003 che ha fatto più di trecento vittime,
dimostra come il terrorismo islamico sia
endogeno – non una reazione all’intervento
americano – ed esportato in tutta la regione
dalla crisi del regime wahabita saudita.
La caratteristica peculiare della setta
wahabita è l’odio nei confronti degli sciiti
"apostati e idolatri". Questa convinzione
porta il regime saudita a reprimere la minoranza
sciita che vive in Arabia Saudita e,
partendo da questa base condivisa, l’estremismo
terrorista di al Qaida e dei gruppi
iracheni legati ad al Zarqawi compiono
passo successivo, passando dall’emarginazione
sociale e politica alla pratica delle
stragi, anche per impedire l’affermazione
degli sciiti alle prossime elezioni.
E uno di Emanuele Ottolenghi, "Risiko nucleare":
Mohammed El Baradei, direttore dell’Agenzia
internazionale per l’energia atomica,
auspica che presto si giunga alla pace
tra Israele e palestinesi, insinuando come
essa sia il fondamento per un medio oriente
"libero da armi di distruzione di massa".
ElBaradei esprime una visione miope del
problema, illudendosi che il programma
nucleare iraniano sia in funzione difensiva
contro Israele. Ma la minaccia iraniana in
realtà va oltre. Il programma di Teheran,
combinato con lo sviluppo di un potenziale
missilistico balistico intercontinentale, mostra
come gli intenti iraniani siano espansionisti
ed egemonici e non mirino solo a
Israele, ma anche ai rivali regionali e ai loro
alleati occidentali, Europa in prima fila.
L’Iran non può aspirare a una parità strategica
convenzionale con i suoi avversari: i
principati del Golfo e l’Arabia Saudita sono
dotati di forze aeree più moderne e sofisticate.
La Turchia, membro Nato, ha l’esercito
più forte della regione. La presenza americana
in Iraq, Afghanistan e Golfo aumenta
il senso di accerchiamento, acuendo le rivalità
preesistenti tra l’Iran sciita e i paesi
limitrofi, sunniti e di differente etnia. Da
qui la ricerca di un’opzione non convenzionale,
che da sempre serve il progetto iraniano
di egemonia nell’area: il sogno nucleare
risale agli anni 70, prima della rivoluzione
islamica, quando lo shah costruì un
reattore nucleare con l’aiuto americano per
scopi pacifici per poi perseguire illegalmente
un programma militare parallelo,
complice il Sudafrica. Abbandonato inizialmente
dai mullah, il programma ripartì a
metà degli anni 80 e ha accelerato i tempi
da quando l’Iran è riuscito a trovare più facile
accesso alla tecnologia necessaria, complici
Russia, Corea del Nord e Cina, nonché
la tecnologia pachistana. L’Iran cerca l’atomica
per ergersi a potenza regionale, nella
speranza che un contemporaneo indebolimento
americano porti i paesi limitrofi nell’orbita
iraniana, stabilendone l’incontrastata
supremazia nell’area. Inevitabile che
i vicini minacciati contemplino risposte simili
a scopo di deterrenza. L’atomica iraniana
minaccia di scatenare una corsa agli
armamenti non convenzionali in chiave deterrente
anti Iran, non anti Israele. In testa
alla lista dei paesi minacciati dalle mire di
Teheran e con mezzi per il lancio di testate
non convenzionali c’è l’Arabia Saudita. Non
sorprendono quindi le prese di posizione
iraniane riportate dall’agenzia UPI. L’Arabia
Saudita, accusano gli iraniani, starebbe
sviluppando un programma nucleare, non
lasciando agli iraniani altra alternativa che
svilupparne uno a loro volta per scopi difensivi.
L’accusa è fatta per giustificare la
probabile decisione iraniana di violare
nuovamente gli impegni presi con l’Europa
riavviando presto il programma di arricchimento
dell’uranio per giungere al punto di
non ritorno nel ciclo nucleare. Ma non è del
tutto balzana. Periodicamente infatti circolano
rapporti su attività sospette che coinvolgono
i sauditi. Né la dotazione di missili
cinesi – ora da sostituire – con capacità di
lancio di testate non convenzionali, data la
loro scarsa precisione d’impatto sul bersaglio,
aiuta i sauditi a dissipare i sospetti.
La Guerra fredda in medio oriente
L’Arabia ha tre motivi per sviluppare
un’opzione nucleare. Primo: compete con
l’Iran per l’egemonia regionale. Secondo:
vede nella rivoluzione islamica di Teheran
un pericoloso elemento d’instabilità per se
stessa e per il resto della penisola, dove monarchie
sunnite governano minoranze sciite
spesso estromesse ed emarginate. Infine
l’Arabia Saudita non può più ritenere che
l’ombrello nucleare americano sia dato per
scontato dopo l’11 settembre a fronte di un
deterioramento nei rapporti con Washington.
Esiste dunque un incentivo in più a sviluppare
un sistema autonomo di deterrenza.
