La nuova leadership palestinese dovrà abbandonare la linea di Arafat
una riflessione di Abraham B. Yehoshua
Testata: La Stampa
Data: 19/11/2004
Pagina: 1
Autore: Abraham B. Yeoshua
Titolo: L'eredità ambigua di Arafat
In prima pagina e a pagina 8 LA STAMPA di venerdì 19-11-04, pubblica un articolo di Abraham B. Yehoshua, "L'eredità ambigua di Arafat". Il romanziere israeliano tenta un'interpretazione della personalità del raìs, e invoca una nuova leaderdship palestinese che ne superi "l'infantilismo".
Ecco l'articolo:

Subito dopo aver intitolato il presente articolo «Arafat» e averne scritto la prima riga ho tentato, come faccio di solito, di salvarlo. Il mio computer si è rifiutato però di eseguire l'ordine avvisandomi che nella raccolta di articoli da me scritti ne esisteva già uno con questo nome. Sono rimasto stupito. Non ricordavo di aver pubblicato un articolo intitolato «Arafat». Non è infatti mia abitudine quella di attribuire le cause di eventi storici o politici al carattere o alle qualità di questo o di quel leader ma di cercare sempre le cause profonde che portano questo o quel leader a prendere determinate decisioni. So però che il mio computer è più intelligente di me e ho quindi cercato subito fra i files l'articolo in questione.
Ne ho trovati due, scritti nel corso degli ultimi tre anni e mai pubblicati. Ciò significava che al di là delle analisi sociali e sociologiche per una volta avevo attribuito alla personalità di Arafat un peso maggiore negli avvenimenti di quello riservato ad altri leader. Ho riletto quanto avevo scritto e penso di aver individuato un lato della sua personalità che non è da annoverarsi fra quelli descritti dalla marea di analisi, spiegazioni e discorsi pubblicati dopo la sua morte.
Vidi per la prima volta Yasser Arafat su uno schermo televisivo nell'inverno del 1968, qualche mese dopo la fine della guerra dei Sei giorni. Era seduto in una grotta buia della Giordania, con un fucile in mano, intento a conversare in un inglese maccheronico con il giornalista straniero che lo intervistava. Nonostante la vittoria schiacciante di Israele su tre Stati arabi di qualche mese prima era certo non solo della capacità dei palestinesi di cancellare lo Stato ebraico dalla faccia della terra ma di riuscire anche a ottenere l'appoggio di tutto il mondo arabo in questo suo intento. Nei 36 anni trascorsi da allora i tratti distintivi di Arafat, fisici e spirituali, e la sua tracotanza infantile sono rimasti immutati. Lo abbiamo visto migliaia di volte mentre passava in rassegna picchetti d'onore, abbracciava leader di altre nazioni, teneva discorsi al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, abbracciava e baciava i Presidenti degli Stati Uniti o vari premier israeliani e, naturalmente, attorniato dal suo popolo acclamante. Il fatto che il suo abbigliamento - la strana uniforme militare e la keffiah - non sia mai cambiato, dimostra fino a che punto sia rimasta radicata in lui un'idea a cui era asservito, consapevolmente o meno.
Su Arafat sono state scritte un'infinità di biografie, sia da suoi sostenitori sia da nemici o giornalisti che hanno cercato di tracciare un profilo obiettivo della sua figura. Non ho nessuna intenzione di competere con quelle opere, di certo basate su una quantità di materiale storico e familiare. Vorrei solo rendere partecipe il lettore delle impressioni di un uomo che non ha mai incontrato personalmente Arafat malgrado, come tutti in Medio Oriente, non abbia mai smesso di tentare di capirlo e di prevederne le mosse.
Se dovessi riassumere in un'unica frase le mie impressioni sul defunto leader direi che era animato da uno spirito infantile o maliziosamente giovanile, probabilmente all'origine del fascino da lui esercitato sui suoi connazionali. Tale spirito ha fatto di lui un simbolo e un'istituzione (malgrado non possedesse gli strumenti di governo necessari a far valere la sua autorità) in quanto incarnava una caratteristica dei palestinesi di cui ora però è arrivato il momento di liberarsi.
Non solo la sua bassa statura, gli indumenti bizzarri, gli atteggiamenti ridicoli e frenetici denotavano infantilismo ma anche il suo modo di esprimersi. Un esempio classico si è avuto forse di recente quando Arafat, nel rimproverare un giornalista che gli aveva posto una domanda imbarazzante, ha reagito così: «Stia attento lei, sta parlando a un generale. Io sono un generale». Il fatto che il leader di un popolo, la cui posizione è estremamente più significativa di quella di un ufficiale dell'esercito, pretenda nei momenti di rabbia che gli si riconosca non il titolo di leader, di rivoluzionario o di combattente per la libertà ma quello di generale, può gettar luce sul suo carattere. Questa sua pretesa, le ridicole medaglie al valore appuntate sulla sua giacca, sono una fantasia infantile.
