Bambini per la propaganda
dietro la maschera del pacifismo, un articolo unilaterale e ostile a Israele
Testata:
Data: 18/11/2004
Pagina: 12
Autore: Mariagrazia Gerina
Titolo: Il muro visto con gli occhi dei ragazzi
Bambini israeliani e palestinesi si incontrano a Roma. La giornalista che assiste all'incontro ne trae un articolo con una lunga descrizione dei danni del "muro" e alcune righe sugli attentati suicidi.
E a una bambina israeliana, proveniente dalla comunità pacifista arabo-ebraica di Nevè Shalom, mai divenuta obiettivo del terrorismo, fa ripetere gli slogan contro la barriera difensiva e il luogo comune sui terroristi suicidi mossi dalla "rabbia" e dall'impossibilità di "decidere del loro futuro".
Ne risulta, pubblicato da L'UNITA' di oggi, 18-11-04, un articolo che si finge "pacifista" ed è in realtà unilaterale e ostile ad Israele.
Ecco il testo:

«È una cosa orribile, al villaggio erano tutti disperati mentre lo costruivano». Il muro - «Jidad» - da casa di Maha non si vede. «Si vede - racconta Maha, che ha sedici anni e vive a Jenin - il campo profughi di Jenin e, al centro del campo, quello che qui chiamiamo il nostro Ground Zero, l’area rasa al suolo dai carri armati israeliani». L’altra finestra invece guarda verso Nazareth, verso Israele: «Nelle giornate limpide riesco a vedere le luci, vedo le cose che qui non abbiamo». La scorsa estate Maha è stata male, aveva bisogno di un ospedale. Il più vicino è quello di Nablus. Ma c’è il muro di mezzo e quel giorno Maha al check-point non l’hanno fatta passare. È dovuta arrivare fino in Giordania, ad Amman. Un’altra volta è stata inseguita dai carri armati fin sotto scuola. «E poi ho visto sparare alle persone, le ho viste cadere uccise. Molte case sono state distrutte, non ci sono nemmeno più le strade a Jenin», racconta Maha, figlia di un giornalista e di un’insegnante, che da quattro anni non può più raggiungere la sua scuola di Zababda, oltre il muro.
«È grigio, è brutto, è fatto di cemento e rovina tutto, tra poco arriverà anche da noi». Kerem è una ragazzina israeliana. Ha 11 anni - «e mezzo», si affretta ad aggiungere, come se avesse una voglia incontenibile di crescere, o come se non le tornassero i conti con la sua età, troppo giovane per affrontare la realtà del suo Paese. Il muro Kerem lo vede tutti i giorni, anche se abita in un villaggio fortunato, tra Gerusalemme e Tel Aviv, dove arabi e israeliani convivono e vanno a scuola insieme. Nevè Shalom/Wahat al-Salam, fondato negli anni Settanta per dimostrare che la convivenza è possibile, anche di questi tempi, è un nome che riecheggia la pace. «Dove passa il muro non c’è più vita, niente più oliveti, niente più terreni coltivati», racconta Kerem, che è figlia di un vivaista e di un’insegnante. «Perché lo hanno costruito?», si domanda. Una volta ha partecipato anche a un incontro per sentire cosa ne pensavano i grandi. «Pensano che non sia necessario. E poi tra dieci anni al massimo lo dovranno buttare giù», aggiunge, convinta di quello che dice: «Prima o poi dovremo fare la pace. E allora perché, adesso, quel muro?», torna a domandarsi Kerem, che una volta ha visto cosa c’è al di là: «Sono andata a Ramallah, con mia madre. Ho visto i carri armati, gli uomini con il volto coperto e le bandiere palestinesi, pianti di donne e di bambini». Scene familiari per Maha.
Maha, che a Jenin fa parte del consiglio dei bambini, al ritorno, sa già cosa racconterà: «Racconterò ai miei amici di Jenin che ho conosciuto l’altra faccia dei bambini israeliani. Da quando hanno costruito il muro, non ci è più capitato di vederli». Maha, come Kerem, fa parte di una piccola delegazione di pace, che è partita dai due versanti del muro per ricongiungersi a Roma. In tutto 10 bambini, cinque palestinesi, da Jenin, e cinque israeliani, arabi ed ebrei, da Nevè Shalom. Ospiti per una settimana del Comune di Roma e della rivista «Confronti». «Credevamo che ci odiassero», racconta Kerem. «Anche noi pensavamo la stessa cosa di loro», dice Maha, mentre insieme si lasciano fotografare davanti alla Fontana di Trevi. Maha indossa la kefiah, Kerem le mette un braccio sulla spalla. Incontrandosi, hanno scoperto solo che sono solo «bambini che vogliono la pace». Incontrarsi non è stato facile, però. «Uscire da Jenin è stato qualcosa di miracoloso», racconta Maha
Sono bambini sotto assedio, spiega lo psicologo di Nazareth che li accompagna nel viaggio, Mustafa Qossoqsi. Gli uni sotto l’assedio dei carri armati, gli altri con addosso la paura di saltare per aria. «Tra qualche anno magari si sarebbero incontrati come combattenti». Adesso che sono insieme, da bambini di pace, possono parlare di tutto, anche dei kamikaze. «Io non ne conosco», dice Maha: «Non penso che sia giusto farsi esplodere uccidendo i civili, però noi palestinesi contro i soldati israeliani non abbiamo armi». «L’amica di mia cugina è morta in un attentato», racconta Kerem, «anch’io ho paura». «Io - dice Kerem - non lo farei mai di farmi esplodere». «Nemmeno io», risponde Maha. «Ma cosa posso dire io che non conosco la disperazione in cui vivono?», si affretta ad aggiungere Kerem: «Credo che sia la rabbia muoverli, non sanno come fare per cambiare la situazione, almeno se potessero decidere il loro futuro...».
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