Eufemismi, omissioni, semplici falsità
una pagina di cronaca scorretta
Testata: La Repubblica
Data: 16/11/2004
Pagina: 12
Autore: Alberto Stabile - Fabio Scuto - Giuseppe Marinotti
Titolo: Il dopo Powel spaventa i palestinesi - Al Fatah avverte Abu Mazen «Noi non deporremo le armi» - Scontro sulle origini del raìs
A pagina 12 LA REPUBBLICA di oggi , 16-11-04, pubblica l'articolo di Alberto Stabile "Il dopo Powel spaventa i palestinesi" nel quale si legge che i palestinesi avrebbero sempre inutilmente richiesto a Israele il rispetto della Road Map. In realtà la Road Map è fallita perchè proprio i palestinesi non ne hanno mai rispettato il primo punto: la lotta al terrorismo.
Ecco l'articolo:

GERUSALEMME - La notizia delle dimissioni di Colin Powell è stata accolta da Israele con apparente indifferenza: «Un rimpasto nell´amministrazione americana era largamente previsto dopo la rielezione del Presidente Bush», ha commentato una fonte del governo Sharon. Ma per l´Autorità palestinese, l´uscita di scena del Segretario di Stato nel bel mezzo dell´offensiva diplomatica lanciata dagli eredi di Arafat per accreditarsi come partner affidabili di un futuro negoziato deve essere stata una doccia fredda.
Proprio ieri mattina il responsabile della politica estera palestinese, Nabil Shaath aveva annunciato che il Segretario di Stato americano avrebbe compiuto una visita a Ramallah, il 23 novembre, per incontrarsi con la dirigenza palestinese. È evidente che, pubblicizzando l´imminente visita di Powell, assieme a quelle di altri attori impegnati sulla scena mediorientale, come il responsabile del Foreign Office, Jack Straw, atteso per la prossima settimana, Shaath intendeva sottolineare non solo l´attenzione che l´Occidente riserva al dopo Arafat, ma anche l´audience che l´attuale leadership sembra in grado di assicurarsi.
Quella leadership che proprio per non alimentare i rischi del processo di successione ha ieri chiesto formalmente alla Francia di avere il referto medico della morte di Yasser Arafat. La richiesta di Abu Ala era volta ad allontanare i sospetti su Israele e l´ipotesi di un avvelenamento del presidente della Anp. Ma la Francia ha risposto seccamente e freddamente: "Il referto è a disposizione solo degli aventi diritto". Cioè dei familiari, dunque della moglie Suha.
Non è chiaro se l´annuncio che Powell sta per fare le valigie vanificherà l´incontro del 23 (che, comunque, non era stato ufficialmente confermato dal Dipartimento di Stato). Dipende da quali saranno i tempi dell´avvicendamento tra il vecchio e il nuovo segretario di Stato. Sta di fatto che, nel giro di qualche settimana, israeliani e palestinesi si troveranno a dialogare con interlocutore diverso.
Sin dai primi commenti, a caldo, è evidente che i due contendenti nutrono aspettative diverse. «Ciò che ci si dovrà attendere è che il Presidente Bush nominerà dei nuovi responsabili che lo assisteranno nel compimento del suo obiettivo dichiarato: vincere la guerra al terrorismo». I palestinesi, invece, sperano in una politica estera americana che «condurrà alla fine dell´occupazione israeliana e alla realizzazione della soluzione al conflitto prospettata da Bush attraverso la creazione di due stati».
La realtà è che israeliani e palestinesi, pur avendo estremo bisogno degli Stati Uniti, hanno valutazioni diverse della politica estera americana, perché partono da posizione che non sono paragonabili. Finchè il conflitto mediorientale sarà, come è successo durante il primo mandato di Bush, di competenza esclusiva della Casa Bianca il governo Sharon ha ragione di sentirsi in una botte di ferro. Bush, infatti, ha condiviso ed elogiato la politica del pugno di ferro attuata da Sharon contro l´intifada e ha benedetto il piano di ritiro unilaterale proposto dal premier israeliano, accompagnandolo dalle più ampie concessioni politiche che un presidente americano abbia mai fatto allo Stato ebraico.
Mentre Powell, pur concordando con le scelte del Presidente, non ha mai perso occasione di notare che il ritiro unilaterale in tanto sarebbe stato efficace in quanto fosse stato un primo passo verso la realizzazione della Road Map (il percorso tracciato da Bush verso la ripresa del dialogo). Richiesta, questa, che i palestinesi hanno inutilmente continuato a fare.
Sempre a pagina 12 l'intervista di Fabio Scuto ad Abu Mohammed, capo a Gaza dell'organizzazione terroristica Brigate dei Martiri di al Aqsa, indicata con la complessa perifrasi eufemistica "il nucleo dei "duri" di Al Fatah".
La sparatoria contro Abu Mazen è definita dallo stesso Scuto una "contestazione". Non c'è dunque da stupirsi se il giornalista non fa una piega quando il suo interlocutore la commenta in questo modo surreale: "In tutte le parti del mondo nessun leader gode del 100 per cento dei consensi".
Ecco l'articolo, "Al Fatah avverte Abu Mazen «Noi no deporremo le armi»" :

