La sfida di Barghouti al moderato Abu Mazen
cronache e analisi
Testata:
Data: 02/12/2004
Pagina: 11
Autore: Fiamma Nirenstein - Rolla Scolari - Emanuele Ottolenghi - un giornalista
Titolo: Barghuti ci ripensa:mi candido alla presidenza palestinese - Abu Mazen svuota i conti delle Brigate al Aqsa, Barghouti reagisce dal carcere - Olp di qua, Anp di là - I due obiettivi di Barghouti
A pagina 11 LA STAMPA di giovedì 2-11-04 pubblica un articolo di Fiamma Nirenstein, "Barghuti ci ripensa: mi candido alla presidenza palestinese".
Ecco l'articolo:

Marwan Barghuti dopo una visita della moglie Fadwa e del suo avvocato è tornano ieri sulle sue decisioni e ha deciso di partecipare alle prossime elezioni presidenziali del 9 di gennaio: questo mette Abu Mazen in un peggior stato d’ansia di quello tipico di questo periodo di passaggio dopo la morte di Arafat. Barghuti, il 45enne capo dei Tanzim in prigione con cinque ergastoli per aver ordinato molti attentati terroristici delle Brigate di Al Aqsa, aveva deciso la settimana scorsa, dopo un lunghissimo incontro con Kadura Fares, un leader palestinese molto vicino a lui, di accettare la decisione del Fatah di fare di Abu Mazen il suo candidato prescelto. Aveva anzi dichiarato di sostenerlo, dopo che vari gruppi di Tanzim avevano preso questa stessa posizionie.
La decisione, aveva annunciato con grande pubblicità Fares, era dovuta alla scelta di non intralciare il Fatah e di consentirle di presentarsi compatto al pubbblico. Questo, ha detto Fares, avrebbe dato un indispensabile senso di solidità al mondo politico palestinese scosso dalla scomparsa di Arafat. Nel sottofondo, certamente, tuttavia, si intravedeva una tesa trattativa politica che forse avrebbe fatto di Marwan una figura anche istituzionale (forse un vicepresidente onorario?) benchè imprigionato, nella nuova nomenclatura del dopo elezioni, e che di certo avrebbe posto alcuni dei suoi uomini in posizione privilegiata nella nuova piramide del potere. Inoltre, Barghuti avrebbe ricevuto importanti promesse per il quattro di agosto, la vera data-test del potere, quando dovrà ridisegnarsi la gerarchia del Fatah, mai toccata da quando Arafat ne fu eletto capo, vero scrigno del potere, delle armi, del denaro, dell’influenza ideologica.
Adesso Barghuti torna sulle sue posizioni, e i casi sono due. Forse la moglie, un personaggio moderno, laico, e in stato di profonda umana sofferenza per l’assenza del coniuge che ha sempre dimostrato per lei ammirazione e rispetto, lo ha convinto a riconsiderare la sua rinuncia perché contraria ai suoi interessi: innanzitutto uscire dal carcere e riprendere un posto fra i suoi come leader di nuova generazione con radici locali, antagonista al gruppo dei «tunisini» di Arafat di cui Abu Mazen fa parte. Oppure, ed è l’altro caso, nuove informazioni hanno convinto Barghuti che l’attuale uscita dal giuoco può costargli alla fine, l’oblio e che comunque i suoi amici non sono abbastanza salvaguardati Adesso invece, Barghuti è forte mentre infuria la bufera per il lascito concreto e ideologico del Raiss, mentre lo scontro fra le fazioni è aperto e la sua popolarità è alta. Oggi è così, domani, una volta avviatosi un processo di pace scelto da Abu Mazen e aiutato dallo sgombero di Sharon, la sua figura di guerrigliero potrebbe risultare obsoleta.
Barghuti oggi non ha la maggioranza, ma può contare su un vasto consenso che può crescere e dargli o addirittura la presidenza, il che metterebbe in grandi diffcoltà Israele. E comunque può conquistare una grande affermazione che consolidi la sua influenza e l’attenzione della leadership per lui. La linea di Barghuti è più dura di quella di Abu Mazen che probabilmente pensa di tornare al tavolo delle trattative contro una qualche promessa di prendere cura del terrorismo; Barghouty dice invece di volere trattare e guerreggiare al contempo.
