Fiamma Nirenstein interviene sulle menzogne e le minacce di Ali Rashid
con una lettera al direttore
Testata:
Data: 23/11/2004
Pagina: 2
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: Faccio la giornalista e mi ritrovo minacciata come un fantoccio prezzolato
IL FOGLIO di martedì 23-11-04 pubblica a pagina 2 una lettera di Fiamma Nirenstein al direttore, sulle minacce e le menzogne pronunciate contro di lei e contro Carlo Panella dal consigliere della delegazione palestinese in Italia Ali Rashid.
Rinnoviamo l'invito ai nostri lettori a rivolgersi alla Farnesina per chiedere un intervento immediato. Si chieda dell'Ambasciatore Terzi, già nostro ambasciatore in Israele, che ha svolto la sua missione con rigore e intelligenza. Gli si chieda di intervenire al più presto e con la massima severità nei confronti di Rashid. Le cui parole meritano senza alcun dubbio l'espulsione.
Farnesina, Ambasciatore Terzi, segreteria 06-36918357
Ci si rivolge ad un amico, ad una persona per bene, ma proprio per questo richiedere che il suo intervento sia il più severo possibile.
E' anche possibile scrivere al ministero degli Esteri per esprimere il proprio parere. Cliccando sul secondo link in fondo alla pagina si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.

Di seguito pubblichiamo la lettera di Fiamma Nirenstein:

Al direttore - Un giornalista cerca la verità e la maniera di comunicarla. Naturalmente, si tratta della sua verità, della sua maniera di comunicarla. Nelle democrazie, la sua verità può essere motivo di dibattito, perché qualcun altro che ha guardato e raccontato ha, appunto, visto cose diverse, e le ha raccontate a sua volta. In questo periodo c’è un punto molto controverso nello sguardo di chi osserva e giudica. Un giornalista che lavora e vive in una certa area del mondo o che, come nel mio caso, si è accorto da parecchio tempo che esiste un fenomeno centrale, il terrorismo, la racconta; e questo suscita non solo dibattito, ma intimidazione, condanna, minaccia più o meno velata. Terrorista, terrorismo, è una parolaccia: puoi dire militante, armato, guerrigliero, resistente… allora sei a posto, perché nessuno è terrorista, e quindi tutti lo sono. Se racconti il terrorismo come un attacco che punta alla vittoria e non come un fenomeno difensivo, come un disastro crudele e sanguinoso capace di minacciare il mondo, la vita e la serenità di tutti, oppure invece come l’azione di qualche pazzo, le conseguenze logiche e morali sono ben diverse. La lotta fra questi due punti di vista è durissima, lo si vede dal dibattito sull’Iraq e sul conflitto israelopalestinese: se dici la parola e identifichi il fenomeno come aggressione intenzionale a civili, devi esporti quando parli di terrorismo all’astuto pio sguardo di un interlocutore che ti dice: "Si, ma qual è il vero terrorismo? Non è terrorismo anche quello di chi (mettiamo) occupa un territorio o di chi va a scovare i terroristi con l’esercito?". Qui interviene lo sguardo del giornalista: se tu ne hai visto la gargantuesca crudeltà, il paradosso dei genitori che seppelliscono i bambini che andavano a scuola in autobus, il terrorismo come tentativo ultimativo di bloccare ogni funzionamento democratico, rispondi che no, la risposta al terrorismo non è terrorismo, e neanche l’occupazione lo è, anche se è un’occupazione che speriamo finisca con un accordo politico che sgombera i territori e pone fine al terrore. Se parli del terrorismo, hai spezzato l’omertà richiesta. La