Il veto dei terroristi sul dopo Arafat diventa l'opinione dei militanti
e viene data legittimità a chi non vuole il dialogo con Israele
Testata: Corriere della Sera
Data: 16/11/2004
Pagina: 12
Autore: Francesca Battistini - Guido Olimpio - Mara Gergolet
Titolo: Nei rifugi della casbah in attesa di Barghouti - L'erede del raìs piace troppo a Israele
A pagina 12 il CORRIERE DELLA SERA di oggi, 16-11-04, pubblica l'articolo di Francesca Battistini e Guido Olimpio "Nei rifugi della casbah in attesa di Barghouti: «Fermeremo Abu Mazen» ". I terroristi delle Brigate dei Martiri di al Aqsa sono costantemente definiti "militanti", "attivisti", "uomini", "giovani" e con altri eufemismi. Questa consueta distorsione ha in questo caso l'effetto di conferire legittimità alle opinioni di chi difende soltanto il suo "diritto" di continuare a compiere stragi di israeliani.
Ecco l'articolo:

DAI NOSTRI INVIATI NABLUS (Cisgiordania) Nascostinella vecchia casbah di Nablus i superstiti delle Brigate Al Aqsa fanno campagna elettorale. Messaggi sms, documenti portati da corrieri, telefonate alimentano un dibattito che dalla Cisgiordania raggiunge Gaza. A Jenin, a Hebron e Betlemme si discute sulle prossime elezioni presidenziali, fissate per il 9 gennaio. I guerriglieri del Fatah non hanno gradito la presunta investitura di Abu Mazen e raccontano particolari sulla sparatoria di Gaza di domenica sera. «Ho parlato con i miei compagni a Gaza — spiega Nasser, uno dei leader delle Brigate —. I giovani si sono infuriati quando hanno sentito che veniva annunciato l'arrivo del "presidente" Abu Mazen. Ma non lo è ancora». Così hanno aperto il fuoco alla tenda funebre eretta per Arafat. La contestazione laica si salda con quella religiosa di Hamas e Jihad. In un incontro con Abu Mazen i responsabili dei due movimenti hanno affermato che probabilmente non parteciperanno alle prossime elezioni «perché non sono stati consultati».
Gli uomini che guidano le cellule delle Brigate — diverse in ogni città della Cisgiordania — hanno alcuni tratti inconfondibili. La barba non curata, il pallore del volto di chi vive nei cunicoli mai raggiunti dal sole. Si rintanano in piccole case di pietra protette da sentinelle, ma se li abbiamo trovato noi non deve essere impossibile farlo per gli israeliani. La semi-clandestinità non impedisce loro di guidare la fronda contro la nomenklatura palestinese.
Per gli attivisti la rapidità con la quale il Comitato centrale avrebbe designato Abu Mazen — di ufficiale non c'è nulla — non rispetta la democrazia. «Siamo infuriati. Dove erano quando soffrivamo i membri del Comitato? Cosa hanno fatto per noi? E poi Abu Mazen, durante il vertice di Aqaba, è riuscito a trasformare noi in oppressori e gli israeliani in vittime», accusano. I militanti e gran parte della popolazione non si fidano degli attuali dirigenti, macchiati dall'accusa di corruzione. «La nostra scelta è Marwan Barghouti (in carcere in Israele, ndr). Questo è quello che sostengono tutti: le Brigate, il Fatah, la gente nelle strade. Non facciamo pressioni, ma chiediamo che sia lui a decidere» aggiunge Nasser sottintendendo una risposta positiva. Ogni tanto il palestinese si interrompe e usa uno dei tanti telefonini di ultima generazione. Insieme ad altri è in continuo contatto con l'entourage di Barghouti. L'attesa è forte, per i giovani dell'intifada sarebbe un colpo micidiale se il loro capo si astenesse dalla gara elettorale. I tanzim delle Brigate sembrano sicuri della partecipazione di Marwan, anche se notizie da Ramallah indicano il contrario. «Aspettavamo un annuncio per stasera, ma il suo legale non ha potuto visitarlo in prigione e dunque serviranno un paio di giorni», comunica un portavoce dopo l'ultima telefonata.
