Giornalismo scandalistico sulla morte di Yasser Arafat
dà credito all'ipotesi dell'avvelenamento
Testata: Corriere della Sera
Data: 18/11/2004
Pagina: 8
Autore: Francesca Battistini - Guido Olimpio
Titolo: La morte di Arafat, il segreto diventa giallo
A pagina 8 IL CORRIERE DELLA SERA, di oggi, 18-11-04, pubblica un articolo di Francesca Battistini e Guido Olimpio sulla morte di Arafat e sulla mancanza di informazione che la circonda. Mentre l'unica certezza è la smentita, da parte delle autorità francesi, dell'ipotesi dell'avvelenamento, tra i palestinesi e nel mondo arabo quest'ultima continua a circolare e ad alimentare odio e oltranzismo. Battistini e Olimpio sembrano porre queste speculazioni, chiaramente infondate, sullo stesso piano delle altre ipotesi. A giudicare dallo spazio ad esse dedicato, anzi, i due giornalisti sembrano giudicarle di gran lunga più interessanti. Il che sarebbe anche comprensibile secondo i criteri del giornalismo scandalistico, ma non per un quotidiano che voglia fare seriamente informazione.
Ecco l'articolo:

«Il terzo giorno, Dio guardò la tomba vuota di Arafat e disse: un altro palestinese?». La barzelletta gira nei bar, ha del blasfemo, ma rende l'idea: il post mortem del vecchio Yasser, una settimana dopo, è chiacchierato quanto la sua agonia. Credenze popolari e faide politiche. Leggende metropolitane e vera disinformazione. La kefiah è corta e tutti la tirano secondo il proprio comodo. La malattia, prima cosa: c'è il giallo del veleno, la voce che più intossica, ma sopravvivono le ipotesi sull'Aids, sulla cirrosi epatica, sul cancro, sulla demenza. La sepoltura, anche: chi dice che la bara era vuota e chi assicura che, vuota, è la tomba; chi butta lì d'un funerale al Cairo senza il morto e chi, neanche fosse il messia, s'aspetta che da Parigi l'uomo si rifarà vivo. «Abu Ammar non è morto!», gridava la folla il giorno dei funerali. Di sicuro, non è morto il suo culto e anche da là, ovunque sia, manda gli eredi in tilt. Gli hacker israeliani hanno messo in circolo un nuovo virus, un nome che appassiona e infetta i computer: «Ultime notizie su Arafat».
«Se scopriamo chi l'ha avvelenato, la paga cara», promette Tayeb Abdul Rahim davanti alla Mukata. «Le circostanze della morte di Arafat sollevano molte domande», dice il premier Abu Ala. Il ministro degli Esteri, Nabil Shaath, ha sempre negato il veleno e ora tace. E' il vero nodo: un sistema per stanare la vedova Suha, che sa e non dice, ma anche per giustificare agli occhi del popolo una morte da profugo che il raìs, tante volte, aveva giurato di non volere. Un magistrato israeliano ha aperto un'inchiesta. Hamas, Jihad e Brigate Al Aqsa ne vogliono una del Parlamento di Ramallah. Una delegazione ufficiale palestinese volerà a Parigi per «chiarire com'è morto il nostro martire»: il ministro della Sanità, Jawad al-Tibi, coi colleghi dell'Interno e della Giustizia, più uomini dei servizi di sicurezza, chierici, medici egiziani, giordani, tunisini e dei Territori. Tutti dalle autorità francesi, soprattutto da Suha che assieme a un dottore palestinese, suo fidato amico, ha in mano la cartella clinica. E' lei, l'unica autorizzata a parlare. Per ora, chi parla non spiega. Il governo francese ripete che il veleno è escluso: «Se i medici avessero sospettato qualcosa, l'avrebbero riferito alla polizia. Invece, è stato dato il permesso di seppellirlo».
La stampa parigina cita una rara malattia del sangue (coagulazione intravascolare disseminata) aggiunta a problemi di fegato, probabilmente una cirrosi epatica «meccanica» (che non c'entra con quella degli alcolizzati, perché Arafat beveva solo acqua). Un giornale giordano invece dà il nome del veleno usato: estratto di ricino, una tossina vegetale derivata dai semi che, mescolata al cibo, provoca la rottura delle piastrine del sangue. Un altro rincara con un'intervista all'ex ministro Abu Mudin, che rivela come il raìs negli ultimi giorni alla Mukata avesse dolori duodenali, conati di vomito, si tenesse in tasca le chiavi del frigorifero personale e dicesse: gli israeliani mi hanno raggiunto.
L'altro giorno, la tv Al Arabiya ha fatto un sondaggio: l'83,2% dei telespettatori crede al veleno. Ashraf al-Kurdi, neurologo giordano che visitò Yasser con 19 colleghi prima che lasciasse la Mukata, da giorni chiede un'autopsia, così come ai primi sintomi s'insospettì e volle subito un esame tossicologico («ma a Ramallah era impossibile farlo»). E' un tamtam, che passa per gli oncologi del Cairo («hanno usato un veleno a lungo periodo che modifica il sangue») e un chimico come Bassam Abu Sharif, consigliere di Arafat: «Mi ricorda l'avvelenamento di Wadi Hadad, che rappresentava il Fronte popolare palestinese nella Germania Est: cominciò a perdere globuli bianchi, si spense in poche settimane in un ospedale tedesco».
Da oggi, in tutti gli uffici pubblici palestinesi è obbligatorio esporre un ritratto di Arafat. Un morto che vive. «Sempre che sia morto», dicono nelle strade della West Bank. Giallo chiama giallo: «Perché non ci hanno fatto vedere il suo corpo?»; «Perché non l'hanno sepolto nel lenzuolo bianco, come vuole la tradizione?»; «Ma siamo sicuri che fosse davvero in quella bara?».
Anche la memoria, ormai, è un veleno.
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