spezzi se vedi e lo racconti che l’esercito israeliano ha cercato di tenere più basso possibile (quello israeliano molto di più di quello americano) il numero delle vittime, e che pure si imbatte in una situazione che non contrappone esercito a esercito, ma l’esercito dei civili (i terroristi) che si fanno scudo di altri civili, che usano i bambini… In sostanza, il giornalista è invitato in generale, e in particolare nella zona medio orientale a non identificare il fenomeno del terrorismo, così da rendere una gratuita e vuota crudeltà la guerra che gli viene portata, e una scelta offensiva per il senso comune il difendersene (muro di apartheid!), nel caso specifico il recinto che evita gli attacchi; e un criminale, ancora non si sa perché, un primo ministro che sin dalla sua elezione disse "sì" allo Stato palestinese e ha programmato persino contro i suoi lo sgombero da Gaza e da parte della Samaria nella prospettiva di riavviare le trattative. Io osservo la realtà israelo-palestinese e in generale del mondo mediorentale da anni; ma all’inizio della mia storia di carta c’è la fondazione di una rivista femminista"Rosa", e poi c’è Paese Sera (là, occupandomi di università ho incontrato il primo terrorismo e le prime minacce), poi tutti i settimanali italiani, poi la Stampa… tanti saggi, sette libri, tanta televisione documentaria… ho viaggiato in tutto il mondo sempre come inviato speciale, ho coperto le cadute dei comunismi, ho scoperto i documenti originali della partecipazione di Waldheim alla deportazione degli ebrei, ho incontrato Deng Tsiao Ping, ho fatto una delle ultime interviste a Rajiv Ghandi, mi sono occupata della guerra dei sik, ho fatto la prima guerra del Golfo a Gerusalemme, ho tenuto l’ufficio di New York di Epoca per un periodo breve ma intenso, i miei articoli escono anche su svariati giornali americani. Sono una giornalista quintessenziale, nel bene e nel male, nel senso che mi piace in modo quasi malato essere sul campo, guardare le cose da vicino. Mi piace anche stare legata alla seggiola sui testi molto presto la mattina e tutto il tempo che posso. Credo, senza farne un obbligo, che tuttavia rischiare la pelle per guardare dia al giornalista che osserva una qualche legittimità nel racconto. Parecchi colleghi si sono trovati a rischiarla insieme a me, o io insieme a loro, anche se a me piace molto andare da sola, accompagnata magari da un bravo stringer come Shlomo che mi ha portato negli insediamenti più impervi, o Nadem che mi ha portato fra i Tanzim e le Brigate di Al Aqsa, dentro le Moschee con i capi di Hamas o dietro un muro con un capo terrorista mentre si sparava a pochi metri, o nella casa dell’"Ingegnere" Yehie Ajash, o a trovare la famiglia Abbayath durante la storia della basilica di Bethlemme, nel coprifuoco israeliano mentre un tank puntava il suo cannone sulla nostra auto, cosa che è successa parecchie volte; la sorte mi ha portato tempo fa a Gaza con un altro collega italiano a sedere in casa di un capo di Hamas eliminato pochi giorni dopo da quelle parti, o chiusa in un’auto a intervistare in una periferia di un paesino palestinese un terrorista suicida. Sono stata fra i primi a entrare a Jenin nel 2002 appena finito lo scontro, nelle strade piene di mine e l’ho raccontato com’era, senza l’invenzione della strage che per qualche giorno è stata una delle tante verità che criminalizzano a priori, sempre, il comportamento di Israele contro il terrorismo eccetera eccetera.
