Abu Mazen fa una dichiarazione contro il dialogo, il quotidiano comunista applaude
e accusa Israele dei mali dell'Africa
Testata: Il Manifesto
Data: 24/11/2004
Pagina: 6
Autore: Emanuele Giordana - Michele Giorgio
Titolo: Mercenari israeliani in bussiness class - Abu Mazen gela Ariel Sharon
IL MANIFESTO di mercoledì 24-11-04 pubblica a pagina 6 un articolo di Emanuele Giordana: "Mercenari israeliani in bussiness class", sulla partenza dalla Costa d'Avorio, organizzata secondo il quotidiano comunista dall'Ambasciata d'Italia ad Abidjan, di 32 israeliani. IL MANIFESTO avvalora, senza prove, l'ipotesi che gli israeliani abbiano avuto responsabilità nell'attacco alle truppe francesi da parte dell'aviazione ivoriana. Sostiene inoltre che la stampa francese avrebbe rivelato che gli israeliani "avevano almeno tre profili": consulenti militari, contrattisti privati (la versione "ufficiale"), mercenari.
In realtà organi d'informazione diversi hanno sostenuto tesi diverse sugli israeliani: quindi non c'è stata nessuna rivelazione circa i loro tre "profili" (dei quali, ovviamente uno o più sarebebro stati nascosti e scomodi).
A fianco dell'articolo un pezzo di Gabriele Carchella intitolato: "Israele e il fiorente mercato delle armi"; un pezzo che si sarebbe potuto scrivere su molti altri paesi, compresi Francia e Italia, povero di dati precisi su quantità e natura delle armi esportate in Africa. Chiude la pagina un'intervista all'analista Leonard Touadi "Africa terra di conquista, nel quale, oltre che di ex membri dei servizi segreti israeliani attivi nell'Africa occidentale, si parla di libanesi, pakistani, este europei.
Ma l'intera pagina sembra avere lo scopo di indicare Israele come il "padrone" dell'Africa, contribuendo alla sua demonizzazione, più che di affrontare seriamente i problemi del continente.

Ecco l'articolo di Emanuele Giordana:

È stata la sede diplomatica italiana ad Abidjan a consentire la rapida fuga dalla Costa d'Avorio di 32 israeliani in difficoltà, inclusi in una lista ufficiale della locale ambasciata d'Israele. Personaggi che, come ha rivelato la stampa francese, avevano almeno tre profili: «consiglieri militari» per Le Monde; «contrattisti privati» secondo la versione ufficiale; «mercenari» tout court per la rete televisiva TF1 citata da Haaretz. Controversi figuri oggetto di speciali attenzioni da parte della Farnesina, che ha esercitato una forte pressione sulla nostra ambasciata, opponendo ai tentennamenti sulla priorità degli imbarchi l'assoluta necessità di una loro rapida uscita di scena. Contrattazione nervosa, che si svolge mentre l'attuale ministro degli esteri Gianfranco Fini, ancora in veste di vice premier, si trovava in visita ufficiale a Tel Aviv. L'ambasciata ad Abidjan smentisce che vi siano state «pressioni particolari» da Roma e spiega invece che l'operazione è stata portata a termine, oltre che su richiesta in loco, anche dopo i contatti tra l'ambasciata d'Israele in Italia e la nostra Unità di crisi alla Farnesina, che si sarebbe limitata a comunicare ad Abidjan le esigenze israeliane.

Strano silenzio in Italia

La vicenda, passata praticamente inosservata sui giornali italiani, coinvolge dunque il nostro paese in una storia oscura che non sembra essersi conclusa con la partenza, a metà novembre, dell'ultimo aereo di rimpatriati francesi, evacuati da Abidjan dopo la violenta ondata di ivoirité scatenata dalla quasi-guerre, come l'ha chiamata Le Monde, tra la Francia e la Costa d'Avorio. Ed è proprio il giornale parigino che il 16 novembre solleva il problema, descrivendo l'attività di 46 «cooperants» militari israeliani, la cui base si trova al 21mo piano dell'Hotel Ivoire ad Abidjan. Sarebbero stati loro a dirigere i due droni (aerei senza pilota) forniti da Israele all'esercito ivoriano e in grado di disegnare le mappe delle postazioni dell'esercito francese in Costa d'Avorio. Le stesse che il 6 novembre sarebbero servite ai piloti ucraini e bielorussi (mercenari o contrattisti privati che dir si voglia) che a bordo di Soukhoi-25 sganciano missili da 57 mm sulle postazioni francesi, uccidendo 9 militari d'oltralpe e un americano. Qualche giorno dopo Le Monde ipotizza, sulla base delle analisi delle registrazioni rinvenute sui droni sequestrati dai francesi ad Abidjan, che non si sia affatto trattato di bavures. Nessun errore, ma un vero e proprio atto di guerra premeditato. Che innesca poi tutta la crisi.

