L'esercito israeliano si interroga sull'etica della guerra al terrorismo
un articolo di Fiamma Nirenstein
Testata: La Stampa
Data: 09/12/2004
Pagina: 6
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: L'esercito israeliano in crisi di coscienza
A pagina 6 LA STAMPA di giovedì 9-12-04 pubblica un articolo di Fiamma Nirenstein sul dibattito apertosi in Israele circa l'eticità dei comportamenti dei soldati impegnati nella guerra al terrorismo e una possibile revisione delle loro regole d'ingaggio.
Ecco l'articolo:

I guai, il dilemma dell’esercito israliano sono quelli, in generale, della guerra contro il terrorismo, o siamo di fronte a un declino etico dell’esercito che ha sempre sostenuto di combattere secondo criteri di moralità unici al mondo? I dati forniti dall’esercito e dall’associazione per i diritti umani B’tselem non sono molto distanti: 148 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania quest’anno e 29 di essi erano «innocenti spettatori». I restanti 119 erano armati oppure persone che aveva partecipato al lancio di proiettili o di sassi, dice l’esercito. Per B’tselem sono 187 gli uccisi, di cui 111 non coinvolti in combattimenti. L’esercito spiega che, nel 2004, 343 terroristi suicidi sono scesi in campo, e solo sei sono riusciti a portare a fondo l’operazione. B’tselem sottolinea che fra gli uccisi ci sono 33 minorenni. L’esercito risponde che fra i terroristi suicidi si usa un numero sempre maggiore di ragazzi, e anche di bambini.
Ma l’esercito israeliano è ugualmente in una fase di riflessione e autocritica. Moshe Ya’alon si presenta all’appuntamento con un gruppo di giornalisti stranieri. Parla con toni di inflessibilità militare e di duttilità intellettuale, preccupato; è un capo di Stato maggiore da tutti, a destra e a sinistra, ritenuto innovativo, onesto. Va al problema: l’esercito non si vergogna di dire che è in una fase di riflessione sulle regole di ingaggio nella guerra contro il terrorismo che dal 2000 hanno attraversato molti ripensamenti strategici. Anzi: solo due giorni or sono ha chiesto ai comandanti, in una serie di riunioni a ogni livello, di «esaminare attentamente le direttive e i metodi di passaggio degli ordini». La scelta fattasi strada da quando la guerra al terrorismo ha riportato i militari nelle città sgomberate fra il ‘94 e il ‘96 in base all’accordo di Oslo e che ha dato di fatto ai soldati sul campo una maggiore libertà di manovra contro possibili terroristi all’attacco, potrebbe ora forse essere rivista, e il ruolo del comandante potrebbe tornare a essere decisivo.
Perché adesso? Lo spiega Ya’alon stesso, e lo spiegano tutti i giornali da alcune settimane: un’ondata di episodi ha scosso le regole di ingaggio dell’esercito. E il codice morale scritto, dice Ya’alon, «non siamo pronti a metterlo in discussione per nessuna ragione al mondo». Il 5 ottobre vicino alla postazione di Girit che guarda Rafiah, una ragazzina di tredici anni, Aman Alhamas, che si avvicinava ai soldati è stata uccisa perché sospettata di essere una terrorista, e poi - ed è quello che suscita sdegno e ha caricato il comandante di cinque accuse di cui dovrà ora difendersi in tribunale - l’ufficiale ha successivamente «verificato la morte» della bambina, come ha detto, sparandole da breve distanza. Più avanti, c’è stato l’episodio dei soldati che si sono fatti fotografare con i cadaveri di terroristi che erano saltati per aria; poi, venerdì una nuova storia, quella del ricercato Mahmud Abd a Rahman Kamil, nei pressi di Jenin: circondato perché ritenuto un terrorista della Jihad Islamica è stato ucciso mentre cercava di scappare, e di nuovo, dicono due testimoni palestinesi che sostengono di essere stati usati come scudi umani, i soldati gli hanno sparato quando era già ferito e inerme.
Come al solito il riflesso sulla stampa è stato duro. C’è stato l’episodio del violinista, fotografato ritto a un check-point mentre suonava il suo strumento. Si è scritto che gliel’avessero imposto i soldati di guardia. Ma in una seconda fase delle indagini si è scoperto che gli era stato sì richiesto di aprire la custodia (l’esplosivo per svariati attacchi terroristici è stato intodotto in custodie di chitarra, pare anche nel caso della pizzeria Sbarro) ma che mai gli era stato chiesto di suonare, anzi, i militari gli avevano chiesto di smettere.
