Se salvare vite umane è intransigenza
Alberto Stabile non spiega che i soldati israeliani nelle città palestinesi contribuscono a sventare attentati
Testata: La Repubblica
Data: 22/11/2004
Pagina: 8
Autore: Alberto Stabile
Titolo: Powell in Medio Oriente per l'ultima missione
Lunedì 22-11-04, LA REPUBBLICA pubblica una corrispondenza di Alberto Stabile sulla visita di Colin Powel in Israele e nell'Anp. Stabile scrive: "Se la storia di questa guerra lunga ormai più di mezzo secolo insegna qualcosa, è che soltanto gli Stati Uniti possono convincere i responsabili dello Stato ebraico a recedere da certe posizioni intransigenti: se l´America vuole davvero che le truppe israeliane si ritirino, Israele non obbietterà".
In realtà Israele ha già manifestato la sua disponibilità a discutere con la dirigenza palestinese il modo per favorire lo svolgersi delle elezioni, senza che "i responsabili dello Stato ebraico" dovessero essere convinti dagli Stati Uniti.
Non si può tuttavia capire il rischio che un eventuale ritiro dalle città palestinesi comporterebbe per Israele se non si tiene conto del fatto che la presenza dell'esercito nei Territori contribuisce a sventare attentati che vengono continuamente organizzati. Trentatré attentati in fase di preparazione molto avanzata, secondo i dati forniti dai servizi di sicurezza, sono stati impediti negli ultimi tre mesi (vedi: "Sventati tre attentati al giorno", Informazione Corretta, 22-11-04).
Omettendo questi fondamentali elementi di giudizio la riluttanza israeliana a ritirarsi dalle città palestinesi può essere presentata, invece che per ciò che è, vale a dire la doverosa preoccupazione di uno stato per l'incolumità dei suoi cittadini, come una forma di "intransigenza".

(a cura della redazione di Informazione Corretta)

Ecco l'articolo:

Gerusalemme - Dopo 18 mesi di gelo, Colin Powell torna oggi nei Territori Occupati per incontrare i dirigenti palestinesi del dopo-Arafat. Il segretario di Stato, giunto ieri sera a Tel Aviv, porta con sé un dono che segna, al tempo stesso, la fine del suo coinvolgimento in quanto responsabile della diplomazia americana nel conflitto israelo-palestinese, e l´inizio di una fase più interventista da parte dell´Amministrazione Bush.
Gli Stati uniti, in sostanza, chiederanno ad Israele di prendere tutte le misure necessarie perché le elezioni del 9 gennaio, in cui i palestinesi saranno chiamati ad eleggere il nuovo raìs, si svolgano non sotto il regime d´occupazione imposto dall´esercito israeliano ma in condizioni le più normali possibili. In pratica, Powell proporrà a Sharon di ritirare i soldati dalle città palestinesi e di smantellare i posti di blocco disseminati in tutta la Cisgiordania, in modo da facilitare la libera circolazione degli elettori e dei candidati. Quanto alla risposta israeliana, non ci saranno sorprese. Se la storia di questa guerra lunga ormai più di mezzo secolo insegna qualcosa, è che soltanto gli Stati Uniti possono convincere i responsabili dello Stato ebraico a recedere da certe posizioni intransigenti: se l´America vuole davvero che le truppe israeliane si ritirino, Israele non obbietterà.
Queste, per lo meno, sono le attese della vigilia. A preparare il terreno in vista del suo arrivo, Powell ha inviato il vicesegretario di Stato, William Burns che, ieri, prima di recarsi a Ramallah, ha incontrato i vertici israeliani della Sicurezza. Burns ha confermato «il forte sostegno americano alle elezioni palestinesi», viste, assieme al ritiro israeliano da Gaza, come un passo intermedio verso la ripresa della Road Map, il piano stilato da Bush per il rilancio del negoziato, al termine del quale due stati, per due popoli, dovrebbero convivere «in pace e sicurezza», l´uno accanto all´altro.
Da parte israeliana non manca la disponibilità ad accontentare l´alleato americano. «Se ci sarà una richiesta formale in tal senso - ha detto una fonte governativa citata dal giornale Haaretz, a proposito del ritiro dalle città palestinesi in vista delle elezioni - la esamineremo», Per i palestinesi, soprattutto per il nucleo dirigente che si è addossato il peso della transizione, la scadenza del nove gennaio è decisiva. Che le elezioni si svolgano in un´atmosfera accettabile è per Abu Mazen, Abu Ala e gli altri responsabili dell´esecutivo una sorta di prova del fuoco agli occhi dell´opinione pubblica palestinese. «Se le elezioni venissero svolte sotto occupazione, la gente direbbe che il candidato ha corso in cima a una carro armato israeliano», ha detto con tutta franchezza il premier, Abu Ala. Lo stesso Abu Ala, chiederà oggi a Powell che i soldati israeliani si ritirino almeno un mese prima delle consultazioni dalle città occupate dopo lo scoppio dell´Intifada.
Con tono più duri, ma non dissimili nella sostanza, gli ha fatto eco, da Damasco, Faruk Kaddumi. «Se Isralele non ritirerà i soldati, le elezioni non si svolgeranno», ha detto il nuovo leader di Al Fatah. A quanto pare, Kaddumi, che ha sempre respinto gli accordi di Oslo sarebbe disposto ad appoggiare la candidatura di Abu Mazen, l´ex premier, oggi a capo del Comitato esecutivo dell´Olp, sulla cui candidatura sembrano convergere i favori della maggioranza all´interno di al Fatah. Altrettanto forte è l´appoggio che la generazione più giovane dei dirigenti palestinesi garantisce a Marwan Barghouti, il leader di al Fatah nei Territori occupati che sconta l´ergastolo in un carcere israeliano. Potrebbe delinearsi un accordo in base al quale Abu Mazen verrebbe scelto come candidato unico alla Presidenza: in cambio, però, Abu Mazen dovrebbe porre la liberazione di Barghouti al centro del suo programma.
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