Gli stretti rapporti tra Riad e Pakistan, il
ruolo saudita nel finanziare la bomba pakistana,
la recente visita ai centri nucleari
pakistani di alti esponenti sauditi, tutto fa
pensare a un’opzione nucleare, acquistata
all’estero se non sviluppata localmente. Un
equilibrio del terrore nucleare tra Iran e
sauditi non è nell’interesse di nessuno.
L’Amministrazione Bush è in ritardo rispetto
all’atomica iraniana, su cui solo a
parole ha una linea politica chiara. Nel caso
saudita l’ambiguità dell’Amministrazione
nei confronti di Riad rischia di far peggio.
Il rischio di una corsa agli armamenti,
con Teheran a un passo dall’atomica, è alto.
Gli americani farebbero bene ad attivarsi
per impedire che il medio oriente diventi
in un decennio quel che fu l’Europa
nella Guerra fredda.
A pagina 5 dell'inserto ancora Carlo Panella spiega: "Così il "quarto potere" militare ha sconfitto il terrore e creato l'islam moderato ad Ankara"
Il processo che ha finalmente portato alla
definizione di una data per le trattative
tra Unione europea e Turchia ha dello
sbalorditivo. Si è infatti svolto senza minimamente
comprendere quale sia in realtà
il meccanismo che determina il quadro
democratico turco. Senza comprendere
che cosa la Turchia può dare o può togliere
all’Europa, al di là delle banalità generiche,
trite e insensate sull’islam.
Senza neanche accorgersi che la forza –
o la debolezza – della Turchia consiste in
un sistema politico originalissimo di democrazia
che vìola i fondamenti di Montesquieu,
che è estraneo alla tradizione politica
europea, che nulla ha a che fare con
i parametri delle democrazie occidentali.
Nessuno nell’Ue si è accorto che la Turchia
costituisce un unicum eccezionale sul
terreno della dottrina e della prassi politica.
Nessuno si è accorto che questa sua
eccezionalità costituisce proprio la ragione
principale per farla entrare nell’Ue.
Nessuno, quindi, si è accorto che le condizioni
che l’Ue ha posto alla Turchia snaturano
in pieno la dinamica democratica
turca e che rischiano di fiaccarla a tal punto
da permettere al fondamentalismo islamico
di farvi breccia e di conquistare il
controllo del governo.
Tutto questo accade a causa della paralisi
dell’elaborazione politica europea che
non si è neanche posta il problema dell’utilità
di applicare "criteri" elaborati per
definire il passaggio dal socialismo reale
alla democrazia (quali sono quelli di Copenaghen,
calibrati esplicitamente sull’ingresso
nell’Ue dei paesi del Patto di
Varsavia)
a uno Stato permeato dal totalitarismo
califfale e poi kemalista.
Per comprendere che cosa questo significhi,
basta pensare che il centro delle
riforme che l’Ue impone alla Turchia è
condensato nella estromissione dei militari
dal controllo sovraordinato sul governo
e sul Parlamento. Questo "quarto potere"
e il suo saggio esercizio costituiscono
però proprio il segreto della democratizzazione
della Turchia. Il controllo sul governo
e sulla legislazione da parte delle
Forze armate è infatti il segreto della democratizzazione
del più grande Stato musulmano
del Mediterraneo. Non basta
però ricordare che questa "tutela militare"
ha salvato la democrazia turca tre volte.
L’Europa dovrebbe ricordarsi anche come
e perché questo è avvenuto, perché tutto
riporta al senso più profondo dei problemi
che oggi pone la lotta al terrorismo
islamico.
Nel 1960 l’intervento militare è ancora
legato a una dimensione passata: il premier
Menderes (poi giustiziato) aveva tentato
una svolta autoritaria che le Forze armate
stoppano, per imporre subito la continuazione
dell’evoluzione dall’autoritarismo
kemalista verso l’assetto democratico.
Il "golpe democratico" dell’11 settembre
1980, attuato dal capo di Stato maggiore
Kenan Evren, risponde invece a un’ondata
di terrorismo di dimensione irachena
che si distingue più che per l’elevatissimo
numero dei morti (1.000-1.500 l’anno) per
l’estrema selettività degli obiettivi e soprattutto
per le spinte che lo producono.
L’Europa, se non fosse a encefalogramma
piatto, dovrebbe oggi ricordare che il terrorismo
che i militari sconfiggono nel 1980
in Turchia è quello che produce l’attentato
a Giovanni Paolo II. Dovrebbe ricordare
che in quegli anni in Turchia si crea
una miscela infernale che si diffonde a
metastasi in una situazione di crisi economica
caotica e intreccia estremismo islamico
(trionfante nel confinante Iran), nazionalismo
Grande turco, estremismo gauchista
e trame dei servizi segreti sovietici,
impegnati nella destabilizzazione del bastione
Nato in Asia in contemporanea con
l’invasione dell’Afghanistan. Il tutto impastato
da un colossale traffico di droga. Ali
Agca deve dunque uccidere il "papa polacco"
perché questo è il passaggio strategico
che unifica alcune, fondamentali, forze
terroristiche interne ed esterne alla
Turchia, pronte ad aggredire l’Europa.
