Il riavvicinamento tra Egitto e Israele visto dal quotidiano comunista e dai Fratelli Musulmani
piena l'identità di vedute
Testata: Il Manifesto
Data: 15/12/2004
Pagina: 8
Autore: Michel Giorgio
Titolo: Cairo-Washington passando per Tel Aviv - «Il debole Egitto non ha alternative»
La cooperazione economica e nella sicurezza tra Israele Egitto e Anp, per il quotidiano comunista non è una buona cosa, ed'è il prodotto dello strapotere americano. Non una via per arrivare alla pace e produrre benessere, ma un cedimento.
A pagina 8 l'articolo di Michele Giorgio "Cairo-Washington passando per Tel Aviv"

La firma era stata annunciata, eppure l'accordo Egitto-Israele-Usa per la creazione di una «Zona industriale qualificata», reso formale ieri, ha fatto ugualmente notizia. Ha confermato infatti che, con il «patrocinio» di Washington, le relazioni tra Tel Aviv e il Cairo hanno toccato il punto più caldo dalla pace di Camp David sino ad oggi. Le tre parti, non casualmente, hanno enfatizzato che le prospettive dell'accordo economico sono collegate al processo di pace in Medio Oriente. «Anche se non rientra tecnicamente nella Road Map (l'itinerario di pace mediorientale sotenuto da Usa, Onu, Ue e Russia), tuttavia si collega ai suoi principi generali», ha dichiarato il vicepremier israeliano Ehud Olmert. Da parte sua il ministro egiziano per il commercio estero Mohamed Rashid ha detto che «gli interessi economici non sono l'unico obiettivo della nostra cooperazione con Israele, è nostra profonda convinzione che la zona industriale qualificata contribuisca a un processo di pace giusto e globale. Un processo cominciato con la firma del trattato di pace tra Egitto e Israele. Ora abbiamo raggiunto un punto nella nostra storia del Medio Oriente che richiede passi coraggiosi... l'Egitto è determinato a fare qualsiasi sforzo per portare la pace nella regione».

Non è un caso che questo accordo sia stato preceduto, il 5 dicembre, da uno scambio di prigionieri tra di due paesi: il druso israeliano Azzam Azzam, condannato per spionaggio otto anni fa, è tornato a casa e così pure sei studenti egiziani detenuti in Israele perché accusati di aver pianificato il sequestro di un soldato. Da parte egiziana si nega che si tratti di uno scambio. «Il presidente Mubarak aveva già deciso lo scorso ottobre la liberazione della spia israeliana», ha ribadito con forza l'ex ambasciatore egiziano a Tel Aviv, Mohammed Bassiouni, intervistato domenica scorsa da Nile Tv. Smentire che si sia trattato di uno scambio di prigionieri è essenziale per respingere le numerose critiche mosse alla scelta fatta da Mubarak. Perché, si chiedono alcuni, Azzam Azzam non è stato scambiato con il leader dell'Intifada palestinese Marwan Barghuti? E' questo l'interrogativo di tanti egiziani al quale le autorità preferiscono non rispondere.

Sono molteplici i motivi che hanno convinto il Cairo a spingere sull'acceleratore della ripresa delle relazioni con Israele, ci ha spiegato l'analista Mohammed Sayed Said, del Centro tudi strategici Al-Ahram del Cairo. «L'Egitto ha tutto l'interesse a riportare la stabilità nella regione - ha detto - visto che il governo israeliano non ha fatto nulla e gli americani non sono stati in grado di varare una politica rapida ed efficare che ponga fine non solo all'occupazione dei Territori palestinesi ma anche a quella dell'Iraq. Pertanto (il presidente) Mubarak e i suoi più stretti collaboratori hanno compreso che questo è il momento di agire».

L'iniziativa egiziana nasce tuttavia anche dalla necessità di migliorare i rapporti con Washington. La scossa che ha fatto saltare sulla sedia Mubarak è stata un anno fa, quando il Congresso americano ha cominciato a prendere in esame la possibilità di bloccare gli aiuti economici annuali all'Egitto (2,2 miliardi di dollari) di fronte alla politica del Cairo, «troppo filo-palestinese», «contraria alla occupazione dell'Iraq» e, a quel tempo, poco incline ad accettare le direttive statunitensi senza aprire bocca.