Abu Mazen ha anche altri guai in vista, oltre al problema di Barghuti: contro le posizioni di altri leader di Hamas, come Yussuf che da Ramallah ha dichiarato di voler partecipare alle elezioni, ieri da Gaza Ismail Hanyeha detto che Hamas boicotterà le elezioni presidenziali, che le lascia tutte a Fatah, che per loro non sono che uno dei vari meccanismi messi in moto dall’accordo di Olso,cui Hamas è sempre stato contrario.
A pagina 2 IL FOGLIO pubblica un articolo di Rolla Scolari: "Abu Mazen svuota i conti delle Brigate al Aqsa, Barghouti reagisce dal carcere":
Roma. Mahmoud Abbas, alias Abu Mazen, oggi, nel dopo Arafat, leader dell’Olp,
domani, forse, presidente palestinese, ci prova. Ma la sfida delle elezioni per lui si fa sempre più critica. I problemi ora sono tre e arrivano tutti assieme. Hamas ha di nuovo minacciato il boicottaggio delle elezioni di gennaio, mentre Marwan Barghouti, leader dei Tanzim, detenuto in Israele, prima ha fatto annunciare che si sarebbe candidato alle presidenziali, poi ci ha ripensato e ha sostenuto Abu Mazen per qualche giorno, salvo poi scompaginare di nuovo tutti i giochi ieri, forse per reazione alla decisione del capo dell’Olp di svuotare i fondi delle sue Brigate dei martiri al Aqsa, ribattezzatesi Brigate Yasser Arafat, facendo depositare alla moglie la sua iscrizione come "indipendente" alla competizione elettorale. Abu Mazen ci prova, dopo aver saputo aspettare e scegliere il momento per tornare in superficie. Le sue recenti dichiarazioni al quotidiano al Rai sulla seconda Intifada, "un completo errore", fanno sperare in una strategia negoziale messa in pratica da un condottiero moderato, ma non gli basterà essere eletto per iniziare a condurre. Oltre all’incognita Barghouti, infatti, c’è Farouk Kaddoumi alla testa di al Fatah, presidente del comitato centrale del più grande e ricco partito palestinese, in cui militano le Brigate al Aqsa. La sua linea è: "La resistenza è la strada per arrivare all’accordo politico con Israele". Nel ’93 è stato lui a guidare l’opposizione palestinese all’accordo tra Yitzhak Rabin e Arafat. L’asse che si sta creando tra Barghouti e Kaddoumi potrebbe rivelarsi un grave problema per l’autonomia di chi tenta di essere un rais moderato: ieri Abu Mazen ha detto di ritenere possibile un accordo con Israele nel 2005. In pochi giorni il nuovo rais è uscito dal cono d’ombra in cui era finito dopo aver dato
le dimissioni da premier, nel 2003, per incarnare improvvisamente la speranza di
avere un leader moderato che finora è mancata all’Autorità palestinese. Quando Abbas era premier, il medio oriente credeva ancora nell’applicazione di un piano che si chiamava road map, morto il giorno in cui un frustrato Abu Mazen ha lasciato il suo incarico. Israele ha allora avviato una politica di iniziative unilaterali, promuovendo attraverso il premier Ariel Sharon un piano di ritiro dalla Striscia di Gaza in cui la controparte palestinese è assente o quasi. Oggi, dopo la morte di Arafat, si è tornati a parlare di road map. Lo ha fatto il cosiddetto Quartetto (Onu, Russia, Ue e Stati Uniti), che dell’antico
piano era stato lo sponsor, lo hanno fatto i governi arabi e no riuniti a Sharm el Sheikh per discutere di Iraq. Con Abu Mazen può riaprirsi quindi la politica del negoziato? Figlio della Palestina del mandato britannico, membro fondatore di al Fatah e figura chiave dell’Olp, vissuto in esilio per quasi 50 anni (ha seguito Arafat in Giordania, Libano e Tunisia), Abbas è da sempre considerato un nazionalista pragmatico, iniziatore negli anni 70 del dialogo con la sinistra israeliana e con i movimenti pacifisti. Ma soprattutto è l’uomo che forse ha più creduto negli accordi di Oslo, nel 1993. Fu lui a firmarli. C’è chi non lo ha ancora perdonato. Le Brigate dei martiri di al Aqsa avevano detto che avrebbero appoggiato Abu Mazen, ma ora con Barghouti in gara lo scenario può cambiare, con Hamas e Jihad islamico, che hanno sempre poco tollerato il rais moderato, pronti a sfruttare e a rinfocolare le divisioni interne all’Anp.