La tua verità ha un prezzo, e certo non sono stata io a rifiutarmi di pagarlo, del resto come tanti altri colleghi. Quando mi chiedono: "Ma come, stavi là in mezzo, al funerale di Arafat?". Oppure semplicemente: "Ma come fai a vivere a Gerusalemme dove ogni angolo è esploso?". Oppure: "Vai nei Territori continuamente? Sei pazza? A Gaza in jeep con il colonnello Pinky Suarez (che ha avuto
un piede troncato durante lo stesso giro pochi giorni dopo per via di uno scoppio) per vedere i tunnel del contrabbando sotto il sentiero di Filadelfia mentre ci sparavano addosso dalle finestre? Sulla strada verso l’insediamento di Kadim dove da Jenin i cecchini fanno il tiro al piccione sulle auto che passano? Nel Gush Katif dove cadono i Kassam a vedere la casa col buco nel tetto mentre il sangue è ancora sul divano a fiori dove è stata ammazzata una ragazza mentre guardava la tv? Dentro la casa dei cahanisti
arrabbiati e pazzi come Noam Federman, a dirgli nell’intervistarlo che i terroristi ebrei col loro antiarabo sono come i nazisti? Sul confine del nord dove gli hezbollah sparano le katiushe, proprio per essere là quando sparano?". La risposta è: per forza; se sei un giornalista, è quello che devi fare, e che altro? E certo non sono la sola. Tanti colleghi fanno lo stesso, e molto di più. Quel prezzo è legittimo, ha un senso: il prezzo diventa tutt’altro, secondo i criteri della nostra civiltà, quando se ne aggiunge uno suppletivo, quello della minaccia proprio per aver cercato di vedere, proprio perché racconti quello che hai visto, lo elabori secondo la tua cultura e le tue conoscenze. E’ semplicemente ridicolo – con la mia ohimé lunghissima storia di giornalismo in ogni parte del mondo e avendo scritto una quantità di pagine che eguagliano forse l’Enciclopedia Britannica – che qualcuno mi dica che non sono una giornalista ma un fantoccio, magari prezzolato, agli ordini di Israele. E invece non mi fa ridere, perché è ai tempi nostri un’istigazione alla violenza. Alla violenza contro di me, e le parole dette contro Carlo Panella sono parole di istigazione contro un raro analista della realtà odierna, anche lui uno che semplicemente non odia dire la parola "terrorismo". Il panorama mondiale e europeo, e non è questo il luogo per dilungarsi dato che il Foglio se ne occupa bene da solo, lo mostra con chiarezza, la diffamazione e la minaccia per chi osa ribellarsi al senso comune dell’appeacement che proibisce di chiamare l’oppressione femminile col suo nome, la mancanza di democrazia col suo nome, la violenza col suo nome, l’antisemitismo con il suo nome, e soprattutto il terrorismo col suo nome, specie dall’11 di settembre, sono una parte basilare della guerra mondiale in corso. Leggo (io ero a Gerusalemme dove non si sente la radio italiana) che nel dibattito di Radio 24 sono stata giudicata da un diplomatico
palestinese che non conosco una prezzolata propagandista per aver sostenuto che Arafat teneva di più alla distruzione del suo nemico, Israele, che alla costruzione di uno Stato palestinese. A parte che il mio giudizio era là riportato in maniera un po’ troppo sincopata, tuttavia credo che, anche a detta di molti altri studiosi, analisti, giornalisti, questo punto di vista, che mi sento di riaffermare tranquillamente, goda di una quantità di pezze d’appoggio storiche e politiche, e sia quindi del tutto sostenibile. E tuttavia qui la storia non serve, non serve il ragionamento, serve solo a definire lo schieramento,
ed è quindi stata usato non per discutere, ma per insultare, incitare, negare la mia professionalità. Così come è stata ripetuta nel pubblico dibattito e in mia assenza la miserabile menzogna che io sia una colona. Sui coloni io ho fatto recentemente una complessa, variegata inchiesta in tre puntate: questo è tutto ciò che io ho a che fare con i coloni, cercare di guardarli e raccontarli senza ridere e senza piangere. Ma come forse il lettore non ricorda, per la linea ufficiale palestinese, i coloni non solo sono i nemici come gli israeliani, ma, a differenza dei civili israeliani (io sono solo italiana) nemici fisici da eliminare, indicati come tali. Chiamarmi "colona" è l’astuzia ultimativa dell’aggressività, un incitamento vero e proprio. Bene, direttore, torno laggiù, è molto interessante in questo periodo. Speriamo di potere raccontare presto un’autentica riapertura di trattativa, e che cessi sia il terrorismo
sia l’incitamento, come quello che investe Carlo Panella e me, e che ne è padre e madre.
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