Il messaggio politico delle Brigate raccoglie gli umori più genuini. I successori temporanei di Arafat devono rispettare le regole, se le violano o provano a spartirsi la torta marginalizzando le altre forze «qui succederà qualcosa di brutto». Alludete a una terza intifada, questa volta contro l'Autorità palestinese? «Dipende da come si comporteranno i dirigenti» è la replica dei militanti critici persino verso Arafat. «Era il simbolo della causa ma governava in modo primitivo. Non ha garantito libertà di giudizio, non ha riformato le istituzioni. Dobbiamo spezzare il bozzolo che impedisce il cambiamento. Temo però che alla Mukata abbiano già preparato il pacchetto sopra le nostre teste».
«In caso di una vittoria di Abu Mazen — ammoniscono — possiamo accettare il verdetto a condizione che non superi quattro linee rosse». E le elencano: Stato palestinese nei confini del 1967 senza alcuna eccezione territoriale, Gerusalemme capitale, riconoscimento internazionale, diritto al ritorno per i profughi palestinesi. I responsabili delle Brigate, su quest'ultimo punto, fanno una concessione. «Israele potrebbe anche non applicarlo però deve riconoscere la responsabilità morale».
Nessun cedimento sul proseguimento della lotta armata, altra questione-chiave per l'intero movimento. Abu Mazen, in passato, ha criticato la degenerazione violenta e si è detto disposto a fermarla, conquistandosi il plauso internazionale e gli strali avvelenati dei miliziani. «In nome di che cosa dovremmo bloccare l'intifada? Non possiamo trascurare la reazione del popolo dopo migliaia di morti, feriti e arrestati. Nessuno ha diritto di dirottare la rivolta fintanto che c'è l'occupazione». E a Nablus gli estremisti si riconoscono nell'intervento del dirigente in esilio Faruk Khaddoumi, a favore della resistenza: «Adesso è lui il capo del Fatah e ha esortato a continuare sulla nostra strada». Una stoccata alla attuale leadership che avrebbe usurpato la sua poltrona.
Vista da questa città assediata, culla di decine di kamikaze, il quadro diplomatico è nero. La visita di Colin Powell a Ramallah, annunciata per il 23 prima delle dimissioni del segretario di Stato Usa, non suscita emozioni perché gli attivisti hanno perso fiducia nella politica della Casa Bianca. Le pressioni di Washington su Israele affinché permetta agli arabi di Gerusalemme Est di votare servono a poco. Per i militanti «Bush è leale solo con Sharon».
Sempre a pagina 12 Mara Gergolet in «L'erede del raìs piace troppo a Israele»intervista un "militante" delle brigate. Non solo costui nell'articolo non viene mai chiamato terrorista: la sua rivendicazione della lotta armata non viene contestata nè criticata.
Ecco l'articolo:

GERUSALEMME — «Abu Mazen? Fa parte del progetto americano-israeliano. Come può una persona piacere al nemico e al suo popolo allo stesso tempo? Se sarà eletto primo ministro lavorerà per Israele». Emad, nome di battaglia Abu Nidal, miliziano delle Brigate dei martiri di Al Aqsa, è finito in carcere per qualche settimana un anno fa, quando Abu Mazen era primo ministro.
Fu uno dei pochi tentativi, compiuti da quel governo, di arrestare come chiedeva Israele «i terroristi». E domenica scorsa ci sarebbero proprio loro, gli irriducibili che gli hanno giurato vendetta («questo è l'uomo che arrestava i combattenti per compiacere Sharon»), dietro l'attacco contro il presidente in pectore dell'Autorità nazionale palestinese. Per quanto nessuno, di quel gesto, abbia voluto rivendicare la paternità.
Ma quali sono le principali colpe di Abu Mazen? Perché non volete che diventi presidente?
«Perché non crede nella scelta della resistenza armata come opzione contro l'occupazione. Abu Mazen parla sempre di negoziati e di trattative pacifiche. Ma questa è una strada che abbiamo già provato per dieci anni dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993. Quali risultati abbiamo avuto? Niente. Al contrario, l'occupazione è aumentata».
Premerete anche voi, come intendono fare le Brigate Martiri Al Aqsa in Cisgiordania, per candidare a presidente Marwan Barghouti, anche se si trova in un carcere israeliano?
«Barghouti purtroppo non sarà candidato. Ha un grande seguito popolare, condivide le nostre idee e paga un grosso prezzo per le sue lotte. Ma, visto che è anche molto rispettoso della dirigenza del Fatah e non vuole spaccarla
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