I contrattisti israeliani sono però già lontani. Ma a lasciare il paese sono solo in 32, come ha precisato ieri l'Agenzia Italia in un resoconto sulle evacuazioni degli stranieri. Hanno fretta, e l'ambasciata israeliana prepara per loro una lista da presentare alla nostra sede diplomatica, forse per evitare un passaggio spiacevole e imbarazzante nelle maglie delle autorità francesi che stanno organizzando il grosso delle partenze degli stranieri. L'Italia è tra i paesi che gestisce una parte dell'esodo. «Non un'evacuazione - precisa l'ambasciatore Paolo Sannella raggiunto telefonicamente ad Abidjan - ma semplicemente un invito a lasciare il paese. Invito che in molti, i missionari ad esempio, non hanno neppure raccolto. Quanto agli israeliani, la richiesta è arrivata dall'ambasciata ad Abidjan sulla base di una lista di una trentina di nominativi. E, attraverso l'Unità di crisi, dalla sede diplomatica di Israele a Roma. Ma - aggiunge Sannella - senza nessuna pressione particolare. Inoltre - continua - noi lavoravamo d'intesa con le autorità francesi». Tutto quindi alla luce del sole. Ma altra fonte racconta la vicenda diversamente.

La versione ufficiale e le altre

Le pressioni arrivano sia martedi 9 che mercoledì 10. E sono così forti che, presumibilmente, quando due C-130J hanno già evacuato 123 italiani e «94 cittadini di varia nazionalità», come riferisce l'Ansa il 13 novembre, gli israeliani scomodi hanno già lasciato il paese. La vicenda intanto, dopo l'uscita di Le Monde, che dedica al «passaggio» offerto dall'Italia una sola riga, crea un polverone in Israele, dove il ministero della Difesa smentisce le accuse francesi. L'eco che ci riguarda non è meno forte e, pur se ormai son passati una decina di giorni, rimbalza persino nei paesi vicini.

A Dakar, Senegal, si mette in movimento l'ambasciata americana che cerca di saperne di più. Lo fa utilizzando qualche vecchia amicizia che gli consente di sondare reazioni e indiscrezioni che da qualche giorno circolano a Freetown, Sierra Leone, dove, dalla fine di settimana scorsa, ci sono una ventina di giornalisti italiani e un discreto manipolo di nostri diplomatici. L'occasione è una conferenza internazionale organizzata dall'Italia sul futuro della nostra cooperazione in Africa. Naturalmente all'ordine del giorno ci sono gli 8 milioni di euro che l'Italia ha deciso si stanziare per nuovi interventi sociali o la questione dell'imminente, ma non proprio certa, riapertura dei cantieri di Bumbuna, diga regalata alla Sierra Leone trent'anni fa ma non ancora in funzione. Ma uno degli argomenti, nei corridoi, diventa quello della vicenda che ha avuto come teatro la Costa d'Avorio.

Nel caldo torrido che avvolge la capitale della Sierra Leone, dove la conferenza sulla cooperazione affronta il dramma del reinserimento dei bambini soldato, lo spettro dei mercenari, che tanta parte hanno avuto ed hanno nelle guerre africane, sembra dipanare il filo rosso che unisce e sconvolge da anni i paesi dell'Africa occidentale. Paesi piccoli ma che muovono grandi appetiti: diamanti, bauxite, oro ma anche cacao o, più semplicemente, il fiorente traffico d'armi. Paesi piccoli ma che muovono anche appetiti diplomatici. La Sierra Leone ci è vicina nella nostra battaglia per il Consiglio di sicurezza. La Costa d'Avorio? Un vuoto lasciato dai francesi potrebbe farci comodo soprattutto se gli ivoriani ci devono un piacere. Perché no, anche quello di aver favorito la rapida uscita di scena di 32 personaggi scomodi, ma buoni consiglieri per l'esercito di Laurent Gbagbo.
A pagina 8 Michele Giorgio si compiace di constatare che "Abu Mazen gela Ariel Sharon", rivendicando il diritto al ritorno in Israele dei profughi palestinesi e dei loro discendenti.
Come Giorgio segnala nel suo articolo tale richiesta è stata sempre giudicata irricevibile da ogni governo israeliano, in quanto comprometterebbe l'esistenza stessa di Israele.
L'insistenza su di essa da parte dei palestinesi significherebbe dunque rendere impossibile qualsiasi accordo.
Non ci pare ci sarebbero molti motivi di soddisfazione.

