I palestinesi scoprono (finalmente) le elezioni
via Arafat, forse cambiano i metodi
Testata: La Stampa
Data: 28/11/2004
Pagina: 10
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: I palestinesi scoprono la frenesia elettorale
I palestinesi scoprono che le lezioni possono essere diverse da quelle "bulgare" alle quali erano stati abituati da Arafat. Lo racconta Fiamma Nirenstein sulla STAMPA di domenica 28.11.2004
NOVITA’ NELLA BATTAGLIA PER SUCCEDERE AD ARAFAT

I palestinesi scoprono
la frenesia elettorale


Anche il ritiro di Barghuti è un segno del crescere dell’opzione
politica. Uno choc per il mondo arabo abituato alle scelte dall’alto


GERUSALEMME
SEDICI candidati presidenziali sono una vera folla, un segno di frenetica vitalità. E non sarebbe mai potuto accadere prima, al tempo in cui il Raìss Yasser Arafat era vivo. Alle elezioni del ‘96 solo Samila Khalil, una femminista di Al Bireh, osò presentarsi contro Abu Ammar, ed era chiaro a tutti che si trattava di una presenza simbolica. Stavolta, le conferenze stampa dei candidati si moltiplicano, la tipologia è piuttosto differenziata anche se i programmi, benchè abbiano contenuti diversi quanto alle riforme, pure prevedono tutti il ritorno ai confini del ’67 e il diritto al rientro dei profughi. Comunque, l’aria che si respira è di libertà, si comincia a capire lentamente che è tempo di cambiarsi e uscire, non c’è guardiano sulla porta. «Bashar Assad è stato il candidato unico dopo Assad il vecchio, il figlio di Mubarak è l’unico designato a succedere al padre, vedrete forse qui la prima vera democrazia del mondo arabo», dice ai giornalisti la gente nella strada.
Anche tutta la vicenda dei «sì» e dei «no» del leader dei Tanzim detenuto nella prigione israeliana di Beersheba, Marwan Barghuti, si iscrive in un panorama di formicolante movimento. Barghuti, cui spesso i media palestinesi si riferiscono come all’«architetto dell’Intifada», condannato a cinque ergastoli come mandante di una serie di attacchi terroristici con decine di morti, è un personaggio molto amato dai suoi, un figlio di contadini laico, molto vivace e alla mano, con una fama di onestà e di fedeltà al popolo conquistata sul terreno della prima Intifada, e anche una speciale connessione con la leadeship tunisina: ha trascorso un periodo con Arafat in esilio ed è tornato insieme con lui nel 1994. Di fatto, sin da quando all’inzio dell’Intifada la cronista lo intervistò a Ramallah mentre cresceva la sua fama di guerrigliero che rifiutava l’accordo di Oslo, il suo ruolo si giocava sull’ambiguità del rapporto con Al Fatah e il suo potenziale democratico, e il terrorismo.
Qui è la forza di Barghuti. Le Brigate al-Aqsa hanno fatto concorrenza a Hamas e Barghuti è stato vissuto dai media come un cavallo di razza che corre la sua corsa anche a dispetto di Arafat, ma in realtà il suo legame con la leadership era prioritario. Còsì accade anche oggi: dopo che Abu Mazen è stato di fatto scelto come candidato di Al Fatah anche da una parte consistente dei Tanzim e delle Brigate, Barghuti il ribelle ha ritirato una candidatura per cui aveva già raccolto le cinquemila firme regolamentari, e questo spiana non poco, in questa fase, la strada di un leader contestato dai giovani che odiano i «tunisini» integrali come Abu Mazen. Prima di decidere, Barghuti ha parlato per quattro ore intere nel carcere con il suo braccio destro, Kadura Fares, che lo ha pregato di non mettere bastoni fra le ruote alla delicata fase di passaggio dell’Autonomia Palestinese. La conversazione fra le sbarre sembra aver approfondito due argomenti: il primo, la «ricompensa» in termini politici di uomini e di linea che Barghuti riceverà con la rinuncia allo scontro aperto con Abu Mazen. Il secondo, il 4 di agosto, quando finalmente verrà toccata la roccaforte del potere del Raìss, ovvero il vertice di Al Fatah, con le elezioni interne.
In realtà il voto per la presidenza dell’Anp, di fatto, non è che una tappa su una lunga strada: verrà vinto da Abu Mazen, e qui comincia la gara. Anche Barghuti ha tutto da guadagnare dal calmarsi del campo, dalle riforme in senso democratico, dalla crescita di una situazione in cui col calo del terrorismo la trattattiva sia possibile: e l’uomo che ha dato prova di andare in questa direzione è Abu Mazen. Quanto sia importante al momento che egli seguiti a rifarsi nei discorsi pubblici al retaggio di Arafat, è difficile dire: se sia una mossa di politica interna, o se davvero la strada prescelta sia ancora quella della durezza e del diritto al ritorno per i profughi, ancora non si capisce. Di certo, le novità si susseguono. Rashid Abu Shbak, capo dellle Forze preventive della polizia di Gaza, ha annunciato che una sezione particolarmente brutale della polizia, detta «Squadra della morte», verrà sciolta, e che certi gruppi che oltre a svolgere attacchi terroristici hanno anche alimentato la violenza interna saranno chiusi.
Nel contempo, i movimenti diplomatici si fanno significativi: Abu Mazen e Abu Ala vanno in visita da Mubarak la settimana prossima per discutere delle elezioni e chiedere aiuto; in Inghilterra stanno per incontrarsi «alti rappresentanti palestinesi» con rappresentanti altrettanto alti di Israele. Ai tempi di Arafat non sarabbe successo. Nel frattempo però si capisce qual è il nemico di un futuro migliore: in alcuni villaggi e campi profughi hanno luogo manifestazioni che chiedono di non abbandonare la lotta armata; e il mondo arabo, secondo un’indagine della tv Al Arabiya, mostra che il 73% dei cittadini della regione vorrebbero un leader di Hamas per rimpiazzare Arafat.
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