E contro Abu Mazen, in passato, non sono mancate neppure le minacce di morte.
Nel tentativo di controllare le fazioni armate, nel 2003 Abbas aveva chiesto al rais maggiori poteri e più autonomia nel campo della sicurezza interna. Arafat, che non sopportava la scomoda leadership di un uomo che anche lui riteneva troppo vicino a Washington, aveva rifiutato. Il premier non era stato così in grado di arginare Hamas: nell’agosto del 2000, l’organizzazione aveva rotto la tregua dichiarata a giugno, con un attentato a Gerusalemme che causò 22 morti. Lamentando il mancato sostegno del rais lo scarso aiuto ricevuto da Israele, Abbas aveva abbandonato, e con il suo premierato era naufragata anche la road map. Ora è più forte, ma rischia grossso.
L'articolo è affiancato dall'analisi di Emanuele Ottolenghi, "Olp di qua, Anp di là":
In attesa che la democrazia palestinese emerga, e con essa la pace che tutti auspicano e tutti, dopo la morte di Yasser Arafat, in qualche modo sentono come di nuovo possibile, è bene notare qualche possibile intoppo sulla strada dell’avvenire in casa palestinese. Il primo ostacolo è quello delle elezioni presidenziali del 9 gennaio. Salvo sorprese – leggi: Marwan Barghouti – Abu Mazen sarà il nuovo presidente dell’Autorità palestinese. Nella visione della road map, che George W. Bush e Tony Blair hanno reiterato nel loro vertice subito dopo le presidenziali americane e che il quartetto ha resuscitato dopo il vertice di Sharm el Sheikh, le elezioni palestinesi sono un momento chiave nella prima fase mai attuata del documento. Una nuova leadership, legittimata da un processo democratico e in grado di gestire aiuti internazionali in maniera trasparente, potrebbe procedere a imporre il monopolio della forza nelle zone sotto il proprio controllo, costringendo gruppi armati e terroristi palestinesi a riconoscerne l’autorità o a subirne la repressione. La road map parla di "palestinesi", di "parti in causa", di "elezioni", di "leadership"
e di "futuro Stato palestinese". La comunità internazionale si aspetta dunque
che il nuovo presidente palestinese, una volta eletto, diventi l’interlocutore e il referente diretto del tanto auspicato processo di pace e che sia lui a guidare l’Anp nel percorso transitorio da Stato in fieri a Stato palestinese, come previsto dalla road map e come auspicato da Bush "entro il 2009", fine del suo secondo mandato. Di per sé tutto questo non è garanzia di successo, visto che la pesante eredità di Arafat condizionerà fortemente la capacità negoziale di Abu Mazen. Infatti, le proposte di pace che Arafat non volle accettare risulteranno indigeste anche ai suoi successori, la cui legittimità democratica non basterà a riempire il vuoto lasciato dal rais. Quel che Arafat non volle sottoscrivere, difficilmente Abu Mazen anche volendo – e che lo voglia è tutt’altro che certo – saprà far digerire. In più, non è detto che Abu Mazen, quand’anche eletto a gennaio, sarà in definitiva il vero interlocutore palestinese. Chi spera che le presidenziali palestinesi sblocchino la situazione e facciano ripartire la road map dimentica infatti un dettaglio di non poco conto: gli accordi tra Israele e palestinesi che costituiscono le fondamenta del processo di pace – gli accordi di Oslo cioè, con tutto quanto ne consegue compresa la creazione dell’Autorità nazionale palestinese – derivano dal riconoscimento da parte di Israele dell’Olp come unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese, con cui tutti gli accordi sono siglati. La validità degli accordi insomma deriva dall’Olp, in quanto contraente per parte palestinese, e l’Olp rimane l’indirizzo principale di ogni negoziato. Arafat, in quanto leader dell’Olp e della sua fazione principale, al Fatah, nonché presidente eletto dell’Anp, accentrava su di sé le cariche che rappresentano i tre attuali centri nevralgici del potere palestinese, e ha forse creato l’illusione che fosse l’Anp a negoziare con Israele attraverso la figura del suo leader