Successi e incognite della progetto di un nuovo Medio Oriente
le analisi di Emanuele Ottolenghi e Carlo Panella
Testata: Il Foglio
Data: 09/12/2004
Pagina: 2
Autore: Emanuele Ottolenghi - Carlo Panella
Titolo: Nuovo medio oriente - Il negoziatore Mubarak ci prova anche con il Kuwait
A pagina 2 dell'inserto IL FOGLIO pubblica un articolo di Emanuele Ottolenghi, "Nuovo medio oriente" sui successi della strategia di Bush e Sharon e sulle infondate critiche ad essa rivolte dagli europei.
Ecco l'articolo:

Tra Stati Uniti ed Europa le divergenze in tema di politica mediorientale sono
quelle più accentuate, da quattro anni a questa parte, da quando iniziò la seconda Intifada palestinese. L’Europa non ha saputo far altro che proporre maggiori pressioni su Israele. Di recente, tre "saggi" europei, Lord Dahrendorf, membro della Camera dei Lord britannica, Valérie Giscard
d’Estaing, ex capo di Stato francese e presidente della Convenzione per la Carta dell’Ue, e Giuliano Amato, ex premier italiano e vicepresidente della Convenzione per la Costituzione europea, hanno scritto in una lettera aperta pubblicata sul Corriere del 28 novembre scorso che occorre "un’azione congiunta in medio oriente". In che cosa consiste tale sinergia? Un cambio della politica americana. L’invito dei saggi è alla "rapida revisione delle relazioni" transatlantiche da parte del vincitore delle elezioni negli Stati Uniti. Auspicano inoltre un intervento americano, "nei fatti, non solo a parole", a favore della soluzione dei due Stati. L’appello non si è limitato a chiedere al presidente George W. Bush di cambiare politica, ma di cambiarla proprio dove i risultati stanno dimostrando come sia invece la linea europea a essere a essere bancarottiera.
Per quattro anni gli europei hanno sostenuto il dialogo con l’ex rais Yasser Arafat, "il legittimo e democraticamente eletto leader dei palestinesi". Gli americani, accettando le tesi israeliane, hanno invece riconosciuto come Arafat fosse parte del problema, invece che della soluzione. Morto Arafat, gli sviluppi delle ultime settimane, per quanto sia ancora prematuro ostentare ottimismo, dimostrano come l’Europa avesse torto e come la sua volontà di trattare con il rais sia stata causa di ritardi e di ostruzionismo. Dall’elezione di Ariel Sharon a primo ministro, gli europei hanno sottoscritto l’immagine di un premier "generale" e leader militare guerrafondaio, ostacolo alla pace. Gli americani hanno invece accettato il verdetto elettorale israeliano e hanno cooperato con Sharon, non perdendo mai di vista il fatto che l’anziano politico, come nel caso di Arafat, andava giudicato dai fatti e non dalla retorica dei suoi avversari. Ed è Sharon, infatti, non gli sfiduciati ed elettoralmente sconfitti leader della sinistra israeliana, beniamini degli europei, che ha promosso il primo realistico piano di pace che potrebbe sbloccare la situazione di stallo. Non soltanto: Sharon è stato definito "un uomo di pace" da Bush, e "l’unica chance di pace per i palestinesi" dal presidente egiziano Hosni Mubarak, la settimana scorsa.
Dall’inizio dell’Intifada sono stati gli europei, non gli americani, a criticare ogni azione e tattica militare del governo Sharon contro il terrorismo, giudicando il ricorso israeliano alla violenza eccessivo e controproducente, sostenendo che agli attacchi contro civili ci sia una sola risposta, quella politica (cioè la capitolazione al ricatto del terrore). Eppure, dopo quattro anni di politica di uccisioni mirate – tanto osteggiate dal moralismo europeo, non dagli americani – Hamas sta cambiando retorica, dicendosi disponibile, per la prima volta, a un possibile compromesso con Israele. E’ stata la fragilità di un’organizzazione indebolita dall’efficace campagna mirata israeliana a spingere Hamas al pragmatismo, non altro.
Gli europei si ostinano a opporsi alla barriera difensiva israeliana, mentre gli
americani l’hanno sostenuta negoziandone modifiche e aggiustamenti, eppure è la barriera che ha sconfitto il terrorismo palestinese, creando sia le condizioni politiche per il piano di disimpegno di Sharon sia un confine di fatto, che con il tempo consoliderà l’idea di due nazioni separate e quindi di due Stati. Se fosse stato per gli europei, non ci sarebbe la barriera e l’incessante terrorismo palestinese avrebbe finito per mettere in ginocchio il paese. Gli europei avrebbero preferito che l’America costringesse Israele a non reagire alla violenza assassina dei palestinesi, spingendo lo Stato verso maggiori concessioni. L’Amministrazione Bush ha fatto il contrario, sostenendo il principio secondo cui Israele può difendersi anche con metodi non convenzionali,
come le uccisioni mirate e la barriera, e secondo cui solo la rinuncia al terrorismo, la fine della violenza e una stagione di riforme porteranno i palestinesi a uno Stato. Se oggi c’è una nuova speranza di uscire dalla lunga crisi nel processo di pace lo si deve non alla bancarotta intellettuale
della politica estera europea, che ha sostenuto tutte le scelte sbagliate negli
ultimi anni, ma alla politica di Bush e Sharon. Sarebbe bene che i saggi europei non chiedessero all’America di cambiar corso.
Sempre a pagina 2 l'articolo di Carlo Panella "Il negoziatore Mubarak ci prova anche con il Kuwait", che se da un lato delinea le prospettive di normalizzazione dei rapporti tra Israele e il mondo arabo aperte dall'attivismo diplomatico egiziano, dall'altra lancia l'allarme sui progetti iraniani di destabilizzazione.

