Convegno sull'antisemitismo a Roma
i legami tra antisemitismo e antisionismo e il ruolo di un'informazione distorta sul conflitto mediorientale
Testata:
Data: 17/12/2004
Pagina: 1
Autore: un giornalista
Titolo: Antisemitismo
In prima pagina IL FOGLIO di venerdì 17-12-04 pubblica un articolo sul convegno sull'antisemitismo di Roma, che riportiamo, osservando che soltanto il CORRIERE DELLA SERA, tra i quotidiani a grande tiratura, ha dedicato spazio al convegno romano, un'iniziativa di rilevanza internazionale, che coinvolge il governo italiano. Anche LA STAMPA, nonostante al convegno partecipasse una sua importante giornalista, Fiamma Nirenstein,oggi non ha pubblicato nulla.
Ci sembra un' omissione ingiustigficata.

Ecco l'articolo del FOGLIO

Roma. Nessuno avrebbe immaginato di assistere in diretta a una manifestazione di antisemitismo preterintenzionale. E’ successo ieri mattina al convegno dell’Anti-defamation League a Villa Madama, quando il direttore del quotidiano israeliano Ha’aretz, David Landau, un cinquantenne bruno dal volto sofferto, ha interrotto d’improvviso Fiamma Nirenstein che parlava dalla tribuna, l’ha accusata di non dire il vero, e di essere "too perverse" per ammetterlo, dando luogo a un battibecco sfociato in un applauso a favore dell’inviato della Stampa. Motivo del contendere, la vicenda di quel palestinese che, fermato a un posto di blocco di Ramallah, s’è messo a suonare il violino, mentre la polizia israeliana ne controllava la custodia. Perché l’ha fatto? Per obbedire a un ordine imposto dagli israeliani, secondo la versione Landau (suffragata da foto) proposta dal direttore di Ha’aretz che ha insistito sul coraggio di pubblicare in prima pagina una foto che farà il giro del mondo, per testimoniare l’umiliazione dei palestinesi nei territori occupati, anche se tanto ardore rischia di trasformarsi in un boomerang: i lettori possono leggere in quella foto il messaggio subliminale degli israeliani che infierisco sui palestinesi come i nazisti infierivano contro i piccoli violinisti ebrei del ghetto di Varsavia. Oppure l’ha fatto per libera scelta, secondo la versione Nirenstein (suffragata da video), per ingannare il tempo mentre le guardie procedono a un controllo diventato di routine, da quando s’è scoperto che l’esplosivo che ha fatto saltare in aria la pizzeria Sbarro nel centro di Gerusalemme era nascosto dentro una chitarra? Il dilemma che implica due opposte rappresentazioni della realtà la dice lunga sulla crucialità del tema. Se è vero infatti che l’antisemitismo è uno stereotipo irrazionale, una materia facilmente infiammabile,
oltre che un test per la democrazia che protegge le minoranze, tollera gli intolleranti, ma sul terrorismo non transige, come ha detto Elyakim Rubenstein il giudice della Corte suprema sopravvissuto alla Shoah, è anche vero che oggi il problema dell’antisemitismo nasce dalla tendenziale emarginazione
di quello steoreotipo irrazionale avvenuta dopo l’Olocausto, come ha osservato Giuliano Ferrara, e dalla sua trasformazione in un concetto politico e ideologico nuovo. L’antisemitismo diventa antisionismo, si collega all’antiamericanismo: non è solo il riflesso di una paura spontanea che attanaglia l’opinione pubblica, ma l’effetto di una mancato esercizio del dovere professionale nei confronti della realtà da parte di chi informa e mette in circolazione idee tacendo per esempio alcuni dati essenziali, come il calo del 90 per cento degli attentati in Israele dopo la guerra di Sharon al terrorismo, o la divisione politica degli ebrei americani, che votano in larga maggioranza per Kerry, e quindi non potrebbero fomentare la cabala neocon, come ha ricordato Leone Paserman. Quanto all’America, è stato Martin Peretz, dopo aver giudicato "davvero eccezionale" il discorso di Gianfranco Fini, a criticare Philip Roth che nell’ultimo suo romanzo, ambientato negli anni 30, mette in scena la deriva repressiva di Charles Lindbergh eletto presidente. E sempre lui, il direttore di The New Republic, ha stigmatizzato la scelta di un fustigatore degli ebrei con un debole per il dittatore siriano Assad, come Jimmy Carter, per il monitoraggio delle elezioni palestinesi. E ha puntato il dito contro la correttezza politica che impedisce a Ha’aretz di chiamare i terroristi col loro nome, e al New York Times di attribuire il fallimento degli accordi di Taba ad Arafat, anziché alla mancanza di rispetto da parte di Barak. Provocato, David Brooks s’è astenuto dalla difesa d’ufficio. Ha preferito ricordare quegli evangelici, correligionari di Bush, che prima di addentare un hamburger con lui si sono messi
a recitare una preghiera in ebraico, che lui, ebreo, non capiva. E ha spiegato che l’antisemitismo non è odio, ma ideologia, un’arma in mano ai nemici della modernità cosmopolita e capitalista, che nell’ebreo vedono la forma oggettivata del loro rancore.
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