istituzionale. Almeno a giudicare dai trattati che rimangono pur sempre validi e a cui ci si può sempre appellare, l’ultima parola su ogni futuro negoziato e termine di accordo spetta all’Olp, attraverso prima di tutto il suo capo e poi attraverso il Consiglio nazionale palestinese, l’organo che "rappresenta" le varie forze politiche sia nei territori sia in esilio. Arafat aveva sempre saputo, grazie alla sua disinvoltura nell’accentrare su di sé le cariche e i poteri, mediare tra le varie istanze palestinesi utilizzando il suo carisma e il suo potere di persuasione: manu militari a volte, altre con il denaro. Non è certo che Abu Mazen potrà far lo stesso. E questo non soltanto perché Marwan Barghouti, anche da detenuto, gode di un ampio seguito popolare o perché al Fatah è ora guidato da Farouk Kaddoumi, che ha una linea politica oltranzista sul tema dei rifugiati, sostiene la lotta armata e osteggia Oslo, ma anche perché non è detto che Abu Mazen – attualmente capo dell’Olp perché succeduto d’ufficio ad Arafat – sarà confermato alla guida dell’organizzazione. Certamente una sua eccessiva disponibilità a concessioni nei confronti d’Israele ne indebolirebbe il potere all’interno dell’Olp e potrebbe portare a una sfida aperta contro di lui. Dopo il 9 gennaio, si potrebbe quindi verificare la seguente situazione: Abu Mazen presidente dell’Anp, riconosciuto e legittimato dalla comunità internazionale
ad attuare la road map e a negoziare i termini di un accordo permanente con Israele, dovrà fare i conti con al Fatah – che lo ha nominato candidato alla presidenza, ma che è guidato da una leadership in esilio fortemente condizionata dalle fazioni siriana e libanese, e determinata a non concedere sui rifugiati – e con un possibile sfidante a capo dell’Olp. Comunque sia, ogni sua concessione a Israele potrà essere messa in discussione e rigettata dall’Olp
o negoziata con il suo leader e con il Consiglio nazionale palestinese. L’ottimismo e l’entusiasmo sono dunque mal riposti. Le divisioni interne palestinesi, evidenziate e forse in futuro accentuate dal caso Barghouti, e la preponderanza dell’Olp nel processo negoziale – che tutti i trattati diplomatici siglati negli undici anni passati sanciscono – potrebbero rendere la leadership democraticamente eletta dei palestinesi poco più che uno specchietto per le allodole. Il 2009 rimane forse più un’illusione che una realistica previsione.
A pagina 3 l'editoriale "I due obiettivi di Barghouti":
La decisione di Marwan Barghouti ha un duplice obiettivo: si presenta alle elezioni presidenziali spaccando volontariamente al Fatah – che ha già scelto
come candidato Abu Mazen – e umilia quest’ultimo, impegnato nella trattativa per evitare scontri interni, facendo il massimo delle concessioni. Lo scenario che Abu Mazen e Abu Ala avevano proposto a Barghouti era semplice: permettere
ad Abu Mazen di diventare presidente e di gestire la trattativa con Israele
e i rapporti con il mondo, ma contemporaneamente avere la garanzia – grazie
alle elezioni politiche che Abu Mazen si è impegnato a indire subito – di poter
vanificare ogni accordo con Israele grazie alla maggioranza certa di consensi
che lo stesso Barghouti avrebbe ottenuto nel voto per il "Parlamento". Il fronte
che il leader dei Tanzim intende costruire, grazie all’alleanza con Farouk Kaddoumi, comprende le Brigate di al Aqsa, Hamas e Hezbollah. Ogni sondaggio prevede che l’insieme di queste componenti sarà in grado di boicottare accordi in sede di Consiglio nazionale palestinese, come, in maniera più sotterranea, ha già fatto dal 1988 grazie alla regia di Yasser Arafat. Barghouti tenta di umiliare Abu Mazen con un risultato scarso e poi, in caso di sua elezione, di condizionarne ogni gesto con la minaccia di una rapida sconfessione politica. La scelta è pericolosa. E’ evidente che è parte della strategia di Kaddoumi,
braccio destro di Arafat, che mai ha accettato gli accordi di Oslo.
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