Mohammed Sayed Said però evita di avventurarsi su questo terreno minato. Parlare delle relazioni tra Bush e Mubarak in termini poco entusiastici potrebbe risultare pericoloso anche per un personaggio vicino al regime come lui. L'analista egiziano ha preferito sottolineare piuttosto che, sebbene soltanto in parte, l'idea che Hamas possa prendere il potere a Gaza, alle porte dell'Egitto, ha contribuito a spingere Mubarak e il ministro degli esteri Ahmed Abul Gheit a svolgere una funzione di sostegno al piano israeliano di evacuazione delle colonie ebraiche dalla Striscia di Gaza.

Neppure i «tragici errori» di Israele lungo la frontiera di Rafah hanno convinto le autorità egiziane a «congelare» le mosse sin qui fatte. Ieri, ad esempio, un missile lanciato da un elicottero israeliano contro un gruppo di palestinesi ha raggiunto il territorio egiziano e ha ferito un civile. In circostanze analoghe il 17 novembre un carro armato israeliano uccise con un colpo di cannone tre poliziotti di confine egiziani, scambiati per «terroristi» palestinesi. Il premier Ariel Sharon chiese scusa al presidente Hosni Mubarak per l'incidente, dichiarando che si era trattato di un errore, e l'accaduto è stato dimenticato in fretta.

Con il passare dei mesi, l'iniziativa diplomatica egiziana si è fatta più articolata, fino a prevedere cinque punti: 1) cessate il fuoco tra palestinesi e israeliani in virtù del quale l'Anp si impegna a fermare le operazioni armate contro Israele e a garantire il controllo a Gaza e in Cisgiordania: 2) pur non firmando un accordo di cessate il fuoco, Sharon si impegna a fermare le operazioni militari: 3) i palestinesi dovranno scegliere liberamente la loro direzione politica; 4) ritiro delle forze israeliane dalla Striscia di Gaza assieme al ridispiegamento dalla Cisgiordania. Le guardie di frontiera egiziane assumeranno la responsabilità di rendere sicure le frontiere egitto-palestino-israeliane (saranno impiegati due contingenti ciascuno di 800 soldati); 5) l'Egitto formerà gli ufficiali delle «nuove» forze di sicurezza palestinesi. Il primo gruppo di ufficiali palestinesi si recherà a febbraio al Cairo e a marzo comincerà il dialogo interpalestinese sul cessate il fuoco.

L'Egitto si sta esponendo come mai aveva fatto in passato: il suo problema - ha spiegato l'esperto di politica internazionale ed editorialista di Al-Ahram Mohammed Sid-Ahmed - è capire la concretezza delle «buone intenzioni» di Sharon, sulle quali giurano gli americani. Timori che trovano conferma negli ambienti governativi. L'Egitto prende sul serio gli impegni del premier israeliano «ma giudicheremo dai fatti e non dalle parole, dagli atti del governo e non da quelli degli individui», ha detto il portavoce presidenziale, Magued Abdel Fattah. «Israele sa bene quello che deve fare per una distensione nei rapporti con i paesi arabi e per stabilire normali rapporti diplomatici», ha aggiunto. A proposito del ritorno dell'ambasciatore egiziano in Israele, richiamato nell'ottobre del 2000, Fattah ha ribadito che «quando saremo convinti che il processo di pace è tornato sui binari allora l'ambasciatore tornerà a Tel Aviv».
A commentare l'accordo anche l'intervista al leader di una nota organizzazione "progrssista" (in prima fila nella lotta allo "scontro di civiltà"): i Fratelli Musulmani egiziani. Ecco l'articolo (che ignora, crediamo volutamente, le esplicite teorizzazioni della violenza politica da parte di molto leader e ideologhi del gruppo, della violenza politica "interna".
Ecco l'articolo:

