Il voto dei palestinesi di Gerusalemme Est pregiudicherebbe il negoziato sulla città
ma u.d.g. ignora il problema
Testata:
Data: 15/11/2004
Pagina: 9
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: Il voto deciderà il futuro della causa palestinese
A pagina 9 de L'UNITA' di oggi Umberto De Giovannangeli intervista Ziad Abu Ziad, responsabile dell'Anp per Gerusalemme.
A proposito della contrarietà espressa da Silvan Shalom, ministro degli esteri israeliano, al voto degli arabi di Gerusalemme nelle elezioni palestinesi del 9 gennaio prossimo, sia il giornalista che il suo interlocutore sembrano ignorare che Shalom ha motivato la sua presa di posizione affermando che far votare i palestinesi di Gerusalemme Est rischierebbe di pregiudicare lo status finale della città, che deve essere deciso in un negoziato.
Tutto il contrario di quanto, senza che u.d.g. lo contraddica, sostiene Ziad, per il quale "la destra israeliana continua a ritenere lo status di Gerusalemme materia non negoziabile".
Ecco l'articolo:

DALL'INVIATO GERUSALEMME «Le elezioni del 9 gennaio rappresentano un passaggio cruciale per il futuro della causa palestinese. Non dobbiamo dare niente per scontato. Il confronto deve essere libero e deve investire tutti i problemi sul tappeto: dal rilancio del processo di pace all'idea di Stato che s'intende realizzare. Non dobbiamo avere paura di dividerci: la democrazia è la vera posta in gioco». A parlare è Ziad Abu Ziad, ministro per Gerusalemme dell'Anp, uno degli esponenti di punta dell'ala riformatrice della dirigenza palestinese.
I palestinesi e il dopo-Arafat. L'appuntamento decisivo sembrano essere le elezioni del 9 gennaio. C'è il rischio di una spaccatura insanabile?
«Il rischio più grande non è il caos ma l'immobilismo. È una unità fittizia, di facciata. È un compromesso al ribasso. Il rischio più grande è che a prevalere sia una logica spartitoria che amplierebbe ancor di più la distanza tra la società palestinese e le istituzioni. So bene che non è facile esercitare la democrazia quando si è sotto occupazione. Non è facile parlare di politica, di programmi, quando ti è impedito finanche la libertà di movimento. Ma l'occupazione israeliana non può fungere da giustificazione per oscurare le diverse opzioni presenti al nostro interno. Il pluralismo di vedute è una ricchezza del nostro popolo di cui dobbiamo essere fieri. Le elezioni di gennaio non decidono solo la successione a Yasser Arafat ma ci diranno se siamo stati capaci di gettare le basi per fare del futuro Stato palestinese uno Stato di diritto, fondato sul pluralismo politico, su una reale divisione dei poteri, sul rispetto dei diritti umani e civili. È questa la vera posta in gioco nel dopo-Arafat».
Il Comitato centrale di Al Fatah avrebbe indicato in Abu Mazen il suo candidato alla presidenza dell'Anp.
«Abu Mazen ha l'esperienza e le qualità per adempiere a questa importante funzione. Ma deve essere un presidente non un Raìs. Uno statista e non un Simbolo inattaccabile. Deve cioè essere coerente con quanto da lui stesso prospettato al momento della sua investitura a primo ministro: rafforzare i poteri del Parlamento, dare autonomia alla magistratura, garantire trasparenza nella gestione pubblica, combattere con la massima fermezza la corruzione».
E nei rapporti con Israele?
«Non si tratta di cercare una legittimazione a tutti i costi a scapito dei contenuti di un accordo di pace. Le basi di un compromesso possibile sono quelle definite nei negoziati di Taba. Da lì occorre ripartire per sostanziare una pace fondata sul principio dei due Stati».
Anche Sharon non si dice contrario ad uno Stato palestinese.
«Si tratta di intenderci sul concetto di Stato. Uno stato realmente indipendente deve avere piena sovranità su tutto il proprio territorio nazionale, controllo delle sue frontiere, del suo spazio aereo, delle risorse idriche. Altrimenti è un simulacro di Stato, una sorta di bantustan trapiantato in Medio Oriente. Ed è quello che Sharon sembra avere in mente».
«Il "nuovo inizio" da più parti evocato, può nascere nel concreto da una gestione condivisa del ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza?
«Sì ma a patto che questo ritiro sia parte di un piano più generale e concordato di attuazione della Road Map (il Tracciato di pace messo a punto dal Quartetto Usa-Ue-Onu-Russia, ndr.). Ma al di là delle affermazioni ridondanti, non mi pare che Sharon abbia intenzione di muoversi in questa direzione. Ciò che vedo è crescere a vista d'occhio il muro dell'apartheid, è l'ampliamento degli insediamenti in Cisgiordania. In questa ottica, il ritiro da Gaza serve a Sharon per mascherare la sua politica espansionista».
Israele e le elezioni palestinesi. Il ministro degli Esteri Silvan Shalom si è detto contrario ad una partecipazione al voto presidenziale dei palestinesi di Gerusalemme Est.
«È una pretesa inaccettabile, indice di una mentalità colonizzatrice che non porterà mai ad un vero, serio, confronto. La destra israeliana continua a ritenere lo status di Gerusalemme materia non negoziabile. Ma nessun dirigente palestinese, neanche il più moderato, accetterà mai di firmare una pace che preveda la rinuncia a una sovranità condivisa su Gerusalemme. Negoziamo l'attuazione di questo principio, l'applicazione graduale, ma sia chiaro che lo status di Gerusalemme è parte fondamentale di una trattativa. Per quanto riguarda poi le elezioni, al signor Shalom rispondo che i palestinesi di Gerusalemme non sono dei paria, ma si sentono con orgoglio parte integrante del popolo palestinese e come tale eserciteranno il loro diritto di voto, piaccia o no a Israele».
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