La chiamano ambiguità: Arafat minacciò di morte Abu Mazen
circostanza sistematicamente ignorata
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Data: 15/11/2004
Pagina: 3
Autore: Antonio Ferrari- Alberto Stabile
Titolo: Battesimo di fuoco per l'ex premier - Sparatoria a Gaza
In prima pagina e a pagina 3 il CORRIERE DELLA SERA di oggi, 15-11-04, pubblica un articolo di Antonio Ferrari sul "battesimo del fuoco" di Abu Mazen. Nel complesso corretto l'articolo, quando si tratta di spiegare i motivi del fallimento di Abu Mazen come primo ministro elenca: "attentati suicidi, veti di Arafat emancati impegni da parte di Israele".
In realtà, mentre Israele cercò di favorire la leadership del primo ministro, Arafat non si limitò ai veti: giunse, come risulta da un'intervista a Newsweek allo stesso Abu Mazen, a minacciare quest'ultimo di morte. Una circostanza omessa sistematicamente dai quotidiani italiani.
Ecco l'articolo, "Battesimo di fuoco per l'ex premier":

Sognava un solenne battesimo da erede politico di Arafat, per sperimentare con i nuovi dirigenti di Hamas e della Jihad Islamica le sue doti di negoziatore, per spiegare la futura strategia dell'Autorità nazionale palestinese, e per dimostrare che attorno al tavolo delle trattative è più credibile del suo predecessore. A Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che non ha mai indossato la divisa e probabilmente non ha mai impugnato una pistola, è toccato invece un battesimo di fuoco. Probabilmente non hanno sparato per ucciderlo, ieri a Gaza, dove doveva raccogliere scontati applausi dopo la commemorazione del defunto presidente. Però un proiettile (non orientato intenzionalmente, dicono) ha ammazzato una delle sue guardie del corpo. Se non era un attentato, si è trattato sicuramente di un avvertimento mafioso per condizionare l'arduo cammino del felpato delfino, grigio e serio come tutti i suoi abiti.
Abu Mazen è tutto ciò che non era Arafat. L'immagine, assai poco carismatica, è quella di un professore di matematica. Lavora anche 15 ore al giorno. Lo infastidiscono giornalisti e telecamere. Compare il meno possibile. Piace agli americani e a Israele, ma nessuno ha dimenticato la sua tesi di laurea sull'Olocausto, dove esaminava le teorie minimaliste di chi sostiene che le vittime della Shoah furono assai meno di quante tutti conosciamo. Ma il rispetto di cui gode a Washington e a Gerusalemme da oltre 10 anni ha spinto ieri gli estremisti a gridargli «fantoccio della Cia e del Mossad». La stessa accusa rivolta al giovane leone Mohammed Dahlan, impegnato a sostenerlo nella corsa al vertice dell'Anp.
Pochi minuti prima della sparatoria, si è saputo (forse con interessato anticipo) che il Fatah, lo storico partito laico fondato da Arafat, aveva deciso appunto di scegliere Abu Mazen come candidato unico alle elezioni presidenziali, previste a gennaio. Scelta dovuta, in quanto Mahmoud Abbas è il nuovo leader dell'Olp, struttura portante dell'Anp. Ma scelta rischiosa: perché il personaggio non gode di grande popolarità, in quanto è troppo sofisticato per piacere alle masse del Fatah, che invece tifano per Marwan Barghouti, condannato all'ergastolo in Israele ma ritenuto un leader forte e carismatico.
Contro Abu Mazen, tessitore degli accordi di pace di Oslo, riaffiorano tutti coloro che vi si erano opposti, dal ministro degli esteri-ombra Farouk Khaddoumi, in esilio a Tunisi ma che annuncia d'essere pronto a scendere a Gaza, dopo che dalla Striscia usciranno i soldati israeliani e verranno smantellati gli insediamenti ebraici, come prevede il piano di Sharon. Poi vi sono gli avversari interni, forse più pericolosi di Hamas e della Jihad: sono i Tanzim, giovani armati della base del Fatah; le Brigate Al Aqsa, ribattezzate con il nome del leader defunto; gli uomini di Mussa Arafat, cugino dell'ex presidente, e tutti quei gruppuscoli armati, orfani delle ambiguità dello scomparso, che si stanno preparando a salutare con attentati il nuovo corso dell'Anp.
Ecco perché la sfida di Abu Mazen, almeno in questa prima fase di estrema incertezza, è quasi una scommessa con la morte. L'erede politico designato, prima di lanciare segnali di fumo a Israele e rivitalizzare il processo di pace, intende preparare un programma, raccogliere su di esso un ampio consenso e rilanciare quella tregua che, l'anno scorso, quando era primo ministro, resse per alcune settimane, prima d'essere infranta da attentati suicidi, veti di Arafat, e mancati impegni da parte di Israele, che aveva promesso di aiutare il premier palestinese.
Il pragmatico Abu Mazen ora non ha più alibi. Sa che non può fallire. Vicino ai 70 anni, non è certo l'uomo del futuro. Può però traghettare l'Anp fuori dalla palude. Però, attenzione! Chi lo conosce bene avverte: rispetta la parola data, nella forma è suadente, ma durante i negoziati sa essere durissimo. Certamente più di Arafat.