Cresce la protesta politica in Egitto. Domenica circa 1.000 persone si sono riunite nel centro del Cairo per contestare l'eventuale candidatura del presidente Hosni Mubarak, 76 anni, per un quinto mandato e le notizie secondo le quali il figlio Gamal, 41 anni, potrebbe «succedergli» alla guida del paese. Un numero esiguo di partecipanti secondo i criteri europei, significativo invece per quelli egiziani, anche in considerazione dl fatto che è stata la prima protesta anti-Mubarak da quando è salito al potere 23 anni fa. Islamisti, nazionalisti, attivisti di sinistra e liberali, hanno partecipato alla manifestazione organizzata dal «Movimento egiziano per il cambiamento«, un fronte unito formato da partiti politici e intellettuali. La protesta ha puntato l'indice anche contro la politica estera portata avanti dalla presidenza, in particolare il riavvicinamento a Israele e la collaborazione con il governo di Ariel Sharon. Ne abbiamo parlato con Mohammed Akef, guida suprema dei Fratelli Musulmani, il più importante dei movimenti islamici egiziani, illegale ma «tollerato» dalle autorità.

L'Egitto porta avanti da diversi mesi una nuova iniziativa diplomatica in Medio Oriente e, negli ultimi tempi, ha nettamente migliorato le sue relazioni con Israele. Qual è il vostro giudizio?

Non parlerei di una strategia diplomatica nuova. Piuttosto è quella solita, attuata da quando sono stati firmati gli accordi di Camp David (con Israele). E' evidente l'intenzione delle autorità di rilanciare i rapporti con Israele e di far ritornare il nostro ambasciatore a Tel Aviv, che era stato ritirato per la dura repressione del popolo palestinese sotto occupazione. Questa linea, adesso come venti anni fa, incontra un forte dissenso popolare. Gli egiziani chiedono giustizia e non solo diplomazia.

Ma lei come spiega questa intensa attività diplomatica del suo paese.

Credo che sia la conseguenza dei rapporti di forza in campo. L'Egitto è la parte più debole, si muove su questa strada perché non può fare diversamente. Ma anche questo non è un dato nuovo, lo abbiamo già visto in passato. Allargando il discorso all'intero mondo arabo, in questi mesi è avvenuto un rapido riconoscimento del regime iracheno di Allawi, che pure in precedenza era stato boicottato perché scelto dalle forze di occupazione statunitensi. Anche in questo caso i più forti, gli americani, hanno fatto le pressioni giuste ottenendo ciò che volevano. Io mi auguro un futuro di libertà e democrazia per l'Iraq ma credo che le elezioni in questa fase siano artificiali, poiché si svolgono in un regime di occupazione e non sono realmente libere.

Torniamo all'Egitto. Due mesi fa attentati sanguinosi hanno preso di mira hotel e centri turistici nel Sinai. A suo avviso i responsabili intendevano colpire i cittadini israeliani che affollavano Taba oppure volevano contestare la politica di Mubarak?

Esiste un forte dissenso verso la strategia politica e diplomatica attuata dalle autorità di governo. Su questo non ci sono dubbi. Allo stesso tempo condanno con forza le stragi e gli attentati, nel Sinai come in Iraq. I responsabili di quelle azioni e gli estremisti che hanno compiuto attentati negli anni passati, affermavano e affermano di parlare a nome dell'Islam ma, in realtà, non conoscono la nostra religione. Ritengo inoltre che forze esterne facciano il possibile per aiutare queste organizzazioni, ma non voglio andare oltre su questo aspetto.

Negli anni settanta, quando in Egitto cominciarono ad agire gruppi come il Jihad o Takfir wa Hejra che sostenevano la lotta armata contro il regime e gli apostati, la vostra guida suprema di quel periodo, Hasan Hudaibi, replicò affermando che il musulmano deve essere «solo un predicatore e non un giudice». Ritenete quel principio ancora valido?

Senza dubbio, quel principio resta valido e una delle basi della nostra ideologia. Respingiamo l'uso della violenza e affermiamo la superiorità di una pacifica predicazione religiosa e politica. Speriamo però nella piena affermazione della democrazia nel nostro paese.
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