Ecco l'articolo:

«Procederò sul sentiero tracciato dal presidente Arafat e chiederò a Israele di riconoscere il diritto dei profughi palestinesi di rientrare nella loro terra». Queste parole pronunciate ieri da Abu Mazen, leader dell'Olp e candidato di Al-Fatah durante una commemorazione a Ramallah di Yasser Arafat, non hanno certo suscitato entusiasmo a Tel Aviv e Washington. Israele e Stati uniti si auguravano che la morte di Arafat avesse messo fine per sempre alla richiesta di attuazione della risoluzione 194 dell'Onu che chiede il ritorno alle loro case e un risarcimento per i circa 700 mila (oggi quasi quattro milioni) profughi palestinesi della guerra del 1948. Una richiesta respinta da tutti i governi israeliani che temono l'alterazione del carattere ebraico dello Stato di Israele. A far riferimento a quel diritto, da sempre rivendicato dai palestinesi, è stato proprio il dirigente palestinese che, nei disegni del governo Sharon e della Amministrazione Bush, dovrebbe «voltare pagina» e chiudere con la cosiddetta «era di Arafat». Abu Mazen in passato aveva messo ai margini la questione dei profughi, sostenendo che questo problema avrebbe trovato la sua soluzione con la nascita dello Stato palestinese.

Non si spengono intanto le polemiche dopo la nomina di Abu Mazen come candidato alla presidenza. La nuova generazione continua a lavorare dietro le quinte per la candidatura del segretario per la Cisgiordania, Marwan Barghuti, in carcere in Israele. La moglie del popolare esponente palestinese, Fadwa, domenica scorsa ha ritirato i formulari per l'iscrizione dei candidati alle presidenziali e ha precisato che Barghuti deciderà la settimana prossima se presentarsi come candidato indipendente, indebolendo così di fatto la candidatura di Abu Mazen.

Il leader dell'Olp, stando agli ultimi sondaggi, è preferito dal 25% circa dei consensi, davanti a Barghuti, secondo con il 9% . Ma metà degli intervistati afferma che deciderà solo al momento del voto. Altre percentuali invece descrivono un quadro di forte preoccupazione economica per i Territori occupati giunti in questi giorni ad una svolta politica decisiva. In quattro anni di Intifada il numero dei palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza che si trovano sotto la soglia di povertà (1,65 euro al giorno) è più che raddoppiato, passando dal 20 al 48% della popolazione. Secondo uno studio della Banca Mondiale, circa 600.000 palestinesi oggi si trovano sotto la «soglia di sussistenza» (1,10 euro al giorno). Il rapporto degli esperti internazionali afferma che la causa principale delle difficoltà economiche palestinesi è dovuta al blocco di Cisgiordania e Gaza decisa da Israele dopo l'esplosione della seconda Intifada. «Chiusure e coprifuochi - afferma la Banca - continuano a ostacolare le attività economiche e i normali scambi sociali». La Banca aggiunge che per rilanciare l'economia palestinese, Israele dovrà ristabilire la libertà di movimento nei Territori occupati, l'Anp invece dovrà accelerare le riforme strutturali per incoraggiare gli investimenti commerciali mentre i paesi donatori sono chiamati ad aumentare gli investimenti annuali da 1 miliardo a 1,5 miliardi di dollari.

Proprio ieri è stato reso pubblico anche un rapporto dell'istituto di previdenza sociale israeliano, sulle difficoltà degli strati più deboli della popolazione. Circa 1,5 milioni di israeliani, afferma, hanno oggi un reddito mensile inferiore a 1.743 shekel (circa 300 euro) e sono quindi considerati al di sotto della soglia di povertà. Ad aggravare la situazione sono stati i tagli drastici alla spesa sociale decisi dal ministro delle finanze Benyamin Netanyahu.
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