Questa è la lettura politica di quella tragedia
che spiega peraltro perché il pontefice,
per primo, si sia sempre disinteressato
a una lettura giudiziaria.

Nel 1980, dunque, preso atto che le forze
politiche tradizionali, rappresentate
dal binomio Bulent Ecevit (socialdemocratico,
poi arrestato) e Suleyman Demirel
(conservatore), sono impelagate nel piccolo
cabotaggio parlamentare, in una melmosa
corruzione che porta il paese verso
la bancarotta (l’inflazione al 107 per cento),
i militari attivano la Costituzione materiale
– e formale – e cancellano i partiti
politici, impongono il coprifuoco, sospendono
il gioco democratico e assumono
pieni
poteri. Durissima, feroce è la repressione:
44 mila arresti, un migliaio le pene di
morte richieste, un centinaio quelle eseguite.
Ma non è il Cile di Pinochet, né l’Algeria
dell’Fnl (appoggiato da François Mitterrand
e Jacques Chirac); i militari turchi
tengono fede al loro ruolo costituzionale e
non soltanto mantengono l’impegno preso
il giorno del colpo di Stato e convocano libere
elezioni il 6 novembre 1983, ma fanno
soprattutto sì che siano effettivamente tali,
tanto che il loro candidato, l’ex generale
Turgut Subalp, perde clamorosamente
e vince invece il liberale Turgut Ozal del
partito della Madrepatria.
Il pieno ritorno alla logica democratica
è sancito dal referendum del 7 settembre
1987, in cui il 50,75 per cento degli elettori
impone che i partiti disciolti nel 1980 possano
ripresentarsi alle elezioni (Ecevit ridiventerà
premier, Demirel presidente
della Repubblica).
Ma c’è poi ancora un terzo, pesante, intervento
delle Forze armate che interrompe
la democrazia parlamentare turca. Di
nuovo un episodio ignorato dai soloni dell’Ue,
che pure avrebbero dovuto considerarlo
centrale per rispondere alle ansie e
alle paure che il "pericolo islamico" suscita
in parte dell’opinione pubblica europea.
Il "semi golpe" attuato dalle Forze
armate turche nel 1997 contro il governo
islamico di Necmettin Erbakan è infatti
strategico perché impone – a suon di metaforici
ceffoni – al partito islamico di abbandonare
i suoi fondamentalismi e di assumere
quell’assetto di piena rispettabilità
democratica che tutti, oggi, giustamente
gli riconoscono.

La successione dei fatti è lineare: il 28
giugno 1996 Erbakan forma un governo
con il Partito della Giusta via di Tansu Ciller,
dopo che il 24 dicembre 1995 il suo Refah
ha vinto le elezioni politiche con il
21,38 per cento dei voti e 158 seggi sui 550
dell’Assemblea nazionale. Ma il programma
di Erbakan è di smantellare la laicità
dello Stato; è un programma di radicalismo
islamico che non a caso sul piano internazionale
si concretizza in una crisi
dell’alleanza militare e politica con Israele
che i generali turchi hanno stretto dopo
il golpe del 1980, in dichiarata funzione
anti fondamentalista e antiterrorista.
Dopo innumerevoli episodi (compresa
la destituzione di una parlamentare islamica
soltanto perché si era presentata con
un foulard in testa in Parlamento), il 28
aprile 1997 il presidente della Repubblica
Suleyman Demirel invia un ultimatum al
governo Erbakan: o applica le misure di
garanzia della laicità richieste dai generali
del Consiglio della sicurezza nazionale
(Mgk) o si deve dimettere. Le caserme sono
messe in preallarme, Erbakan viene dimesso,
il Refah viene sciolto e soltanto dopo
una profonda rigenerazione moderata
interna, due scioglimenti e cambiamenti
di nome, lo schieramento islamico riesce a
ritornare alla ribalta vincendo le elezioni
del 2001 con Tayyip Erdogan. Ma anche Erdogan
riceve dai generali alcuni metaforici
ceffoni, compreso il divieto di presentarsi
alle ultime elezioni politiche per il
solo ed esclusivo fatto di aver detto: "I nostri
minareti saranno le nostre lance".
Per questa strada, la Turchia è dunque
diventata l’unico paese islamico a democrazia
matura del globo. Così il "quarto
potere" militare ha garantito la sconfitta
del terrorismo e favorito la nascita di un
esecutivo islamico moderato. Oggi, però,
l’Unione europea impone ai generali turchi
la perdita di tutti i poteri "sovraordinati"
e l’islamico Erdogan, naturalmente,
obbedisce di buona lena. Oggi un’Europa
miope s’interroga su quanto pericolo vi
sia che l’islamismo fondamentalista possa
vincere le elezioni ad Ankara e non sa
neanche di essere stata proprio lei a ordinare
di distruggere l’unica diga contro
questa iattura.
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