L’oggettività della sofferenza e anche dell’errore, e della confusione «che un ragazzo può attraversare dopo aver dovuto tanto combattere», ha sostanzialmente detto il capo di Stato Maggiore, talora rispecchia dolorosamente la realtà del terrorismo. Insomma, il gesto dei giovani che sparano a una figura che si avvicina, specie dopo tanti attacchi portati da adolescenti e persino da bambini, non è doloso; dolosi e comunque da inquisire, secondo Ya’alon, sono i gesti come quello del comandante che spara senza ragione, e infierisce.
«Nessuna guerra - dice il generale - è stata così lunga e dentro casa come questa, nessuna così non convenzionale, nessuna con perdite fra i civili israeliani colpiti intenzionalmente, pari al 70% dei morti. Dall’operazione "Scudo di difesa" intrapresa dopo due anni di attentati nel maggio 2002, abbiamo compiuto un completo cambiamento strategico: invece che proseguire nella salvaguardia dei confini con le regolari ronde, ci siamo trovati a combattere nelle affollate vie delle casbah dei villaggi, nelle case divenuti nascondigli di terroristi e fabbriche d’armi, lungo le strade dove si spara sulle auto; abbiamo subito attacchi armati ai check-point, abbiamo subito imboscate come quella di Hamas, ieri, che ha ucciso Nathan Kudinsky, di vent’anni, in un’esplosione». Insomma, l’esercito ha attraversato una trasformazione che, secondo il capo di Stato Maggiore, non ha preso una strada aggressiva, tanto meno contro i civili, messi in gioco dal terrorismo stesso come scudi umani e dal fatto che i terroristi sono civili essi stessi: si è però trattato di una strategia inflessibile che ha battuto sostanzialmente il terrore, dato che i morti israeliani sono passati da 450 nel 2002 a 108 nel 2004, e gli attacchi suicidi da 59 a 14.
La discussione è accesa, il professor Mordechai Kremitzer, incaricato dall’esercito di studiare l’atteggiamento dei soldati verso il nemico, dice che il 20% di loro valuta la vita dei palestinesi meno di quella dei propri compatrioti. Aggiunge che le distruzione delle case della dei terroristi ormai morti indicano uno scarso valore attribuito alla vita della gente. La risposta di un gruppo di genitori che hanno firmato ieri una lettera in prima pagina del quotidiano Yediot Aharonot ai loro stessi figli è allarmata: «Non fatevi abbattere dalle terribili critiche cui siete sottoposti. Siete ragazzi meravigliosi costretti a sopportare il freddo, il fango e il pericolo mortale per difendere la gente. Molti sarebbero ancora in vita se non aveste applicato tante regole morali. Abbiamo bisogno di voi, tornate a casa vivi». Un membro del Comando Navale porta degli esempi: «Ci sono decine di giovani morti per aver cercato di rispettare l’indicazione di insistere per la resa del nemico fino all’ultimo. Raanan Komimi e Lior Ashkenazi hanno fermato i bulldozer e sono morti. Lior disse di fermarsi, sentiva un bambino piangere dentro la casa, e un cecchino l’ha ucciso».
Ma in Ya’alon resta un atteggiamento operativo: «I recenti incidenti minano la stabilità dell’esercito. La realtà ci impone di studiare da vicino gli incidenti, di investigare. La parte penale dei problemi è per fortuna minimale rispetto al numero enorme di episodi che verifichiamo. Ma preferisco un soldato che soffre se deve frugare la casa di un sospetto terrorista e dice al suo comandante che non sopporta quando i bambini piangono di paura, a qualcuno che non sente niente, o tace. Ho chiesto ai comandanti di ascoltare di più i soldati. Abbiamo bisogno dei nostri standard morali per la sopravvivenza stessa dello Stato democratico». E alla fine, ecco le parole di speranza: «Stiamo preparando lo sgombero, i palestinesi si apprestano alle elezioni, speriamo in una vita nuova e che nella quiete e nel silenzio sia possibile tornare alla Road Map».
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