Israele: una democrazia in condizioni di emergenza, un leader adatto a fare un accordo storico
a proposito della crisi politica in Israele, delle offerte di Damasco e di un giudizio di Mubarak su Sharon
Testata:
Data: 03/12/2004
Pagina: 3
Autore: un giornalista - Emanuele Ottolenghi - un giornalista
Titolo: L'eccezzionale normalità di Israele - Sharon guarda ai laburisi, che però chiedono un prezzo molto alto - Siria come la Libia?
IL FOGLIO di venerdì 3-12-04 pubblica a pagina 3 l'editoriale "L'eccezzionale normalità di Israele". La normalità di un paese che, minacciato e aggredito fin dalla sua nascita, non ha mai rinunciato ai contrasti, e alla forza, della democrazia.
Ecco l'articolo:

Un partito laico non condivide le poste di bilancio a favore di attività religiose ed esce dalla maggioranza determinando una crisi di governo. In un paese democratico e in condizioni di sicurezza e di pace, sarebbe un fatto di ordinaria amministrazione. E’ avvenuto, invece, in Israele, dove Shinui ha votato contro il bilancio del governo, di cui faceva parte, col conseguente licenziamento dei ministri di quella formazione. Ma nessuno ha sostenuto che, vista la situazione particolare del paese – le convulse vicende palestinesi del dopo Arafat, la complessità dello sganciamento da Gaza – la situazione "eccezionale" doveva sospendere la lotta politica su altri
argomenti. Israele è in condizioni eccezionali dalla sua nascita, nel 1948, ma questo non ha impedito lo sviluppo di una vasta (e talora inestricabile) dialettica interna. Neppure un atto tragico come l’assassinio per mano di un terrorista israeliano del premier Rabin ha interrotto il fluire tumultuoso ma libero della vita politica. Ora Sharon cercherà di formare una nuova maggioranza, forse con i laburisti, altrimenti elezioni. In una fase densa di
novità, Sharon insiste sulla sua linea, cerca di ottenere i consensi necessari
per attuarla, ma non fa ricorso alla categoria ricattatoria dell’emergenza. Ieri, il presidente egiziano Mubarak ha ammonito i palestinesi a non perdere l’occasione di ricostruire il processo di pace finché Israele è governata da un leader saggio e coraggioso. E lo ha fatto con parole chiare: Sharon "è capace di perseguire la pace ed è capace di raggiungere soluzioni, se vuole. Il premier israeliano ha detto di essere pronto a fare ciò che vogliono i palestinesi… Chiede una sola cosa: la fine degli attentati, così da poter lavorare insieme su solide basi". Questo significa che la sua figura di statista
ha raggiunto un prestigio invidiabile, tanto più significativo se si considera
il punto di partenza. Ma un partito israeliano ha scelto di votargli contro per gli stanziamenti per le scuole rabbiniche. Nessuno ha gridato al tradimento dei supremi interessi della patria. E’ la forza della democrazia.
A pagina 4 Emanuele Ottolenghi, nell'articolo "Sharon guarda ai laburisi, che però chiedono un prezzo molto alto", analizza le prospettive della politica interna israeliana:
Mercoledì sera il Parlamento israeliano ha bocciato, in prima lettura, il bilancio per l’anno 2005. A favore hanno votato il Likud (tranne due parlamentari, uno assente perché contrario e l’altro in ospedale) e il
partito religioso Fronte Unito della Torah (Fut). Gli altri hanno votato contro, compreso Shinui, partner della coalizione di governo. Il primo ministro, Ariel Sharon, ne ha licenziato i ministri, rimanendo con 40 voti (più i quattro del FuT), ma ne servono 61. Il bilancio, per poter essere approvato,
deve superare tre votazioni successive alla Knesset. La prima, fallita, avrebbe permesso alla legge di bilancio di passare alla commissione Finanze per la messa a punto – cruciale – prima delle altre due votazioni, che di solito si tengono nell’ultima settimana dell’anno. Il voto contrario alla prima battuta non fa cadere il governo, ma ritarda il processo di approvazione del bilancio,