GERUSALEMME - La sparatoria dell´altra notte è il risultato della totale mancanza di un vero ruolo di controllo a Gaza da parte delle organizzazioni palestinesi preposte alla sicurezza negli ultimi 4 anni». Non usa mezze parole il capo delle Brigate dei martiri di al Aqsa di Gaza, il nucleo dei "duri" di Al Fatah, che preferisce presentarsi con il suo nome di battaglia: Abu Mohammed. Quasi quarantenne appartiene alla generazione cresciuta sotto l´occupazione israeliana, annuncia la sua fedeltà alle scelte di Fatah e denuncia la pericolosa deriva delle piccole fazioni, mini-milizie senza nessuna base reale fra la popolazione palestinese che vogliono guadagnarsi spazio a colpi di kalashnikov. Intanto Jihad e Hamas annunciano l´intenzione di boicottare le elezioni di gennaio.
Chi era l´obiettivo di quei proiettili: Abu Mazen o Mohammed Dahalan?
«Nessuno dei due e certamente non era un attacco preparato, ma è indubbio che alcuni gruppi in dissenso con Fatah vogliono imporsi con lo scontro a tutti i costi».
E se Abu Mazen fosse stato ucciso in quella sparatoria?
«Sarebbe stato un vero disastro per tutto il popolo palestinese. Abu Mazen è da tutti noi considerato un lottatore, ed è rispettato anche da gran parte dell´opposizione interna. Io credo che sia l´uomo che può guidarci nel futuro».
Deve ritirare la sua candidatura alla presidenza dell´Anp?
«Noi confermiamo la nostra posizione: rispetteremo le decisioni che saranno prese da Fatah, purché siano basate su scelte democratiche e collettiva e non imposte dall´alto. Se Fatah sceglie Abu Mazen come candidato alle elezioni presidenziali dell´Anp, le Brigate dei martiri di al Aqsa - che sono una parte di Fatah - rispetteranno questa decisione».
Ma perché quella contestazione? Dalle parole si è passati subito alle armi.
«In tutte le parti del mondo nessun leader gode del 100 per cento dei consensi. Io credo che Abu Mazen può contare sulla maggioranza dei membri di Fatah e dell´appoggio di gran parte della popolazione palestinese».
Marwan Barghuti, che sconta cinque ergastoli in una prigione israeliana, annuncerà la sua decisione, se candidarsi o meno, tra due settimane. Sarebbe per voi un candidato migliore?
«Le brigate al Aqsa valutano Barghuti uno dei migliori leader. Se Barghouti decidesse di candidarsi e venisse democraticamente scelto all´interno di Fatah, noi lo appoggeremo. Ma io non credo che accadrà. Non si candiderà contro Abu Mazen perché questo provocherebbe uno scontro aperto, dividerebbe in due la nostra organizzazione e questo avrebbe effetti nefasti per tutti noi e per il risultato delle elezioni presidenziali».
Il premier Abu Ala ha assunto la direzione della sicurezza. Pensate che - al contrario di Arafat - cercherà di disarmarvi?
«Le brigate al Aqsa sono il primo gruppo che ha chiesto la fine di questi scontri fra fazioni, chi abusa delle armi deve essere fermato. Le armi palestinesi non vanno rivolte contro altri palestinesi, devono essere usate per combattere l´occupazione israeliana. Noi vogliamo però dire a Abu Ala e a tutti gli altri che nessuno può disarmare la resistenza palestinese mentre continua l´occupazione israeliana delle nostre terre. Le fazioni che devono essere disarmate sono quei piccoli gruppi di potere che hanno formato delle mini-milizie private e usano le armi contro la loro stessa gente».
L´elezione di Abu Mazen aprirebbe una possibilità di negoziato con Israele. Siete favorevoli o contrari a questa linea?
«Noi siamo parte di Fatah e sosteniamo il suo programma politico. Le risoluzioni dell´Onu parlano chiaro, abbiamo il diritto a un nostro Stato sulle terre occupate nel 1967 da Israele, questa è la nostra linea. Nel passato abbiamo cercato di raggiungere la pace con Israele, ma con quale risultato? Più attacchi e la negazione dei nostri diritti.
In un trafiletto dalla Francia di Giuseppe Marinotti vengono riportate le polemiche sul certificato di morte del raìs e la richiesta di rettifica da parte del Centro Wiesenthal.L'articolo conferisce alle menzogne di Arafat, che aveva sostenuto di essere nato a Gerusalemme (ma anche a Gaza), ed era invece originario del Cairo un credito ingiustificato.
Ecco l'articolo:

PARIGI - «Yasser El Kodwa Arafat, nato a Al Qods/Gerusalemme il 3 agosto 1929». Il certificato di morte del leader palestinese alimenta nuove polemiche. La citazione della Città Santa come luogo di nascita ha suscitato le proteste di alcuni leader ebraici e del Centro Wiesenthal, che ha chiesto al Guardasigilli francese di rettificare il documento. Nonostante molti biografi sostengano che Arafat sia nato al Cairo, il comune di Clamart, dove si trova l´ospedale "Percy" in cui è morto Arafat, ha indicato Gerusalemme in base «a un libretto di famiglia rilasciato dal ministero degli Affari esteri», dopo la nascita della figlia Zahwa. La sezione europea del Centro Wiesenthal ha chiesto al Guardasigilli «di indagare sul certificato di morte, rettificare le indicazioni sul suo luogo di nascita», e rivelare le cause del decesso per mettere fine alle accuse di assassinio contro Israele.
(critiche a cura della redazione di Informazione Corretta)

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