Ecco l'articolo:

Roma. Cresce la pressione diplomatica del presidente egiziano Hosni Mubarak per
utilizzare al massimo la finestra d’opportunità aperta dalla morte di Yasser Arafat. Ieri, secondo il quotidiano israeliano Ha’aretz, il rais egiziano si è recato in Kuwait, presidente di turno del Consiglio del Golfo, a chiedere che l’emirato apra trattative dirette con Gerusalemme per arrivare al riconoscimento del diritto d’esistenza d’Israele, negato dal 29 novembre 1947, quando i membri della Lega araba rifiutarono la risoluzione 181 dell’assemblea dell’Onu che auspicava la creazione di uno Stato ebraico e di uno palestinese. Se confermata, questa missione ha del clamoroso; significherebbe infatti che egli ha deciso di riprendere la logica negoziale avviata nel 1979 dal suo predecessore Anwar el Sadat, che si basava non sullo schema di "pace in cambio di terra", ma sul riconoscimento senza condizioni del diritto a esistere d’Israele, da far seguire da una trattativa nel merito del contenzioso territoriale. Israele riconosce soltanto questa seconda strada. Se il Kuwait s’incamminasse in questa direzione innescherebbe un effetto domino:
sarebbe seguito da altri emirati del Golfo (il Qatar ha già formali rapporti commerciali, ma non diplomatici, con Gerusalemme) e si farebbe un passo decisivo verso la chiusura del quasi sessantennale "rifiuto arabo d’Israele". La missione kuwaitiana di Mubarak si svolge, secondo Ha’aretz, in pieno accordo
con il candidato presidenziale palestinese Abu Mazen, che ha ieri fatto un altro
passo "storico" con la visita in Libano, seguita a quella in Siria. Kuwait, Siria e Libano sono tre Stati arabi che hanno chiuso ogni tipo di rapporto con l’Olp, dopo che Arafat ha tentato di controllare il governo libanese negli anni Ottanta, partecipando alla guerra civile, e dopo che ha appoggiato l’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990, usando sempre i palestinesi come
quinta colonna. Si tratta di tappe di un disegno che punta a costruire una solida cornice regionale araba a sostegno della leadership pacificatrice di Abu Mazen. Il problema è che non si vede come questa saggia strategia normalizzatrice possa essere tollerata da quegli Stati islamici che non hanno intenzione d’abbandonare l’obiettivo della distruzione d’Israele. Mentre è possibile che Siria e Libano, suo feudo, si dispongano a una trattativa che può portare al recupero delle alture del Golan da parte di Damasco e a diminuire il suo isolamento internazionale, non si vede come e perché l’Iran debba capovolgere la sua strategia aggressiva nei confronti dell’"entità sionista". Soprattutto non si vede perché l’Iran, e altri governi fondamentalisti islamici, si debbano fare sfuggire di mano la possibilità di boicottare la pacificazione del conflitto israelo-palestinese, proprio nel momento in cui la candidatura di Marwan Barghouti fa constatare quanto consenso di massa riscuote nell’elettorato palestinese la sua strategia terrorista. Ancora ieri il leader Tanzim ha dichiarato di essere disposto a ritirare la propria candidatura soltanto se Abu Mazen accetta le sue condizioni, che sono inaccettabili per Israele (Gerusalemme est capitale della Palestina, il ritorno di tutti i profughi, alture del Golan da parte di Damasco e a diminuire il suo isolamento internazionale, non si vede come e perché l’Iran debba capovolgere la sua strategia aggressiva nei confronti dell’"entità sionista". Soprattutto non si vede perché l’Iran, e altri governi fondamentalisti islamici, si debbano fare sfuggire di mano la possibilità di boicottare la pacificazione del conflitto israelo-palestinese, proprio nel momento in cui la candidatura di Marwan Barghouti fa constatare quanto consenso di massa riscuote nell’elettorato palestinese la sua strategia terrorista. Ancora ieri il leader Tanzim ha dichiarato di essere disposto a ritirare la propria candidatura soltanto se Abu Mazen accetta le sue condizioni, che sono inaccettabili per Israele (Gerusalemme est capitale della Palestina, il ritorno di tutti i profughi, l’abbattimento della barriera difensiva e addirittura il ritiro da Gaza prima delle elezioni). Teheran può contrastare ogni spinta pacificatrice, schierandosi a fianco della strategia di Barghouti. L’Iran della Rivoluzione
islamica, che ha sempre ribadito la consegna di Ruollah Khomeini, "distruggere
Israele", dispone di Hezbollah, sia in Libano sia in Palestina, e può scatenare in ogni momento iniziative terroristiche che facciano saltare ogni tavolo negoziale. Può darsi che Abu Mazen riesca ad aprire una trattativa con le forze terroristiche palestinesi, per garantire a Israele la fine delle stragi, ma non si vede perché il forte movimento islamico internazionale che ha sempre supportato il terrorismo debba permettere questa pacificazione.
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