Criticare la politica dei leader palestinesi si può, ma solo dopo che sono morti
e Sharon resta il "cattivo"
Testata:
Data: 16/12/2004
Pagina: 11
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: Dopo Arafat, Abu Ala pronto a silurare sei fedelissimi del raìs
A pagina 11 L'UNITA' di giovedì 16-12-04 pubblica un articolo di Umberto De Giovannangeli sulla nuova leadership palestinese, che sta procedendo a sostituire i fedelissimi di Arafat.
Veniamo informati, alla fine dell'articolo (passando così dalla lettura di una cronaca a quella di una dichiarazione programmatica), che sostenere Abu Mazen "è un obbligo per chiunque creda in una pace giusta, stabile. Una pace tra pari".
Anche noi crediamo che Abu Mazen debba essere sostenuto nei suoi tentativi di cambiare la politica palestinese. Crediamo anche però che sia ancora presto per giudicarlo: sia le sue intenzioni che il suo successo o fallimento saranno manifestati dal tempo.
Per u.d.g. invece alla leadeship palestinese deve essere concesso un credito incondizionato, simile a quello accordato a suo tempo al raìs che, quand'era in vita, non è mai stato apertamente attaccato dall'UNITA', né per il suo oltranzismo nei negoziati con Israele, né per la sua collusione con il terrorismo, né per la sua doppiezza, né per la sua gestione antidemocratica e corrotta del potere.
Tanto che non si capisce perché il quotidiano si mostri ora tanto favorevole ai tentativi di cambiamento di Abu Mazen.
Non si capisce, se non ricorrendo alla sua storia. Sulla dirigenza palestinese sembra che il quotidiano diretto da Furio Colombo, già organo diessino, già organo del Partito Comunista, abbia mantenuto vecchie usanze: qualcosa di analogo non avvenne forse con il "disgelo" kruscioviano? Non si passò dall'esaltazione di Stalin alla ricezione del nuovo corso, senza chiedersi se a dover essere messo in discussione non fosse il principio dell'autorità indiscutibile di Mosca?
I miti politici cambiano, ma l'attitudine a costruirli, e le nevrosi ideologiche che ne conseguono, evidentemente no.
Si deve rilevare, comunque che, a fronte della fretta con la quale si vuole accreditare Abu Mazen come uomo della "pace tra pari", le molte prove date da Sharon di essere sinceramente impegnato sulla via di quelle "dolorose concessioni" da lui annunciate fin dall'inizio del suo mandato ancora non gli valgono un riconoscimento da parte di u.d.g. e del suo giornale.
L'appello di Peppino Caldarola a riconoscere al premier israeliano ciò che gli spetta (vedi, "La sinistra riconosca che Sharon è impegnato sulla via della pace, Informazione Corretta 16-12-04) è evidentemente ancora lontano dall'essere accolto all'UNITA'
Ecco l'articolo:

Il dopo Arafat passa anche per il «siluramento» di sei ministri. Quelli più vicini al raìs scomparso. A darne notizia è il quotidiano arabo stampato a Londra, Al-Quds Al-Arabi, e conferme in proposito vengono anche da Ramallah. Secondo il giornale, il premier Abu Ala intende sostituire il ministro degli Esteri Nabil Shaath con il rappresentante dell’Olp alle Nazioni Unite, Nasser al Kidwa, nipote di Arafat. Il generale Nasser Yussuf è fra i principali candidati al ministero degli Interni. Un ruolo di primo piano nel futuro governo verrà ricoperto dall’ex ministro dell’Informazione Nabil Amr, tra i più critici verso Arafat, che ha recentemente perso una gamba dopo un misterioso agguato armato sotto la sua abitazione. Il quotidiano aggiunge che il segretario generale della presidenza palestinese, Tayeb Abdelrahim, responsabile della campagna elettorale di Mahmoud Abbas (Abu Mazen), potrebbe diventare il vice di Abu Ala, mentre l’ex capo della sicurezza preventiva a Gaza, Mohammed Dahlan viene indicato come prossimo consigliere per la Sicurezza nazionale.
Mentre Abu Ala lavora per il «rimpasto» nel segno della discontinuità, dall’estero Abu Mazen rilancia la sua sfida agli estremisti: basta con la violenza, ha fatto solo danni, sottolinea il futuro presidente dei palestinesi. Basta agli attacchi agli israeliani. Basta all’anarchia di decine di gruppuscoli armati - dovrebbero essere le forze di sicurezza - moltiplicatisi in anni di giochi di potere. Abu Mazen e i suoi più stretti collaboratori teorizzano una «terza Intifada», fondata sulla partecipazione popolare, sulla disobbedienza civile e la non violenza. Ma quel «basta» gridato da Abu Mazen non sembra incrinare la determinazione degli irriducibili della lotta armata. Il principale movimento islamico Hamas, ripete che «non si può rinunciare alla lotta armata finché c’è l’occupazione». Fa eco la Jihad islamica, l’altra organizzazione che ha rivendicato numerosi attentati. Parole seguite dai fatti. Fatti di sangue. Il bilancio dell’ennesima giornata di scontri a fuoco nella Striscia di Gaza è di almeno 4 miliziani palestinesi uccisi e di 3 soldati israeliani feriti, uno dei quali in maniera grave. Ambedue i movimenti hanno giurato la distruzione di Israele, ma dopo la morte di Yasser Arafat, Hamas ha mandato messaggi discordanti. Accettando e respingendo ipotesi di tregua nel giro di poche ore. Secondo il presidente ad interim dell’Anp Rawhi Fattuh, oggi Al Fatah raccoglie il 55% del consenso popolare e Hamas il 18. Non è la prima volta che Abu Mazen si espone. Ad Aqaba, in Giordania, durante il vertice del giugno 2003 quando americani, europei, russi e Onu imposero la loro Road Map, il piano di pace rimasto lettera morta, Abu Mazen, allora premier, disse chiaramente che «non c’è una soluzione militare per questo conflitto, per cui ripetiamo la nostra rinuncia al terrorismo contro gli israeliani, dovunque». Fu apertamente minacciato dai radicali palestinesi; fu aspramente criticato da Al Fatah e da Arafat che lo destituì. È passato un altro anno mezzo. Segnato da morti, distruzione, sofferenza, povertà. Gli operai, che prima andavano a lavorare in Israele, sono disoccupati. I contadini hanno visto la loro terra ridursi, espropriata dagli israeliani per costruire la «barriera di sicurezza». Per credere ancora in un futuro migliore, i palestinesi si affidano a un politico schivo, che non alza la voce, che non è un guerrigliero, che non vuole essere un «martire». A 69 anni, ha il fardello di trovare soluzione a un conflitto che da oltre mezzo secolo influenza il mondo. Scomparso Arafat, tutte le speranze sono puntate su di lui. Sostenerlo è un obbligo per chiunque creda in una pace giusta, stabile. Una pace tra pari.
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