In democrazia chi vuol cambiare non deve fare la rivoluzione, gli basta fondare un partito e nessuno lo impiccherà
differenze elementari, ma spesso dimenticate, tra libertà e dittatura spiegate da un blogger iracheno
Testata:
Data: 03/12/2004
Pagina: 1
Autore: Ali, blogger iracheno
Titolo: Nascita di un partito
In prima pagina IL FOGLIO pubblica un articolo di Ali, il blogger iracheno che da tempo tenta di spiegare agli occidentali perché la tirannia di Saddam andava abbattuta.
Ora ci riprova raccontando la democrazia, con lo sguardo di chi si stupisce di non essere impiccato se vuole fondare un partito politico.

Ecco l'articolo:

In passato, in Iraq (e a tutt’oggi in ogni paese arabo e musulmano, a eccezione di pochi casi, e da quando Trotzky ha proposto l’idea della "rivoluzione permanente"), qualunque tentativo di cambiare il governo o una parte di esso era considerato una "cospirazione contro la rivoluzione", un tradimento per il quale nessuno avrebbe potuto immaginare crimine più orribile o punizione peggiore. In Iraq, la rivoluzione ci è sembrata a lungo l’unico modo per rovesciare Saddam e realizzare i sogni di libertà, giustizia e democrazia. C’è sempre qualcosa di affascinante nella rivoluzione, soprattutto per chi, come noi, ha sofferto per tanto tempo sotto una dittatura molto brutale. Ho sempre osservato le ingiustizie che avvengono in tutto il mondo e il silenzio della gente al riguardo, e ritengo che l’unica cosa che ci potrà salvare è una rivoluzione su vasta scala, che si diffonda dall’Iraq ai vicini, perché l’unico aspetto che è sempre sembrato interessare il mondo progredito era fornire rapida assistenza alle aree che più ne avevano bisogno, per alleviare il nostro tormento, senza però affrontare la causa primaria alla base di una tale crisi. È un impegno nobile e generoso, ma non era sufficiente, perché non volevamo solo vivere, ma vivere come esseri umani. D’altra parte, i governi dei paesi progrediti erano concentrati unicamente sui loro interessi, intervenendo solo quando questi interessi erano minacciati, mentre alcuni governi appoggiavano tali dittature apertamente e senza provare vergogna, (…).

Pensavamo di potere e dovere contare solo su noi stessi. Molti iracheni combattevano contro Saddam e il suo regime con straordinario coraggio, pur sapendo quale orribile fato aspettava loro e le loro famiglie. Altri, come noi, continuavano a cercare di ottenere supporto, incoraggiando il popolo a prendere posizione ed educandolo sui suoi diritti, spiegando alla gente che doveva rivendicare la possibilità di decidere autonomamente in merito alla gestione del
proprio paese. Tuttavia, ogni volta che cercavamo di organizzare un gruppo che non comprendesse soltanto noi e i nostri amici più intimi, non riuscivamo a ottenere l’appoggio di più di 5-10 persone. Fidarsi degli altri era quasi impossibile e molto rischioso. Dovevamo tenere conto del fatto che non rischiavamo solo la nostra vita, ma anche quella dei nostri familiari (…). Un giorno, durante il regime di Saddam, alcuni amici vennero da noi. Mentre ci intrattenevamo tra chiacchiere e risate, un nostro vicino, un tikrita che lavorava per l’intelligence, venne a bussare e quando aprii mi chiese delucidazioni in merito alle auto fuori casa. Gli spiegai che appartenevano ai nostri amici. Rispose: "Sai che le assemblee sono contro la legge. Se non fosse perché sei il mio vicino e rispetto la tua famiglia, ti avrei mandato in galera. Stai attento, io capisco, ma altri potrebbero non farlo". Me lo disse
con un tono di avvertimento, non come un consiglio. Un giorno concludemmo che non avremmo mai potuto accettare questa vita e decidemmo di cercare supporto e affrontare il governo con una rivoluzione a lungo attesa (…). Eravamo pronti al peggio e mi sembrava che il sogno di diventare un vero martire stesse per realizzarsi.
Contattammo alcuni amici e persone che credevano nei nostri stessi principi e rivelammo loro il nostro piano. Ci fu chi non approvò, ma riuscimmo a radunare
più di 800 persone (…) Il gruppo diede me, a mio fratello Mohammed e a un nostro amico il compito di cercare d’instaurare un dialogo con le autorità: speravamo ancora di poter seguire una via pacifica (…) Naturalmente, sapevamo che questo avrebbe potuto costarci la vita, ma chi fosse rimasto avrebbe portato avanti la causa con determinazione. Raggiungemmo il quartier generale
del governo ed entrammo senza grosse difficoltà. Ci recammo in uno degli uffici
(…). Un impiegato ci domandò di cosa avessimo bisogno. Pregammo, quindi spiegammo che volevamo cambiare il regime. Ci chiese di aspettare mentre chiamava il responsabile, e mi dissi: "Ci siamo, chiamano il Mukhabarat".
L’impiegato tornò con un uomo che, dopo averci salutato, ci chiese chi fossimo. Gli consegnammo un documento che illustrava i nostri obiettivi e un elenco delle
persone che ci appoggiavano. Lo prese e ci pregò di tornare tre giorni dopo, per dargli il tempo di studiarlo. "Studiarlo?", mi domandai. "Non ci impiccano?". Il terzo giorno tornammo nello stesso posto: ci aspettava un altro uomo. "Sei un rappresentante di questo gruppo?", chiese a Mohammed. "No, sono il capo." (Che coraggio! Ora lo fanno fuori e non avrò l’onore di essere il primo martire del gruppo!). "Piacere di conoscerla! Sedetevi, prego", disse l’uomo a Mohammed e al resto del gruppo con un sorriso. (Una trappola! Va bene, ci siamo!)
Un nostro amico, incoraggiato da questo gesto, chiese del tè! Ci portarono tè e biscotti! (Forse la concessione dell’ultimo desiderio). Dopo pochi minuti, quella persona consultò il computer e ci chiese il nome del gruppo. Glielo riferimmo e lui dichiarò: "Congratulazioni! La vostra richiesta è stata accolta: avrete la possibilità di esporre pubblicamente i vostri piani e se aderirà un numero sufficiente di persone, l’attuale governo darà le dimissioni e vi lascerà la leadership". "Cosa!? Queste persone sono così accondiscendenti!
Sono deboli o cosa? Potrebbero ucciderci e nessuno oserebbe muovere un dito. Ahimè! Non ci sarà alcuna rivoluzione e non sarò un martire!". Simili domande
mi ronzavano nella testa, mentre lasciavamo il palazzo, chiedendoci perché qualcuno che detiene il potere lo cederebbe ad altri senza lottare e senza obiezioni. Non era un sogno, ma la realtà, e non è successo nell’Iraq "libero e indipendente" di Saddam, bensì tre giorni fa nell’"Iraq occupato". Il Partito iracheno per la democrazia è ora registrato e competerà alle elezioni.
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