Anche per Alberto Stabile, su LA REPUBBLICA, a determinare il fallimento di Abu Mazen fu "l'intransigenza di Sharon", mentre i "veti" di Arafat divengono, con un eufemismo ancora più annacquato "l'ambiguità" del defunto raìs.
(a cura della redazione di Informazione Corretta)
Ecco l'articolo, "Sparatoria a Gaza", in prima pagina e a pagina 6:

La campagna elettorale per il dopo Arafat è cominciata sotto il segno della violenza. La prima sortita pubblica, a Gaza, del cauto Abu Mazen, il leader dell´Olp impegnato nella corsa alla successione, ma tutt´altro che benaccetto ad alcuni gruppi radicali, è stata funestata ieri da una violenta sparatoria che ha lasciato sul terreno due morti e quattro feriti. L´onnipresente Al Jazeera ha suggerito che s´è trattato di un attentato non riuscito contro il potenziale erede di Abu Ammar. Ma l´ambizioso boss di Gaza, Mohammed Dahalan, che accompagnava Abu Mazen, ha affermato, in polemica con la Tv del Qatar, che la sparatoria è avvenuta in maniera accidentale.
Quel che è possibile affermare, dalle testimonianze arrivate da Gaza, è che si è trattato per lo meno di una contestazione violenta e preordinata, diretta contro l´ex premier che, agli occhi dei gruppi più estremisti, ha osato stringere la mano di Sharon. Per quattro mesi, tra la primavera e l´estate del 2003, Mahmud Abbas (meglio noto col suo nome di battaglia, Abu Mazen) è stato, infatti, primo ministro dell´Autorità palestinese, nominato da Arafat, sotto le pressioni degli Stati Uniti, dell´Europa e d´Israele. L´intransigenza di Sharon e l´ambiguità di Arafat lo hanno poi costretto alle dimissioni.
Oggi, lo stesso Abu Mazen, di cui è noto il giudizio negativo espresso contro l´Intifada armata e contro il terrorismo in generale, appare come uno dei candidati favoriti nello scrutinio per eleggere il nuovo Presidente dell´Autorità palestinese che, proprio ieri, la leadership provvisoria ha fissato per il 9 gennaio 2005.
Di un altro particolare bisogna tener conto nel ricostruire questa giornata per molti versi cruciale. Lo scontro di Gaza è esploso poche ore dopo che era corsa voce che il Comitato Centrale di Al Fatah, il movimento ultramaggioritario tra i palestinesi laici, aveva scelto Abu Mazen come suo candidato alle presidenziali. Rilanciata da alcune agenzie di stampa, l´indiscrezione era stata più tardi parzialmente derubricata al livello di una «decisione informale». Ma tant´è.
La scelta di Abu Mazen di presentarsi a Gaza, sotto la tenda per le condoglianze piantata, secondo tradizione, sul lungomare dove un tempo sorgevano gli uffici di Arafat, è stata sicuramente una scommessa. Ma, accanto all´ex premier, a garantire per la sua incolumità, c´era Mohammed Dahalan, "l´uomo forte" di Gaza, ex responsabile della Sicurezza interna proprio nel governo di Abu Mazen.
All´improvviso, mentre migliaia di persone si accalcavano nella tenda, un gruppo di uomini armati s´è avvicinato gridando slogan del tipo, «Abu Mazen e Dahalan servi della Cia».
A proteggere il leader dell´Olp c´erano agenti della Forza 17, il reparto creato da Arafat per la sua difesa personale e seguaci di Dahalan. Lo scontro è stato inevitabile. Mentre Abu Mazen, stretto dalle proprie guardie del corpo, veniva spinto all´interno della tenda e gettato letteralmente a terra per evitare i colpi, le due schiere si affrontavano a raffiche di Kalashnikov.
Difficile stabilire l´esatta identità politica degli assalitori in una situazione di pre-guerra civile, come quella di Gaza, dove casacche e schieramenti cambiano di continuo. Secondo alcuni, appartenevano a una formazione delle Brigate Al Aqsa scese in guerra contro altre fazioni rivali.
Per Abu Mazen il colpo è durissimo. Come può pretendere di conquistarsi il consenso (che non ha) tra i palestinesi se alla sua prima pubblica uscita scorre il sangue? Ancor più negativo è il colpo alla credibilità di Dahalan, la cui autorità e il cui controllo del territorio, evidentemente, non è tale garantire l´incolumità di una personalità di tutto rilievo come Abu Mazen. E questa carenza, in una logica, diciamo così tribale, o mafiosa, è un peccato imperdonabile.
Stiamo parlando di uno dei massimi esponenti della cosiddetta "giovane guardia". I quarantenni politicamente cresciuti nei Territori, che sperano di trovare oggi quello spazio che il sistema di potere costruito da Arafat aveva loro negato. A suo tempo sospettato di fomentare i disordini che hanno reso Gaza simile a un Far West o a una provincia libanese, Dahalan ha criticato Arafat, quando questi era in vita, ne ha cercato la legittimazione, quando era irreversibilmente malato, e, morto il raìs, è tornato a perorare la causa delle riforme e di «una forte leadership» come elementi imprescindibili per garantire la transizione. Anche se è apparso accanto ad Abu Mazen, Dahalan non ha mai smesso in questi giorni di pensare a se stesso come il candidato ideale.
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