che, se non si conclude entro il 31 dicembre, comporta l’applicazione dell’esercizio provvisorio, una misura che permette di utilizzare il bilancio dell’anno precedente. In termini politici ciò significa che, se al 31 dicembre il budget non sarà approvato, anche il processo di disimpegno da Gaza, il cui costo è coperto dal bilancio 2005, subirà una battuta d’arresto. Se entro il 31 marzo non ci sarà ancora un accordo sulla Finanziaria, si andrà a votare. Shinui si è opposto al budget in reazione all’accordo che Sharon ha concluso con il Fronte Unito della Torah per garantirsi la maggioranza sul bilancio. In cambio di una modesta allocazione di fondi (circa 50 milioni di euro) a istituzioni legate al partito religioso, Sharon si è assicurato il suo sostegno, garantendo così una maggioranza al bilancio e potenzialmente quindi
anche al disimpegno da Gaza. Shinui – che ha un programma politico laico – si è rifiutato di rimanere in una coalizione aperta ai religiosi, preferendo invece un’alleanza (osteggiata dal Likud) di Likud-laburisti-Shinui. Pur disponibile a continuare a sostenere il piano di disimpegno dai banchi dell’opposizione, il partito laico non ha quindi ceduto sulla natura della coalizione. Sharon ha preparato le lettere di dimissioni dei cinque ministri di Shinui, ha atteso il loro voto in aula e poi li ha convocati uno a uno per il licenziamento. Ora Sharon, la cui coalizione si era già assottigliata dopo l’uscita dal governo di due partiti della destra, deve affrontare una considerevole opposizione al piano di disimpegno all’interno del Likud e si trova con un governo monocolore di minoranza. Il suo partito ha già bocciato (per due volte) l’alleanza con i laburisti, anche se ieri alcuni esponenti sembravano più concilianti. Il premier israeliano ha due opzioni: una coalizione con laburisti e religiosi (un sondaggio di ieri rivelava che la maggioranza degli elettori favorisce questa via) o le elezioni anticipate. La maggioranza che ha affondato il budget non può trasformarsi in una coalizione di governo, formata com’è da forze disparate, dalla sinistra laica di Yossi Beilin ai religiosi di Shas e ai partiti arabi. Non c’è neppure un grande entusiasmo per le elezioni anticipate. Il Likud rischia di perdere terreno, ma i laburisti non contano di guadagnarne abbastanza da soppiantarli. Nei sondaggi Shinui è debole, ma il suo ritorno all’opposizione ne rafforzerà la popolarità, incoraggiandolo ad aspettare qualche mese per andare al voto. Le elezioni anticipate favorirebbero, invece, Shas, che è stato a lungo all’opposizione, ma il suo leader, il cui futuro politico è tutt’altro che sicuro, preferirebbe ricostruire una base elettorale
da una poltrona ministeriale. Rimane l’opzione rimpasto, con Likud alleato di laburisti e religiosi. Gli elettori sono favorevoli perché include un partito religioso, i politici perché non sbilancia la coalizione troppo a sinistra rispetto all’alleanza che Shinui sperava d’imporre. Per i laburisti è una formula accettabile se non entra Shas, che si è schierato contro il disimpegno,
ma potrebbe cambiare linea. Il prezzo chiesto dai laburisti è alto: 7 ministeri e uno importante per Shimon Peres (Esteri, Finanze, Difesa o un nuovo dicastero per il ritiro unilaterale, come scriveva ieri Maariv), e un cambio di politica economica. E’ un prezzo più alto dei 50 milioni di euro che Shinui avrebbe dovuto digerire in cambio di una nuova maggioranza, del via libera al bilancio liberista di Netanyahu e del disimpegno.
In prima pagina l'articolo "Siria come la Libia? " informa sulla possibile apertura di un dialogo tra Siria e Israele, una prospettiva vista con favore dal leader egiziano Mubarak. Che ha anche definito Sharon la miglior chance dei palestinesi per la pace.