A cosa è dovuto questo atteggiamento puerile? Quali sono le sue cause? Per rispondere a queste domande occorre ripercorrere il cammino storico della formazione del popolo palestinese.
Per quattrocento anni il mondo arabo è stato dominato dall'impero turco. Le differenze fra i popoli sparsi nell'enorme distesa di territori che costituiva l'impero erano molto labili. Alla fine della prima guerra mondiale, nello spirito dell'autodeterminismo dei popoli già in atto in Europa a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, cominciò anche il risveglio nazionalista dei diversi gruppi etnici nel territorio arabo. Dopo un periodo relativamente breve di colonialismo britannico e francese, si formarono in Medio Oriente, con efficienza e rapidità, vari Stati, ciascuno con le proprie istituzioni e dei confini ben precisi: Egitto, Siria, Iraq, Giordania, Libano, Kuwait, Sudan e in seguito anche Tunisia, Algeria, Marocco e Libia. Solo la crescita dei palestinesi all'interno di questo contesto fu interrotta a causa dell'arrivo e dell'insediamento degli ebrei nel loro territorio nazionale.
Sulle prime i palestinesi ritennero che i loro fratelli maggiori, i grandi e ricchi Stati arabi, li avrebbero aiutati a scacciare il debole embrione ebraico che aveva cominciato a svilupparsi tra loro. Dopo tutto l'equilibrio delle forze in campo era decisamente a favore del mondo arabo che aveva promesso di accorrere in aiuto del giovane fratello incappato in un guaio unico nel suo genere. Conseguentemente, anziché raccogliere le forze per lottare contro gli ebrei (che nel frattempo avevano rinsaldato la presa sui territori palestinesi), i locali si affidarono alla promessa araba di difendere i loro diritti nazionali. Ma nonostante la retorica esagitata e le dichiarazioni roboanti, le nazioni vicine non avevano alcuna intenzione di indebolirsi in una lotta contro il piccolo Stato sionista in cui vivevano ebrei sopravvissuti alla Shoah che combattevano con le spalle al muro (o meglio, al mare) con enorme determinazione, efficacia e l'appoggio morale di gran parte del mondo occidentale e persino comunista. I palestinesi, dal canto loro, delusi e frustrati, pretendevano invece una soluzione totale e senza compromessi: la cacciata di tutti gli ebrei.
Yasser Arafat, eterno profugo nato fuori dalla Palestina, incarnava la crescita nazionale interrotta, l'infantilismo in cui i palestinesi erano rimasti bloccati, le fantasie irreali, la rabbia costante nei confronti dei fratelli maggiori che li avevano delusi, il desiderio di ottenere l'indipendenza senza però poter garantire in modo responsabile concessioni e compromessi. Con rabbia e frustrazione crescenti Arafat cominciò a provocare gli Stati arabi nel vano tentativo di risvegliare in loro uno spirito rivoluzionario e di porlo al servizio della sua lotta. Un poco alla volta, come un bambino-adolescente abbandonato e deluso, incapace di riconoscere i propri limiti e la difficile realtà che lo circondava ricorse agli attentati terroristici suicidi come parte integrante della sua strategia nazionalista, con tutte le conseguenze tragiche che questa scelta ha comportato per gli altri ma in primo luogo per il suo popolo.
Dopo lo scoppio della devastante Intifada da lui iniziata dopo il fallimento dei colloqui di Camp David, un gruppo di leader e intellettuali israeliani, attivisti per la pace e rappresentanti della sinistra, si incontrarono al check-point di Aram, tra Ramallah e Gerusalemme, con alcuni esponenti della leadership e dell'intellighenzia palestinese. Nonostante noi israeliani muovessimo serie critiche alla politica e alla condotta morale del governo israeliano nessuno dei nostri interlocutori - docenti universitari e scrittori - osò pronunciare una parola contro Arafat e le sue decisioni deleterie. Allora, scherzando, io commentai: «Vorrei potermi nascondere nelle vostre camere da letto e ascoltare cosa pensate veramente del vostro leader. Non è possibile che non abbiate critiche nei suoi confronti». I palestinesi si spaventarono all'idea che un israeliano potesse ascoltare i loro veri pensieri e naturalmente sorrisero con indifferenza.
Ora spero che dopo la morte di Arafat, alla fine del periodo di lutto, la società palestinese possa esaminare con maturità, razionalità e onestà il comportamento e i fallimenti del suo defunto leader. Una valutazione critica e seria del suo comportamento problematico e infantile, causa di così tante tragedie per il suo popolo, è una condizione importante per una leadership più matura, che anziché accusare il mondo intero, analizzi la realtà e capisca a quali sogni rinunciare per alleviare la sofferenza dei suoi connazionali, a cui spetta un periodo di pace e tranquillità.
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