Ecco l'articolo:

Roma. Il premier israeliano Ariel Sharon ha detto ieri che è disposto a incontrare il presidente siriano Bashar el Assad. "Quando ci saranno le condizioni per farlo". Poco più di un anno fa, nell’ottobre del 2003, Israele bombardava un campo palestinese in territorio siriano, base d’addestramento di Hamas e Jihad islamico. Succedeva dopo l’attentato di Haifa, in cui furono uccisi 19 civili. Sharon risponde così alla recente proposta di Assad di riprendere i negoziati interrotti nel 2000, sul destino delle alture del Golan. "Ho sentito le grida di pace provenienti dalla Siria: se le sue intenzioni sono serie le esamineremo. Se la Siria fa sul serio si renderà conto che Israele vuole la pace". L’opinione è condivisa dal presidente egiziano Hosni
Mubarak, che in una rivoluzionaria presa di posizione ha definito proprio ieri
Sharon la migliore chance dei palestinesi per la pace. La situazione resta comunque poco chiara: dichiarazioni contradditorie rimbalzano senza sosta da qualche giorno tra Damasco e Gerusalemme, passando per il Cairo. Il premier israeliano apre ad Assad, ma precisa che non si arrischierà in trattative fino a quando la Siria continuerà a ospitare terroristi palestinesi sul suo suolo. Il ministro degli Esteri siriano, Faruq al Shara, risponde: "Noi abbiamo proposto la ripresa dei negoziati senza condizioni: adesso noto che il premier israeliano le pone alla Siria, e ciò è inaccettabile". Il responsabile degli Esteri di Sharon, Silvan Shalom, ammette che ci sono stati contatti segreti tra i due Stati all’inizio dell’anno scorso. Il quotidiano israeliano Maariv scrive che Assad era pronto ad andare a Gerusalemme per riavviare negoziati di pace. L’Egitto e le Nazioni Unite spingono perché Israele accetti l’offerta siriana: il ministro degli Esteri del Cairo, Ahmed Abul Gheit, ha incontrato in Israele Sharon e Shalom. Si è parlato di piano di ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza, ma l’egiziano ha fatto sapere anche che il suo governo s’impegnerà per favorire la ripresa del dialogo tra Damasco e Gerusalemme. Insomma, qualcosa si muove. E non soltanto sul confine con Israele. Il governo di Assad, da mesi, è impegnato in una serie di micromovimenti di apertura verso gli Stati Uniti, non sempre chiari, spesso ambigui, ma che fanno pensare a un’eventuale "conversione" sul modello libico. L’11 maggio scorso l’Amministrazione Bush ha imposto sanzioni economiche a Damasco. Washington rimprovera infatti alla Siria di ospitare basi di terroristi, di proteggere
Hezbollah, di favorire l’infiltrazione di miliziani in Iraq attraverso i suoi confini, di occupare militarmente il Libano e influenzare la vita politica del piccolo vicino. A tutto questo la Siria risponde: i bulldozer dell’esercito di Damasco si mobilitano per costruire una barriera, un muro di sabbia che dovrebbe correre lungo 130 chilometri di confine siriano con l’Iraq e che dovrebbe impedire il passaggio di terroristi. In ottobre il governo siriano ha catturato otto kuwaitiani che cercavano di infiltrarsi in Iraq. Il giorno prima, in un’interivsta al quotidiano arabo al Hayat, il vicesegretario di Stato americano, Richard Armitage, parlava di un "miglior atteggiamento della Siria" sulla questione delle frontiere porose.
Se Damasco cede con Israele e Stati Uniti, non lo fa del tutto con il debole Libano (dal quale ha ritirato un po’ di truppe, ma non il grosso del contingente), neppure davanti alle insistenti richieste di Washington e perfino dell’amico di sempre: Parigi. Stati Uniti e Francia hanno infatti
sponsorizzato in sede Onu una risoluzione riguardante il ritiro dei siriani dal
Libano del sud e la fine dell’ingerenza di Damasco nella politica del paese. La mozione si riferiva all’emedamento costituzionale voluto dalla Siria per favorire un altro mandato del presidente libanese Emile Lahoud. Bashar non ha però ceduto. La Costituzione è stata cambiata, Lahoud è presidente. Ma, dicono in Libano, la Siria finge fermezza, ma teme l’isolamento. L’Unione europea nei suoi confronti è in controtendenza: sostiene che la sua emarginazione creerebbe instabilità e si muove in maniera più dialogante. Bruxelles e Damasco hanno concluso i negoziati su un accordo d’associazione. Per la firma, forse, sarebbe meglio aspettare la conversione "libica" del regime di Bashar.
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.
lettere@ilfoglio.it